di Nica FIORI
La basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Una “Gerusalemme traslata” nella dimora romana di sant’Elena
Per tutto il Medioevo il pellegrinaggio a Roma, al pari di quello a Santiago di Compostela, è stato vissuto come un itinerario spirituale verso un luogo santo, ricco di reliquie dei martiri e di Cristo.
La città eterna era una sorta di “Gerusalemme traslata” e, poiché Gerusalemme era difficilmente raggiungibile, specialmente dopo la conquista araba della Palestina, i pontefici avevano incoraggiato la prassi del pellegrinaggio romano come sostitutivo di quello d’oltremare. La chiesa che maggiormente rispecchia questa immedesimazione è Santa Croce in Gerusalemme, per la presenza delle reliquie della Passione, rinvenute secondo la tradizione da quella straordinaria ricercatrice di memorie cristiane che è stata sant’Elena. Si tratta, in effetti, di una basilica che dal punto di vista spirituale può reggere benissimo il confronto con le quattro basiliche papali.
Secondo quanto racconta Eusebio di Cesarea (265 circa – 340), nella sua Vita di Costantino, Flavia Giulia Elena, nominata Augusta dal figlio Costantino, in età già molto avanzata decise di recarsi in Terra Santa. Si può risalire alla presunta età di circa 78 anni, perché ne avrebbe avuti 80 al suo ritorno e il suo viaggio, durato due anni, viene datato dagli storici al 327-328, o a un periodo un po’ precedente. Il suo pellegrinaggio sui luoghi del Redentore viene descritto da Eusebio come una sorta di corteo trionfale in rappresentanza del figlio, a celebrazione di quell’amore per il prossimo propugnato dal cristianesimo:
“L’Augusta Elena visitò tutto l’Oriente nella magnificenza della sua dignità imperiale e beneficò con innumerevoli donativi sia le popolazioni nel loro insieme, città per città, sia i singoli individui che si rivolgevano a lei … fece regali senza fine ai poveri ignudi e derelitti … liberò altri che penavano nelle prigioni e nelle miniere; riscattò quanti soffrivano sotto il peso dei potenti, altri richiamò dall’esilio” (Vita di Costantino, III, 44).
La chiesa sul Monte degli Ulivi e quella della Natività a Betlemme devono a lei la loro edificazione, ma ciò che si ricorda maggiormente del suo viaggio, e a cui deve la sua “santità”, è il ritrovamento della vera Croce (Inventio verae Crucis), di cui parlano diverse fonti datate tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, tra cui Gelasio (vescovo di Cesarea), Ambrogio, Rufino di Aquileia, Paolino di Nola.
Eusebio di Cesarea, invece, non ne parla, ed è lecito chiedersi come mai. Forse perché nella sua Vita Constantini voleva celebrare esclusivamente l’imperatore come edificatore della chiesa del Santo Sepolcro, oppure, come fa notare Michael Hesemann nel suo libro “Titulus Crucis. La scoperta dell’iscrizione posta sulla croce di Gesù” (1999, ed. italiana 2000), voleva forse evitare il riferimento a un patibolo, che ancora due decenni prima era visto come strumento infamante di pena capitale, visto che i suoi lettori erano culturalmente romani. Basti pensare che la raffigurazione della Crocifissione è assente inizialmente nell’arte cristiana e anche nella prima basilica costantiniana di Roma, San Giovanni in Laterano, non è rappresentato il Crocifisso, ma il Pantocratore.
Anche sant’Ambrogio, diversi anni più tardi, non ignorava i rischi di un fraintendimento del culto della croce e spiegava perciò, nella sua orazione funebre in onore dell’imperatore Teodosio (De obitu Theodosii), che Elena
“rese omaggio al Re, non certo al legno, perché sarebbe stata follia pagana ed empia superstizione”.
Il rinvenimento della croce, che pure è un fatto storico avvenuto al tempo di Costantino, divenne presto oggetto di numerose leggende. Secondo le Storie della Chiesa dell’antichità, Elena riuscì a farsi rivelare da un ebreo il punto dove era sepolta la croce, che venne dissotterrata insieme a quelle dei due ladroni, e ritrovò anche il suo “titulus” (la tavola con la scritta “Gesù il Nazareno, re dei Giudei” in ebraico, in latino e in greco), che era staccato.
San Macario, vescovo di Gerusalemme, accompagnato dall’imperatrice madre, portò le tre croci in processione e, avendo toccato con ognuna di esse una donna moribonda, pare che costei miracolosamente guarisse al contatto della terza croce (secondo un’altra versione si trattava del cadavere di un giovane). La madre dell’imperatore divise la santa Croce in tre parti: una la lasciò a Gerusalemme, un’altra la mandò al figlio a Costantinopoli e la terza parte (con metà del “titolo” e con i sacri chiodi), la portò a Roma dove sarebbe stata conservata in una sala del palazzo Sessorio (abitazione dell’Augusta), da lei destinata alla celebrazione del culto cristiano, che sarebbe stata poi trasformata nella basilica detta Heleniana, o anche Sessoriana, e nel Medioevo Hierusalem, denominazione che mantenne fino all’XI secolo, quando assunse la definitiva intitolazione di Santa Croce in Gerusalemme.
L’edificio paleocristiano, che traeva origine dall’adattamento di un atrio del palazzo Sessoriano (nell’ambito di un complesso imperiale di età precedente, i cui resti sono di grande interesse), viene attribuito a Costantino. La storiografia più recente, però, fa risalire l’edificio ai discendenti dell’imperatore, datandolo al 350 circa.
Nel corso del V secolo la chiesa divenne una delle stazioni liturgiche, cui i pontefici affidarono il compito di estendere la sfera d’influenza del Laterano, ma in seguito, trovandosi sempre più isolata rispetto alla città, versò per secoli in uno stato di degrado, cui alcuni papi cercarono di porre rimedio con restauri. Al X secolo risale la fondazione dell’attiguo convento (attualmente non attivo), nel quale varie comunità religiose si sono avvicendate nei secoli.
Il cardinale Gerardo Caccianemici, che sarebbe diventato papa col nome di Lucio II (1144-1145), si fece promotore di un grandioso intervento di restauro che introdusse il campanile, ancor oggi esistente, e un portico sostenuto da colonne, sormontato da un prospetto a mattoni. All’interno la chiesa fu ampliata e rinnovata in stile romanico con la suddivisione in tre navate longitudinali e un transetto continuo antistante l’abside.
Durante l’esilio avignonese, tuttavia, la basilica soffrì nuovamente una lunga fase di declino e bisognò arrivare al Quattrocento per vedere altri importanti interventi. Tra gli artisti che vi hanno lavorato si ricordano grandi nomi, quali Antoniazzo Romano, Baldassarre Peruzzi, Antonio da Sangallo, Jacopo Sansovino. E andando avanti nel tempo Pieter Paul Rubens, Corrado Giaquinto, Giovanni Paolo Panini.
Quello che vediamo ora è il risultato dei vari restauri e rifacimenti. Allo slanciato campanile romanico in mattoni del XII secolo si contrappone la scenografica facciata in travertino sormontata da statue, realizzata nel 1743 da Domenico Gregorini e Pietro Passalacqua, sotto Benedetto XIV. Agli stessi architetti si deve l’atrio ovale, una delle più riuscite creazioni del Settecento romano, sia nella struttura che nella decorazione in stucco: sembra di cogliervi la vitalità davvero straordinaria del linguaggio borrominiano, che un secolo prima aveva rivoluzionato la concezione dello spazio e della luce in alcune chiese romane.
L’interno a tre navate, con pavimento cosmatesco, è ricco di opere d’arte. Nel soffitto della navata centrale è posta una grande tela di Corrado Giaquinto (del 1744) raffigurante Sant’Elena in gloria. Significativa nel dipinto è la presenza dell’arcangelo Michele mentre abbatte Lucifero, un’allegoria del riconoscimento della Chiesa cristiana da parte dell’imperatore Costantino. Lo stesso artista ha eseguito pure la tela raffigurante l’Apparizione della Croce, nel soffitto del transetto, e due affreschi sulla parete absidale con episodi della vita di Mosè. Lo stile è quello del più delicato e arioso rococò.
Tra le opere scultoree è notevole il monumento sepolcrale del cardinale Francisco Quiñones, su disegno del Sansovino (1536); particolari sono anche le acquasantiere quattrocentesche con dei pesci a rilievo entro i catini marmorei.
Ciò che colpisce maggiormente i visitatori sono, però, gli affreschi del catino absidale, realizzati verso la fine del XV secolo. Grande scalpore aveva suscitato all’epoca il ritrovamento fortuito del “Titulus crucis” il 1° febbraio 1492, nel corso dei lavori di restauro voluti dal cardinale titolare Pedro González de Mendoza. Un ritrovamento che avvenne a ridosso della cacciata dei Mori da Granata e che Alessandro VI autenticò nel 1496 con la bolla “Admirabile sacramentum”, concedendo l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli che avessero visitato la basilica l’ultima domenica di gennaio. Si trattava proprio del “titolo” fatto incidere da Pilato, del quale si era perso il ricordo perché era stato murato, verso la metà del XII secolo, nell’arco che separa il transetto della navata centrale, presumibilmente per preservarlo da un eventuale furto.
L’inattesa riscoperta avveniva nell’attesa del Giubileo del 1500, importantissimo perché segnava la metà del secondo millennio: indubbiamente era l’occasione giusta per valorizzare la basilica con un’opera grandiosa, che doveva esaltare il rinvenimento della Croce, storicamente autenticato dalla presenza del suo titulus.
In alto al centro del catino absidale appare in un cielo stellato il Redentore benedicente, racchiuso in una mandorla di cherubini, mentre al di sotto troviamo le Storie della Vera Croce (Invenzione ed Esaltazione). Il tema si ispira a episodi riportati dalla Legenda Aurea di Iacopo da Varazze (XIII secolo), cui aveva attinto anche il grandissimo Piero della Francesca per il suo ciclo pittorico della chiesa di San Francesco ad Arezzo. Nella basilica romana il racconto leggendario si sviluppa con una certa grazia e vivacità cromatica. Andando da sinistra a destra vediamo diverse scene collocate di seguito, senza far uso di riquadri: sant’Elena discute con l’ebreo Giuda (personaggio che poi si converte al cristianesimo, cambiando il nome in quello di Ciriaco) che le indica il luogo dove erano state seppellite le croci; le tre croci vengono estratte dagli scavatori; il cadavere di un giovane, disteso sulla vera Croce, resuscita.
Al centro dell’abside, a separare le due parti del racconto, è raffigurata sant’Elena con la Croce, ai cui piedi è il cardinale Mendoza, che commissionò l’affresco.
Proseguendo troviamo Cosroe, re della Persia, che si impossessa della reliquia della Croce rimasta a Gerusalemme; l’imperatore bizantino Eraclio che sfida a duello Cosroe, rientra in possesso della reliquia e la riporta a Gerusalemme, ma la porta della città si chiude, mentre un angelo appare e invita l’imperatore a entrare con umiltà nella Città Santa, come aveva fatto Cristo; Eraclio si spoglia delle vesti imperiali e prende la croce in spalla, così la porta si apre al suo passaggio.
Decisamente interessanti sono i risultati acquisiti nell’ultimo restauro, diretto da Vitaliano Tiberia nel 1998-99 e presentato in occasione del Giubileo del 2000, sugli autori degli affreschi, ovvero Antoniazzo Romano e collaboratori, come emerso da una scritta sulla cintura dell’araldo a destra della figura centrale della santa che regge la croce. Si tratta della sigla OAER-S, che è stata interpretata come Opus Antonatii Equitis Romani. Sociorumque (Opera del Cavaliere Antoniazzo Romano. E dei Soci).
Tra quelli che hanno collaborato alla realizzazione dell’opera, dovrebbero esserci Melozzo da Forlì, maestranze umbro-toscane e anche una piccola colonia di maestranze emiliane che ruotavano intorno a Marco Palmezzano.
Alla morte del Mendoza nel 1495, subentrò come titolare della basilica il cardinale Bernardino Lopez Carvajal, che proseguì i lavori di rinnovamento, e non solo nel catino absidale. A lui si deve, tra le altre cose, il rifacimento tra il 1507 e il 1508 della volta a mosaico della Cappella di Sant’Elena, risalente alla fase più antica della chiesa. Responsabile del progetto fu il senese Baldassarre Peruzzi. Il mosaico raffigura al centro Cristo benedicente entro un clipeo, mentre lungo le diagonali della volta sono collocati quattro ovali con gli Evangelisti, intenti a scrivere i vangeli e accompagnati dai loro attributi. Gli spazi trapezoidali tra gli ovali racchiudono scene relative alla Vera Croce. Ai quattro angoli delle fasce laterali dei sottarchi entro nicchie dipinte troviamo gli apostoli Pietro e Paolo, san Silvestro papa e sant’Elena con la Croce. Ai suoi piedi questa volta è raffigurato il card. Carvajal.
Sappiamo che sotto il pavimento della cappella l’imperatrice madre aveva sparso la terra del Santo Sepolcro (da cui il nome in Ierusalem), e la stessa cappella conservava un tempo le reliquie da lei portate a Roma. Nel 1570, a causa dell’umidità dell’ambiente le reliquie furono trasferite in un vano posto al di sopra, ma nel XX secolo si preferì costruire una nuova cappella, ricavata dal lato della Sacrestia. L’architetto Florestano Di Fausto ideò lo scalone con il “Calvario”, con ai lati le stazioni della Via Crucis.
Alla cappella vera e propria si accede da un vestibolo la cui porta ha la forma, tanto per rimanere nel tema, di una croce. Accanto al prezioso reliquiario, contenente tre frammenti della santa Croce, vi sono pure altri reliquiari contenenti un chiodo della Crocifissione, due spine della corona di Cristo (il cui possesso non è attribuito a sant’Elena), una parte del titulus di legno, il dito di san Tommaso (anche questo non acquisito da sant’Elena). Vi è pure la croce del Buon ladrone, che un tempo era collocata su una parete dello scalone.
Dell’originaria parte del Sacro Legno della basilica Sessoriana non è rimasto molto, perché nel tempo molti frammenti sono stati prelevati dai pontefici e donati a importanti personalità e santuari. Il reliquario della Croce (stauroteca) è stato realizzato in argento, oro e lapislazzuli da Giuseppe Valadier nel 1803, in sostituzione di quello confiscato dai francesi nel 1798.
Su un basamento in lapislazzuli, decorato a ghirlande, poggia un’altra base con una Crocifissione a rilievo, affiancata da due angeli con lancia e spugna. Al centro della Croce contenente i frammenti lignei è raffigurata la Trinità e in basso la Madonna Addolorata.
Tuttora i pellegrini, proprio come il petrarchesco “vecchierel canuto et stanco”, che si mette in viaggio verso Roma per poter pregare davanti al Volto Santo, sono attratti da quei resti di legno, dal chiodo e dalle spine, il cui mistero può favorire l’inizio di un cammino di fede.
La basilica è tra le più importanti di Roma: è compresa infatti nel novero delle Sette Chiese, visitate tutte insieme dai fedeli in pellegrinaggio. E non solo dai pellegrini negli anni santi, ma ogni anno dai romani che nei secoli passati contrapponevano questa pratica devozionale agli eccessi del Carnevale, tanto che la visita veniva effettuata il giovedì grasso.
Per alcuni secoli, tra il IX e il XIV, a Santa Croce si svolgeva la solenne cerimonia della benedizione della Rosa d’Oro. Questa aveva luogo nella quarta domenica di quaresima, detta – dalla prima parola dell’introito – laetare o delle Rose. Il papa prendeva un ramoscello di rose e sulla più bella versava con un cucchiaino d’oro un po’ di balsamo e di muschio. Il ramoscello con il fiore benedetto, simboleggiante il Cristo, veniva poi donato al principe prescelto per quell’anno.
La basilica è legata anche al ricordo leggendario di un papa straordinariamente abile negli studi scientifici, tanto che la sua erudizione venne fraintesa e attribuita a un patto col diavolo. Si tratta di Silvestro II (nato Gerberto di Aurillac), noto anche come “il papa mago”. Il cronista Benone (XI secolo) racconta che il pontefice morì all’improvviso in questa chiesa, il 12 maggio del 1003. Gli era stato promesso da un suo demonio che non sarebbe morto, finché non avesse celebrato messa “in Gerusalemme”.
Pensando che si trattasse della città della Palestina, egli non si curò di quell’avvertimento e un giorno andò a celebrare messa in quella chiesa di Roma che appunto si chiama “in Gerusalemme”, e lì, sentendosi venire addosso la morte, supplicò gli fossero troncate le mani e la lingua, con le quali, sacrificando ai diavoli, aveva disonorato Iddio. Martino Polono nel suo Chronicon (XIII secolo) aggiunge che il papa aveva chiesto che il suo corpo fosse poi trascinato da cavalli “indomiti” per la città e che in quel luogo ove si fosse fermato venisse sepolto. La cavalcata si sarebbe fermata a San Giovanni in Laterano, dove in effetti Silvestro II venne sepolto.
Nelle due chiese di Santa Croce e di San Giovanni c’erano un tempo due epigrafi che raccontavano la leggenda di questa fine scellerata. Riferisce di averle lette, tra gli altri, lo scrittore francese Michel de Montaigne nel suo Journal de voyage in Italie, riferendosi agli anni 1580-81, quando ancora, evidentemente, si dava credito alla leggenda nera del papa stregone.
Nica FIORI Roma 5 Marzo 2023