di M. Lucrezia VICINI
Variamente attribuito nel corso del tempo ad ambito caravaggesco, al Caravaggio stesso o in ultima analisi più genericamente alla Scuola Romana del ‘600, questo bel dipinto della Galleria Spada è stato restituito da oltre un decennio al suo vero autore, Cecco del Caravaggio, e da parte di Gianni Papi che insieme a Maria Cristina Rodeschini è il curatore di una prima e grande mostra dedicata al pittore, presso l’Accademia Carrara di Bergamo dal 26 gennaio al 4 giugno 2023 (1).
Nella esposizione dal titolo “Cecco del Caravaggio, l’allievo modello”, già recensita in questa sede da Francesco Caracciolo, sono visibili ben 41 opere, di cui 21 autografe, e tra queste anche il nostro dipinto di cui si intende qui tratteggiare il percorso storico inventariale.
L’ottima e appariscente esecuzione, tradisce al primo sguardo un curioso stato di incompiutezza. Parte del fondo è rimasto allo stato preparatorio. Alcune zone, come i fianchi delle due figure, appaiono solo abbozzate. I due personaggi, raffigurati in primo piano a mezzo busto, si rivolgono con aria divertita allo spettatore palesando atteggiamenti tipici dei frequentatori di locande
Esso era di proprietà del cardinale Bernardino Spada (1594-1661), che ne entrò in possesso nel 1641, come si deduce da una nota di pagamento del 31 novembre di questo anno a favore del suo fedele falegname ebanista Andrea Battaglini, al quale venne corrisposto denaro
“anche per una cornice alla fiorentina di bella fattura per un quadro che ci è dipinto due mezze figure una tiene un fiasco, l’altra un bicchiere, detta alta palmi 4 e mezzo larga 5 e mezzo” (2).
Seguendo il suo lungo percorso inventariale, il dipinto si rintraccia per la prima volta proprio nell’inventario dei beni ereditari del cardinale del 1661, elencato senza riferimenti attributivi come:
“Un quadro con doi figure che ridono”, e collocato “fra i quadri più piccoli nella Stanza contigua alla Galleria dove è lo studiolo grande”,
attuale quarta sala del Museo (3).
Nel successivo inventario del 1759 si ritrova spostato tra le opere della terza sala con l’attribuzione al Caravaggio, cosi descritto:
“altro di palmi 4 per traverso due mezze figure con fiasco in mano opera del Caravaggio in un luogo rotta, 50 scudi” (4).
Il fidecommesso del 1823 e l’appendice al fidecommesso del 1862 lo citano trasferito nella seconda sala, sempre con il riferimento al Caravaggio come:
“Altro rappresentante due mezze figure in caricatura, di Michelangelo da Caravaggio” (5).
In questa stessa sede lo ritroviamo elencato nella ricognizione inventariale del 1925 dell’amministratore degli Spada, Pietro Poncini e nella coeva stima di Hermanin che valuta lire 1.500, con l’assegnazione alla scuola romana del ‘600 e così menzionato:
“Due mezze figure di uomini in caricatura (sc. romana del ‘600)” (6).
Nel 1951, in occasione del riassetto del Museo per la sua riapertura al pubblico, fu da Zeri esposto in quarta sala dove tutt’ora rimane, insieme a tutte le altre opere della Collezione di matrice caravaggesca che lo studioso aveva qui riunito.
L’attribuzione a Michelangelo da Caravaggio, riproposta da Vasi (7) e da De Montault (8), è respinta da Venturi (9) che definisce opera superficiale di un discreto imitatore del Merisi, mentre sottolinea affinità con Bartolomeo Manfredi, aggiungendo però che la qualità è troppo debole per poterlo assegnare a lui.
La letteratura critica successiva propende per una fattura nordica del lavoro. Il Voss (10) assegna il dipinto al periodo romano(1616-1621) di Theodor Rombouts (Anversa 1597-1637), seguito da Porcella (11) che avvicina al Bevitore della Galleria di Karlsruhe attribuito al Caravaggio, e da Lavagnino (12). Fokker (13) e van Puyelde (14) avanzano il nome di Dirk van Baburen. Anche Longhi (15) lo giudica di un caravaggesco nordico, probabilmente Jan van Bylert (Utrecht 1603-1671), pittore sotto il cui nome Federico Zeri (16) registra l’opera nella scheda di catalogo del 1954, datandolo al 1625, al periodo romano dell’artista. Nicolson (17) pur confermando i caratteri nordici del dipinto, preferisce inserirlo in un gruppo di opere che assegna ad un anonimo Maestro G, un pittore nordico neerlandese che sarebbe stato attivo a Roma verso il 1620 a contatto con Rambouts e Jean Ducamps. Cannatà (18) riferisce genericamente l’opera ad un anonimo caravaggesco. Successivamente, (19) nel riprendere tale riferimento, precisa affinità con Cecco del Caravaggio.
Di certo, l’impostazione realistica del quadro, descrittiva al limite del grottesco, sembra ricollegarsi a quel caravaggismo fiammingo-olandese diffusosi in breve a Roma nel secondo decennio del Seicento. Tuttavia la tipologia dei due bevitori dall’aria godereccia e chiassosa rimane effettivamente in ambito di autore romano, in particolare rimanda ai personaggi tipici dei seguaci romani della manfrediana methodus, specie proprio di Cecco da Caravaggio, a cui l’opera viene assegnata in via definitiva da Gianni Papi (20), che, nel datarlo intorno al terzo decennio del Seicento, ricostruisce il corpus dell’artista attraverso l’esame stilistico delle sue opere note.
Secondo Brejon de Lavergnée (comunicazione orale alla scrivente, 2012), l‘opera appartiene a Simon Vouet ed è vicina alla Buona Ventura della Galleria Barberini.
Ma l’attribuzione al Boneri è da considerarsi appropriata proprio per gli inequivocabili caratteri fisionomici e di contesto che legano l’opera a quelle certe del pittore. Vanno ricordati ad esempio il Giovane che accorda la chitarra, di proprietà della Cassa di Risparmio di Genova e Imperia e il Martirio di San Sebastiano del Museo Nazionale di Varsavia, restituiti a Cecco del Caravaggio dal Marini (21), che hanno in comune con il nostro Cantante e Bevitore l’abbigliamento di natura nordica.
In particolare, ritroviamo il colletto a lattuga del cantore nel Ritratto di giovane uomo, o Autoritratto di Palazzo Pitti e maggiormente, nell’immagine del Fabbricante di strumenti musicali del Wellington Museum di Londra, si ravvisa la stessa impostazione con il volto inclinato e il braccio destro che si solleva.
I dati in possesso relativi al percorso artistico di Cecco del Caravaggio erano scarsi. Si conoscevano i riferimenti del Mancini (22), secondo cui l’artista si era formato nella schola di Caravaggio a contatto con lo Spadarino, il Manfredi, il Ribera e il Saraceni. Si sapeva inoltre che nel periodo 1613-1615 aveva collaborato con Agostino Tassi in alcune decorazioni del Casino Montalto a Villa Lante di Bagnaia e che nel 1619 era stato nominato da lui in una deposizione processuale.
Papi (23) identifica in Cecco del Caravaggio quel Francesco Boneri che fra il 1619 e il 1620 aveva ricevuto un pagamento da Pietro Guicciardini per avere eseguito la pala d’altare con la Resurrezione di Cristo, per la cappella di famiglia nella chiesa di S. Felicita a Firenze, oggi all’Art Institute di Chicago.
L’identificazione spinge lo studioso a indagare sulla origine del pittore che scopre essere lombarda, all’interno di una famiglia di artisti bergamaschi di Alzano Lombardo, dalla quale sarebbe nato fra il 1588 e il 1590. Per quanto riguarda lo pseudonimo Cecco del Caravaggio, esso deriva dallo stretto rapporto che l’artista aveva avuto con il Caravaggio, suo conterraneo.
Richard Symonds nel Diario del viaggio italiano (1650 circa), pubblicato dal Wiemers nel 1989 (24), riporta che l’Amore Vincitore della Collezione Giustiniani, ritrae il corpo e il volto di “Checco di Caravaggio”.
Ma Symonds riferisce ancora che lo stesso modello venne dipinto dal Caravaggio molte altre volte in opere che la critica riconosce in almeno tre quadri della fase romana del Caravaggio del 1601-1603, quali il San Giovanni Battista del Museo Capitolino, e il Sacrificio di Isacco degli Uffizi, l’angelo della prima versione della Conversione di San Paolo (Roma, collezione privata) (25)
M. Lucrezia VICINI Roma 5 Marzo 2023
NOTE