di Sergio ROSSI
Ho accolto con particolare interesse la piccola ma interessante mostra Orazio Gentileschi e l’immagine di S. Francesco. La nascita del Caravaggismo a Roma,[1] a cura di Giuseppe Porzio e Yuri Primarosa, che rimarrà aperta presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini fino al 10 aprile, non solo per la sua indubbia qualità ma anche perché essa dà indirettamente ragione a quanto io ho recentemente sostenuto[2] circa la datazione del S. Francesco in contemplazione del Caravaggio ora presso la collezione Bigetti a Roma, e cioè quella del 1603 (Cfr,.Caravaggio allo specchio tra salvezza e dannazione, Paparo editore, Napoli 2022),precedente dunque di circa tre anni rispetto alla tela dal medesimo soggetto ora conservata presso lo stesso Palazzo Barberini ed esposta nella mostra accanto al dipinto di Gentileschi S. Francesco in estasi che costituisce il fulcro dell’esposizione.
Dico subito che trovo senz’altro condivisibile l’attribuzione di questo quadro al Gentileschi ed anche la sua datazione che nel Catalogo è posta in un arco di tempo tra il 1602 ed il 1605 ma che io tenderei a circoscrivere al 1603 o al massimo agli inizi del 1604, mettendola in relazione con la famosa testimonianza di Orazio nel settembre del 1603 al processo per diffamazione intentatogli da Giovanni Baglione: interrogato circa i suoi rapporti con quest’ultimo e col Caravaggio e quando fosse stata l’ultima volta che li aveva visti risponde che è molto tempo che non parla con loro
«perché nell’andare per Roma lui [Baglione] aspetta che io facci di berretta, et io aspetto che facci di berretta a me et anco il Caravaggio, se bene m’è amico, aspetta che io lo saluti et se bene me sono amici tutti doi ma non c’è altro tra noi; ma deve essere sei o otto mesi che io non ho parlato al Caravaggio, se bene à mandato a casa mia per una veste da cappuccino che gliela imprestai et un paio d‘ale, che la veste deve essere da diece giorni che me la remandò a casa»[3].
Nel dipinto di Gentileschi le sue peculiarità stilistiche sono tutte presenti:
«dalla descrizione smaltata dei panneggi ad alcuni dettagli fisionomici del volto, come la morfologia dell’orecchio e degli occhi o la forma appuntita del naso e delle dita del santo, che ben si accostano alle tipologie fisiche ricorrenti nel repertorio di Orazio. Eppure l’artista, in genere molto misurato nella resa delle espressioni e degli affetti, si discosta eccezionalmente dai suoi standard per provare a immedesimarsi nell’evento mistico, partendo direttamente dal modello in posa senza ricorrere a moduli precostituiti. Ciò che ne risulta è un’immagine altamente rappresentativa di un momento di passaggio, perfettamente a fuoco nella costruzione del saio di tessuto grezzo e dei suoi “cordoni da legare”, ma allo stesso tempo cupa e brutale, zoppicante e quasi anti-graziosa nella descrizione del volto rapito dell’estasi: forse per la prima volta il pittore provava a sfondare le porte della Maniera per creare un linguaggio nuovo».[4]
Si tratta di un ritratto di una persona allo stato sconosciuta, che confrontato ad esempio col S. Francesco in estasi di Giovanni Baglione ora al Chicago Art Institut e datato al 1601 appare di un caravaggismo già più maturo e consapevole: il San Francesco del Baglione è infatti reso con spietata franchezza in certi particolari anatomici, come i piedi deformati dall’artrite o l’occhio più vitreo che estatico e che mal si amalgamano con la dolcezza quasi illanguidita degli angeli che sorreggono il Santo, risultando alla fine un’opera di grande fascino ma di ancora non risolta scelta stilistica. Quello del Gentileschi, grazie anche a qualche “astuzia” compositiva, come la visione ravvicinata del corpo, che elude qualsiasi resa prospettica complicata e consente anzi una stesura appena abbozzata di quasi metà del saio del santo, appare alla fine un ritratto più compatto e omogeneo, con una precisione lenticolare nella resa del volto, certo “cupo e brutale” ma al contempo indagato con sottile acribia in ogni minimo particolare.
Quanto alla versione del S. Francesco in contemplazione del Caravaggio più prossima a questo dipinto, ritengo che sia quella ora presso la collezione Bigetti di Roma, piuttosto che quella di Palazzo Barberini.
Non torno ora sui motivi che mi hanno indotto ad attribuire la tela Bigetti al Caravaggio, del resto confortato dal parere di studiosi quali Mina Gregori, Denis Mahon, Claudio Strinati, Clovis Withfield e da ultimo Fabio Scaletti e che ho ampiamente analizzato nel mio volume, ma voglio piuttosto ribadire che il suo luminismo avvolgente, la morbidezza dell’impasto cromatico e della resa del saio, come anche i particolari delle mani e dei capelli, resi con finezza descrittiva, avvicinano questa tela a quella del Gentileschi più della versione di Palazzo Barberini, che secondo me (e secondo la maggior parte della critica) è da considerarsi più tarda.
In realtà sono almeno otto i S. Francesco in contemplazione attribuiti, più o meno con fondamento, al nostro pittore: quello già della collezione Cecconi, che io considero il prototipo autografo da cui derivano poi tutte le altre repliche o copie antiche; quello ora presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma in deposito dalla chiesa di S. Pietro di Carpineto Romano; quello della chiesa romana di Santa Maria della Concezione, nota anche come chiesa dei Cappuccini; quello di una collezione privata maltese; quello della collezione Lampronti, quello già nella chiesa del Suffragio a Sant’Arcangelo di Romagna più altri due in collezione privata.[5]
In effetti, tra le tele citate, quella ora in Santa Maria della Concezione è stata a lungo considerata come l’unica originale anche se ormai la maggior parte degli studiosi la considera a ragione come una copia, seppure di altissima qualità ed assolutamente coeva al suo prototipo. Quella Bigetti, come ho scritto all’inizio del presente saggio, è la prima versione del soggetto raffigurato e quella ora a Palazzo Barberini è una replica autografa da datare al 1606. Ma come sono giunto a questa conclusione? Innanzi tutto ritenendo che il committente del dipinto sia stato Ciriaco Mattei, che ha ospitato nel suo palazzo il nostro artista fin dal 1601 e che nel corso del tempo gli verserà centinaia di scudi e gli commissionerà almeno quattro dipinti certi di cui siamo a conoscenza ed altri che possiamo solo ipotizzare.
Del resto la predilezione di Ciriaco verso Caravaggio derivava non solo dall’apprezzamento delle sue qualità estetiche ma anche da una comune sensibilità religiosa che ci riporta proprio nell’ambito della spiritualità francescana. Già il cardinale Girolamo, fratello di Ciriaco, era membro dell’Arciconfraternita del Gonfalone e protettore dei Francescani e del convento dell’Aracoeli, mentre di Ciriaco sappiamo che era, fra l’altro, amico personale di san Filippo Neri[6]. Se poi aggiungiamo che Girolamo muore proprio nel 1603, allora possiamo ritenere che il S. Francesco in contemplazione sia stato commissionato dai parenti del cardinale come una sorta di ex voto per celebrare la sua devozione verso l’Assisiate. Anzi, rifacendoci proprio alla testimonianza del Gentileschi, possiamo collocare questo dipinto entro un arco di tempo che va all’incirca dal febbraio al settembre del 1603, mentre riteniamo che il Merisi abbia poi abbia ripreso a memoria l’immagine di S. Francesco nella successiva versione ora a palazzo Barberini.
Un recente ottimo studio di Marco Pupillo su Francesco de’ Rustici, il committente della copia dei Cappuccini[7], avvalora sia pure indirettamente la mia ricostruzione circa il collegamento tra la versione ex Cecconi e la famiglia Mattei.
Il de’ Rustici, infatti, risulta assiduo frequentatore della SS. Trinità dei Pellegrini, ed in contatto con l’ambiente oratoriano legato a S. Filippo Neri e con molti committenti del Caravaggio, come le famiglie Massimi e Cavalletti; ma soprattutto egli era in strettissimo rapporto con Ciriaco Mattei e proprio nel periodo 1601-1603, quando Caravaggio abitava nel palazzo del nobile romano. Per cui, secondo me, Francesco ha potuto vedere l’originale caravaggesco proprio presso i Mattei e farlo copiare a Prosperino Orsi, definito già ab antiquo dal Baglione col termine di “turcimanno del Caravaggio” ed in contatto anch’egli con la famiglia Mattei. Scrive infatti il Pupillo:
«Certo è che [l’autore della versione della Chiesa dei Cappuccini] dette un’interpretazione estremamente personale del dipinto, non solo “addolcendolo”, come ha osservato la Vodret, ma anche modulandolo secondo gli stilemi della pittura caravaggesca dei primissimi anni del secolo e producendo un curioso effetto di retrodatazione (di qui la collocazione al 1603 circa, prevalentemente riferita dagli studiosi all’esemplare, quando ancora lo si credeva un originale)»
e poco più avanti aggiung:
«Non è facile avanzare ipotesi su quando fu commissionata la copia, ma è certo che dovette essere eseguita poco dopo l’esecuzione del dipinto [di Carpineto], che chi scrive ritiene databile intorno al 1606».[8]
Ora, se il prototipo non è quello ora a Palazzo Barberini, che del resto se è stato dipinto a Paliano, presso i feudi Colonna, come tutta la critica è ormai orientata a ritenere non so proprio quando e dove il supposto copista avrebbe potuto riprodurre, ma quello ex Cecconi, che ho datato con buoni argomenti al 1603 e di cui ho già evidenziato la maggiore morbidezza dell’impasto cromatico rispetto alla versione del 1606, ne consegue allora che la copia dei Cappuccini è stata eseguita sì poco dopo l’originale, ma proprio nel 1603 quando il de’ Rustici può averla vista in palazzo Mattei, e che il suo carattere “addolcito” non è l’effetto di alcuna “retrodatazione” ma semplicemente è in linea con lo stile caravaggesco di quel periodo, proprio come rimarca Pupillo. E la scoperta di Primarosa di questo “incunabolo” caravaggesco del Gentileschi coevo proprio al S. Francesco di Caravaggio di cui ho discusso fin ora, e non certo a quello di Palazzo Barberini, avvalora ulteriormente la mia ricostruzione.
Caravaggio, Gentileschi e Prospero Orsi, non a caso proprio i protagonisti della querela intentata loro dal Baglione, erano dunque in questi anni non solo compagni di bisbocce, zingarate e scherzi feroci, come quello dei sonetti osceni rivolti al Baglione stesso, ma iniziavano anche a parlare un linguaggio affine dal punto di vista stilistico, anzi nel caso di “Prosperino” ad essere addirittura un copista privilegiato dell’amico Michelangelo.
Quanto ad Orazio poi, egli non è stato mai un “caravaggesco” in senso stretto, innanzi tutto per motivi anagrafici, essendo di otto anni più anziano del collega, ma anche per motivi strettamente stilistici. Eppure è indubbio che proprio in questo periodo egli si avvicini al Merisi in modo più convincente ed efficace ad esempio del Baglione, il cui “caravaggismo” risulta sempre di facciata e irrisolto al contrario di quello gentileschiano, come proprio il S. Francesco di Orazio esposto a Palazzo Barberini dimostra.
Ma oltre che dal punto di vista strettamente stilistico Baglione, Orsi, Gentileschi e Caravaggio erano accomunati in questo periodo (sia pure con tutte le differenze che abbiamo già sottolineato) da un comune afflato religioso e proprio S. Francesco era diventato uno dei loro soggetti preferiti; e questo, io credo, non solo per i suggerimenti della committenza ma anche per una personale adesione al suo messaggio spirituale. Ed a questo proposito tornano ancora una volta utili le osservazioni di Yuri Primarosa:
«Oltre ad essere un semplice strumento di lavoro, la “veste da cappuccino” prestata da Orazio a Caravaggio poteva anche costituire un oggetto di devozione. Una sorta di reliquia carica di poteri benigni, alla quale potevano essere attribuite capacità terapeutiche e apotropaiche. A questo proposito è utile ricordare che il cardinale Federico Borromeo, già nell’ottobre del 1587, aveva inviato a suo fratello malato un frammento dell’abito di un frate cappuccino, che diceva “esser morto molto santamente in [quell]’anno”: quasi certamente era lo stesso fra Felice da Cantalice (defunto nel mese di maggio), la cui salma, esposta alla venerazione dei fedeli, era stata spogliata per ben tre volte dei suoi abiti, considerati miracolosi per il contatto avuto con quel corpo.
Nella nuova interpretazione dell’immagine di san Francesco fu fondamentale per gli artisti lo studio dei modelli del Cinquecento e la familiarità con alcune pratiche di preghiera e penitenza molto diffuse al tempo, come le veglie compiute dai frati cappuccini davanti alle spoglie dei loro confratelli morti. Lo stesso san Felice nelle sue soste nel primitivo cimitero dell’Ordine, intento nella preghiera illuminato da una flebile lampada, si sottoponeva alla disciplina in modo analogo ai santi raffigurati da Caravaggio, Gentileschi e Baglione, che costituirono a loro volta uno stimolo alle devote meditazioni dei loro primi proprietari:
“Voi avete fatto in terra la vostra parte – diceva Felice ai confratelli defunti e a sé stesso – e per amor del Salvatore vi siete mortificati a dovere; e ora tocca a me tener dietro alle vostre pedate”.[9]
Ora, se è altamente plausibile, come ho sostenuto nel mio libro e come ho qui ricordato, che il S. Francesco in contemplazione ora Bigetti sia stato eseguito proprio nel 1603 in concomitanza con la morte di Asdrubale Mattei, quasi a mo’ di ex voto verso l’illustre cardinale particolarmente devoto verso il Santo di Assisi ecco che i ragionamenti di Primarosa troverebbero una ulteriore conferma e lo stesso quadro di Caravaggio acquisterebbe un valore spirituale ancora più significativo.
Sergio ROSSI Roma 5 Marzo 2023
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