di Massimo PIRONDINI
“Un quadretto d’una santa Maria Maddalena nel Deserto con un paesetto, bistondo da capo, et una cornice di legno dorata, dipinto in taola”.
Così è espressamente citato un dipinto su tavola, centinato, di Giovanni Andrea Donducci detto il Mastelletta (Bologna, 1575 – 1655), nel libro degli acquisti del cardinale Benedetto Giustiniani dal titolo “Entrata della Guardarobba”, manoscritto (1600-1611 ca.) conservato all’Archivio di Stato di Roma[1].
E’ ben nota la straordinaria importanza, nella capitale pontificia del XVII secolo, di quel ramo della famiglia Giustiniani trasferitasi nel 1566 a Roma, da Scio, ove, con Giuseppe Giustiniani, aveva creato una immensa fortuna con il commercio del mastice e dell’allume. Di questi i due figli maschi, Benedetto (Scio,1554 – Roma, 1621) e Vincenzo (Scio, 1564 – Roma, 1637), avranno un ruolo da protagonisti nella società romana del tempo: il primo, abbracciata la carriera ecclesiastica e, cardinale Legato a Bologna dal 1606 al 1611, stringerà ulteriormente le fortune dei Giustiniani al successo presso la curia pontificia, il secondo asseconderà questa ascesa con l’operosità nell’esercizio finanziario, accrescendo ulteriormente la già notevole ricchezza e potere della famiglia.
Altrettanto nota fu la loro enorme raccolta di opere d’arte, dipinti e sculture[2], la collezione Giustiniani, che si accrebbe attraverso una perfetta intesa tra i due fratelli, il cardinale Benedetto e il marchese Vincenzo; ciò fino al 1621, data di morte del primogenito.
La Maria Maddalena nel deserto di Mastelletta fu dunque un acquisto di Benedetto che aveva una particolare predilezione per questo artista[3], come del resto per un altro bolognese, Lorenzo Garbieri, pure lui portato a dipinger scene “a foggia di notte” o “a lume di candela”, termini abbastanza frequenti nelle descrizioni delle opere scelte dal prelato, a preziosa indicazione dei suoi gusti di collezionista.
Ritroviamo il dipinto nell’inventario post mortem (1621) del cardinale[4], a documentare il suo passaggio nella collezione del fratello Vincenzo ed è ancora citato nell’altro inventario stilato alla morte di questi (1638)[5], restando poi nella raccolta Giustiniani di Roma fino agli inizi del XIX secolo.
A quel tempo le prime alienazioni di rilievo delle opere d’arte della collezione trovarono una formale ufficializzazione in una sorta di patto di famiglia, in tal senso, sottoscritto, il 31 marzo 1803, dall’allora principe Vincenzo Giustiniani e dai suoi fratelli, Lorenzo e Giacomo[6]; pochi anni dopo, nel 1812, è stampato, in Parigi, un vero e proprio catalogo, redatto da C. P. Landon[7], con schede e relative incisioni, di ben 155 dipinti, colà inviati dallo stesso Vincenzo e destinati alla vendita.
Fra tali opere, illustrata da una stampa di Charles Normand[8] e da una scheda con errata attribuzione a Francesco Maria Rondani[9], è pure la tavola centinata con la Maddalena di Mastelletta già di Benedetto, che seguì la sorte dell’intero blocco del catalogo Landon, acquistato, nel 1815, dal re di Prussia Federico Gulielmo III.
A Berlino alcuni dipinti del gruppo Giustiniani entrarono a far parte della costituenda pinacoteca prussiana[10], altri, fra cui la Maddalena in oggetto, furono dislocati in altre sedi o castelli del regno. Di essa, come di tanti di questi ultimi, è quasi impossibile ricostruire oggi le vicende, specie dopo i tragici eventi del secondo conflitto mondiale e la divisione delle due Germanie.
Dopo spostamenti complessi e innumerevoli, alcuni andarono persi, altri furono venduti e comparvero, qui e là, in aste europee nel secondo dopoguerra.
Nel 1973, Ugo Ruggeri, in un articolo comparso in “Critica d’Arte”[11] rendeva nota, senza metterla in relazione con l’esemplare Giustiniani, una Maddalena su tavola di Mastelletta in collezione privata di Bologna[12], e così, qualche anno dopo, Anna Coliva nella sua monografia[13] dell’artista (1980). In seguito, nel 2001, la stessa studiosa tornava a pubblicare l’opera, riconoscendovi il perduto quadro del cardinale Benedetto.
In effetti la tavola di collezione bolognese, poi pervenuta ad una galleria antiquaria del capoluogo emiliano[14], poteva essere identificata con quella Giustiniani: corrispondevano le misure fornite dagli inventari seicenteschi (palmi 2 e mezzo per 2, circa) e simile sembrava pure la scena rispetto all’incisione stampata nel volume del Landon.
A confutare tali certezze giunge ora il ritrovamento di un altro del tutto analogo soggetto, conservato presso una raccolta privata di Milano: pure questo raffigura la Maddalena seduta in preghiera in un anfratto oscuro di rocce e di fronde con, sullo sfondo, un luminoso squarcio di cielo sopra un paesaggio azzurrino; è su tavola, e misura cm 61 x 40 (contro i cm 62 x 40 dell’altra).
Indubitabile l’autografia di entrambe le opere, per ragioni stilistiche e qualitative, ma va detto che questa recente scoperta ha però tutte le carte in regola per essere considerata il vero perduto “Mastelletta” già dei Giustiniani.
Le due tavole, pur somiglianti, differiscono infatti in molti particolari, fra cui l’apertura di cielo, in alto, ed il paesaggio di sfondo; dettagli che, fra l’altro, trovano del tutto rispondente l’esemplare milanese alla incisione di Charles Normand visibile nel catalogo del 1812 di C. P. Landon.
Di essi il più evidente è l’apertura paesistica ove, perfettamente collimanti fra loro, il quadro milanese e la stampa ottocentesca presentano il picco montano, al centro, che spicca con evidenza dalle colline retrostanti, mentre nel dipinto bolognese esso rimane decisamente al di sotto di queste.
E’ comunque nel verso della tavola milanese che si trovano gli irrefutabili riscontri per la sua identificazione con la Maddalena Giustiniani: cinque sigilli in ceralacca di cui converrà esaminare distintamente le caratteristiche.
Primo sigillo: è piuttosto rovinato e poco leggibile.
Si tratta di un blasone a sei figure troncato ed interzato da due linee parallele verticali. Poiché due di queste figure sono decifrabili come un’aquila ed una torre, sembra probabile possa trattarsi di uno stemma Giustiniani ancora seicentesco, sul tipo di quello visibile nel frontespizio del così detto “Cabreo Giustiniani”[15] del 1687.
Secondo sigillo: è a forma ovale, con orlo zigrinato lettere “V G” intrecciate in elaborate volute.
Il bollo ritorna in altri dipinti del gruppo Giustiniani inviati a Parigi, pubblicati da Landon (1812) e poi venduti al re di Prussia: ad esempio nel verso del Ritratto di giovane con un offiziolo in mano di Lorenzo Lotto (Berlino, Gemaldegalerie)[16], oppure in quello del Riposo durante il ritorno dalla fuga in Egitto di Orazio Sammachini[17], già reso noto da J Winkelmann[18] e recentemente ricomparso sul mercato antiquario con scheda di L. Peruzzi[19]. Sia Danesi Squarzina, sia la Peruzzi identificano il sigillo con quello del marchese Vincenzo Giustiniani, il fratello del cardinale Benedetto, ma forse potrebbe invece riferirsi al Vincenzo autore della spedizione da Roma, agli inizi del XIX secolo, di questo gruppo di quadri, per la proposta di alienazione parigina.
Si veda, in questo senso, la tipica zigrinatura del bordo, di gusto già ottocentesco.
Terzo sigillo: raffigura uno scudo con le lettere “FF”, sormontato da una corona e da un leone armato di scimitarra. Ritroviamo questo bollo, di difficile identificazione, nel verso di altri dipinti della vendita Giustiniani: nel Ritratto di procuratore veneziano di Domenico Tintoretto e nella Madonna col Bambino e S. Giovannino di bottega del Francia (entrambi a Berlino, Gemaldegalerie)[20].
Quarto sigillo: reca un’aquila entro uno scudo coronato affiancato da due telamoni.
Riconosciamo anche questo nelle sopra citate tavole della bottega del Francia e del Riposo durante il ritorno dalla fuga in Egitto di Sammachini[21]. Danesi Squarzina lo riconosce come il bollo del Ministero delle Finanze prussiano.
Quinto sigillo: è rotondo con un’aquila al centro e, intorno, una scritta solo parzialmente leggibile (…LICHE MUSEEN). Figura anche nel telaio del Ritratto di giovane con un offiziolo in mano del Lotto. Indica, comunque, il passaggio dell’opera in un museo prussiano.
Questo per ciò che riguarda l’esemplare milanese; da parte sua la tavola bolognese reca soltanto, nel verso, la scritta a penna e inchiostro, “Masteleta 15”.
Trattandosi, si è detto, in entrambi i casi, di opere autografe e dello stesso momento stilistico, sarebbe forse impresa assai problematica individuare quale delle due, pure a distanza di qualche anno, abbia preceduto l’altra.
Certo è che, appurato che la tavola Giustiniani è quella milanese, anche tenendo conto dell’avvicendarsi di diverse mani nella stesura della “Entrata della Guardarobba”(1600-1611)[22] del cardinale Benedetto, sarebbe ragionevole, per l’esecuzione di questa Maddalena, tenere il 1611 come termine ante quem ed il 1606 (arrivo del prelato a Bologna) come termine post quem.
Nulla si sa delle vicende del “Mastelletta” bolognese prima della segnalazione di Ruggeri (1973), e poco, pure, di quello milanese: quest’ultimo pervenne, nei primi anni Novanta, nella famiglia degli attuali proprietari, proveniente, pare, da un’asta svizzera.
Negli stessi tempi, ma non sappiamo se nella stessa occasione, capitò, nella stessa raccolta, anche un altro pezzo del catalogo Landon/Giustiniani, il sopra citato Riposo durante il ritorno dalla fuga in Egitto di Orazio Sammachini. E di quest’ultimo il Winkelmann[23] ci forniva inoltre la preziosa notizia di una provenienza più antica: il passaggio in un’asta Leo Spink, a Berlino, del 6 maggio 1971.
Massimo PIRONDINI Reggio Emilia 5 Febbraio 2023
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