di Massimo PULINI
Il libro di Alessandro Agresti offre una preziosa occasione per riflettere sull’organizzazione del vasto laboratorio di idee e opere che, nella Roma della seconda metà del Seicento, ruotava intorno alla figura di Carlo Maratti.
Il geniale artista, dal pensiero eclettico e dallo straordinario talento, portò la pittura barocca verso la piena maturità dandole una nuova misura e un elegantissimo canone formale.
Verrebbe da dire che il termine di ‘bottega’ non riesca più a contenere l’articolata fucina che si dispiegava sotto la direzione del maestro marchigiano, tanti erano gli allievi e i collaboratori che facevano fronte alle innumerevoli richieste, provenienti da ogni parte del mondo cattolico.
Per comprenderne la fortuna e la diffusa considerazione basti pensare che prima nel 1664 e poi nel 1699 Maratti venne eletto a Principe dell’Accademia di San Luca, una carica che, senza precedenti nella storia di quell’istituzione e per volere del pontefice Clemente XI Albani, nel 1706 gli fu conferita senza scadenza, ‘a vita’, come se il già aristocratico termine di Principe dovesse per lui venire equiparato a quello di un Re.
Se non propriamente un regno il suo progetto artistico prese la forma di una grande impresa e l’ingegnosa creatività del regista, quasi in analogia al modus operandi di Reni, di Rubens o di Bernini, si poteva permettere di distillare le invenzioni, intervenendo direttamente sulle opere in forma rapsodica e lasciando ampio margine al collaudato lavoro di squadra. Una eccellente schiera di collaboratori aveva infatti acquisito, a scopo mimetico, la lingua formale del maestro lasciando, nel corso dell’esecuzione di copie o di varianti sul modello, solo esigue tracce individuali che tuttavia possono ora permetterci di discernere e attribuire.
Agresti parte precisamente dai valori e dalle attitudini riconoscibili nello stile di Carlo e dei suoi singoli allievi per redigere un’acuta distribuzione, un’adeguata pertinenza individuale, dei tanti esemplari che invece il mercato riconduce ancora genericamente a quella ricca sorgente creativa e al solo nome di Maratti.
Nei decenni scorsi si è registrata una lunga stagione di studi dedicata soprattutto alla raccolta di documenti e riscontri storici, a cui meritoriamente si sono applicate figure di ricercatori come Stella Rudolph, Francesco Petrucci, Stefania Ventra e altri. Ora l’intento di Alessandro Agresti è quello di scegliere alcuni significativi casi, tematici e di genere, per esemplificare il processo formativo di certe fortunate opere. L’autore fornisce strumenti critici per giungere alla distinzione di quelle che sono pienamente autografe da altre nelle quali si evidenzia solo parzialmente la mano del Maratti, fino a segnalare le parti o le intere redazioni che invece si devono a Giuseppe Bartolomeo Chiari, a Giacinto Calandrucci, a Giuseppe Passeri, ad Andrea Procaccini, ad Agostino Masucci, a Ludovico Mazzanti, a Sebastiano Conca, a Luigi Garzi, a Niccolò Berrettoni o a Michelangelo Ricciolini.
Questo semplice elenco di nomi, dall’eccellente rango pittorico, rimase sostanzialmente fedele al marchio dell’impresa artistica intitolata al Principe Maratti, indicandoci quanta forza di gravità doveva esercitare il maestro. Per ognuno di loro Agresti aggiunge opere nuove, perfezionandone la percezione e indicando gli sviluppi espressivi. Ammirevole la capacità dell’autore nel trovare definizioni e aggettivi appropriati per farci accedere e concordare al cospetto di differenze che a un primo sguardo potrebbero sfuggire:
‘Una più decisa tornitura dei volumi’… ‘una forma tremula e aggraziata’… ‘una certa meccanicità nel restituire le pieghe delle vesti’… ‘un fare più sintetico e franco’… ‘un gentile viraggio dei toni’…‘un pennello più accurato e diligente’… ‘una scioltezza, con gesti ampi e un intenso senso di movimento’ o…‘un nettare più zuccheroso e blandente’
sono solo una rapida selezione dei percorsi di avvicinamento alle diverse sfumature che si evincono in quel compatto gruppo di personalità.
Nel libro, queste distinzioni trovano terreno sui temi della Fuga in Egitto, della Madonna col Bambino e angeli, dello Sposalizio mistico di Santa Caterina, che furono i leit motiv del successo marattiano, ma anche sulle scene utili alla canonizzazione di un religioso come Juan de Palafox, o nei cantieri ancora più ufficiali delle basiliche e delle cupole, che videro lavorare molti esponenti della più fiorente industria pittorica.
Anche la ritrattistica, campo nel quale Carlo ha tracciato nuovi canoni compositivi e raffinatezze apicali, presenta analoghi quesiti attributivi e il dilemma delle repliche non riguarda solo le effigi moltiplicate dei cardinali o dei papi.
Il terzo capitolo è dedicato al rapporto con le grandi famiglie aristocratiche romane e non solo, che furono il tramite di un’ascesa che ai nostri occhi appare senza ostacoli.
Alessandro Agresti, nell’ultima parte del libro, offre un Regesto generale delle opere che considera autografe di Carlo Maratti, compiendo un atto di sistemazione e chiarezza encomiabile. Ne deriva un corpus che ha potato, dall’albero primario, le tante fronde posticce che il mercato ha impropriamente aggiunto in questi ultimi decenni.
Dunque un vasto lavoro che è partito dal possente tronco del maestro per giungere a disegnare le più varie e sensibili ramificazioni.
Massimo PULINI Montiano, 26 gennaio 2023