di Massimo PULINI
Nel campo della ricerca storica dedicata all’arte ogni nuova scoperta può mettere in crisi anche le convinzioni più ferree ponendo gli studiosi davanti a opere che smentiscono con eloquenza gli assunti ritenuti apodittici.
L’affermazione che Caravaggio non abbia mai disegnato è destinata prima o poi a questa fine, anche se i tanti assalti a quella roccaforte del pensiero non ne hanno ancora scalfitto la resistenza. Quando accadrà saranno comunque le stesse opere a parlare al di sopra delle altre voci e a imporre la loro evidenza.
Conservo, come una cosa preziosa, una singolare confidenza fattami da uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento, Sir Denis Mahon (Londra 1910 – 2011) con il quale, per diversi anni e in varie occasioni espositive, ho avuto la fortuna di collaborare.
Mahon, che allora aveva circa novant’anni, dunque un decennio prima della scomparsa, mi disse che durante il suo primo mezzo secolo di studi su Guercino, si era formato la netta convinzione che il genio di Cento non avesse mai replicato se stesso e di fronte a due dipinti della stessa iconografia si era sempre ripromesso di cercare la redazione migliore, corrispondente alle elevate qualità dell’autore, perché doveva essere quella l’unica autografa, secondo quel radicato assunto. Mentre alle altre spettava un declassamento al rango delle copie.
Per Cinquant’anni di ricerche tale principio aveva trovato continue conferme, facendo comunque emergere le doti e i limiti dei differenti collaboratori che per tutto l’arco dell’attività di Giovan Francesco Barbieri avevano eseguito innumerevoli copie delle sue invenzioni, dapprima entro la bottega centese (nel caso di Bartolomeo ed Ercole Gennari) e poi, dopo il 1642, in quella bolognese del Guercino (dove si aggiunsero i nipoti Benedetto e Cesare Gennari).
Il luogo in cui Sir Denis mi espose questa premessa, al discorso che stava facendo, non era un posto qualunque, ci trovavamo davanti a una delle versioni del San Francesco in estasi con l’angelo che suona il violino, della collezione Grimaldi Fava di Cento (Foto 1). Quel bellissimo autografo di Guercino è precisamente una delle opere che hanno contribuito a smantellare l’ostinata idea di una unicità delle invenzioni del Barbieri, perché era la terza versione, con minime varianti, di un’idea straordinaria che Guercino mise a punto al culmine della sua prima maturità.
Si può dire che in quella fase, siamo intorno l620, Giovan Francesco fosse ancora il giovane campione, dall’esuberante talento, che si era trovato a crescere e a operare entro la bottega dei Gennari, anche se stava progettando la struttura di una propria impresa, che da quel momento in poi avrebbe potuto contare sull’aiuto degli stessi figli di Benedetto Gennari Senior, che era stato il suo primo impresario, ma che era morto ormai da qualche anno.
Quella intensa composizione racconta un episodio particolare che tutte le agiografie di San Francesco ricordano. Il Santo di Assisi si mostra fortemente turbato dalla bellezza celestiale della musica, suonata dall’angelo, ma inviatagli dal divino per scuoterlo da un profondo periodo di prostrazione, di depressione diremmo oggi, conseguente al ricevimento delle stimmate.
Le Fonti francescane riportano perfino la data dell’apparizione, il 1224, oltre a identificare nell’eremo della Verna il luogo preciso in cui avvenne.
La resa sentimentale di quella pittura, esaltata da una materia cromatica potente e densa, dovette ottenere un deciso successo, a giudicare anche dalle richieste che giunsero e che lo indussero a replicare, per più di una volta, l’efficace intuizione iconografica.
Nello stesso periodo Guercino stava salendo scalini che rapidamente lo avrebbero portato a una fama internazionale, stava dunque iniziando a conoscere figure della più alta aristocrazia o delle più elevate cariche ecclesiastiche e di fronte a richieste, provenienti da questi ambienti, che lo invitavano a realizzare altri esemplari di una stessa idea, l’artista di Cento non era forse ancora in grado di opporre un diniego, né di assicurare una buona copia di bottega che potesse venir accettata come tale. Sappiamo che queste condizioni e questa posizione professionale il Barbieri la acquisì appena qualche anno più tardi e dal 1629, vale a dire dall’inizio del “Libro dei conti”, il registro di ragioneria della sua bottega, quella disposizione diventa sempre più rara, fino a sparire completamente nella seconda maturità. Ma a quel punto i ruoli della sua impresa pittorica erano ben definiti e funzionali.
Questa lunga introduzione era necessaria per rendere nota una nuova scoperta che conferma, in modo ancora più categorico, quella iniziale disponibilità a replicare, che ovviamente non era un’abitudine e forse nemmeno cosa gradita, ma che non può di certo venire elusa.
Il dipinto in oggetto presenta alcune varianti compositive, marginali e riguardanti il contesto paesaggistico,
ma nella sostanza ripropone la forte scena nella quale il santo colto in lettura, viene sorpreso dall’arrivo di un angelo che vediamo seduto su di una nuvola. La musica suonata da questi giunge a sconvolgere i sensi di Francesco portandolo a un moto di difesa, a esprimere un gesto che chiede clemenza a quell’eccesso di bellezza giuntogli dal cielo.
È documentata al 1620, grazie alla citazione del Malvasia, la realizzazione della pala d’altare eseguita da Guercino per una chiesa della propria città natale: “fece un San Francesco in San Pietro di Cento con un angelo che suona il violino, ed un’altra d’un San Benedetto” (Felsina Pittrice, 1678, II, p. 260), il dipinto in realtà, quello che ora si trova al Louvre (Foto 2), contiene entrambi i santi, ma l’imprecisione del cronista bolognese ci permette di intuire la sua conoscenza di una o più versioni nelle quali la figura di San Benedetto era assente.
Il dipinto d’altare ‘parigino’ unisce sapientemente i diversi santi, ma lascia comunque l’impressione che il dialogo tra l’angelo e San Francesco occupi un ruolo protagonista nell’invenzione compositiva. L’apparizione celeste è decisamente rivolta al ‘Poverello d’Assisi’ e la figura di San Benedetto, per quanto massiccia, possente, sia in qualche misura estranea al momento epifanico.
Rispetto invece alle altre redazioni autografe della sola Estasi mistica di San Francesco, oltre all’esemplare della collezione Grimaldi Fava di Cento, va ricordata l’opera di Dresda, conservata nella Gemäldegalerie Alte Meister (Foto 3) e quella del Muzeum Narodowe di Varsavia (Foto 4), che proviene dalla raccolta del conte Andrzej Potocki di Cracovia.
Sono tutte versioni di grande qualità pittorica e di energica forza espressiva, in ognuna di esse è conservato un piglio inventivo che non cede nemmeno in sede di replica e tutte mostrano dettagli inediti che restituiscono una franchezza esecutiva impressionante e corrispondente al medesimo periodo stilistico della pala ora in Francia.
Gli elementi che più di altri differiscono riguardano il paesaggio e il contesto di ruderi architettonici disseminati attorno alla figura di Francesco.
Nelle redazioni di Dresda e Varsavia, sul lato sinistro della scena, si erge un albero più o meno rinsecchito, che non è presente nell’esemplare centese (e nemmeno nell’ultima scoperta), ma tutte e tre mostrano, sullo stesso lato, una struttura muraria che nella costruzione della pala serviva evidentemente da quinta, per dare sponda alla postazione del San Benedetto.
La mancata presenza di questo plinto nell’inedita redazione che qui si analizza (Foto 5), induce ad alcune riflessioni sul processo formativo della stessa pala del Louvre. La mia impressione è che questa di Firenze (già Galleria Roberto Ducci, olio su tela, cm. 112 x 78,5) possa dimostrarsi la prima idea in ordine di tempo e che preceda anche la stessa esecuzione del dipinto destinato all’altare della chiesa di San Pietro. Le altre tre versioni fino ad ora conosciute, nel derivare invece dalla pala, trattengono con loro anche la presenza di quella delimitazione scenica.
Anche l’ombra della colonna a terra aveva motivo d’essere solo nella pala, essendo generata dal corpo di San Benedetto, il fatto che sia presente nelle tre redazioni già note ne attesta la loro dipendenza dall’opera francese.
Anche in ordine alla prospettiva paesaggistica questa inedita è la più inventiva di tutte e quattro le redazioni, nell’abbozzo di borgo che viene tratteggiato, con quella torre a doppio loggiato, il palazzo a merlature oltre ad altre strutture che sembrano ancora in costruzione e che risultano dipinte con una rapidità di tocco superlativa. La versione di Dresda pone al centro dello scorcio un castelletto, mentre le altre due (Varsavia e Cento) non presentano alcun elemento di paese e si limitano a descrivere il degradare dei colli.
Denis Mahon è tornato a più riprese sull’argomento al riemergere di ogni variante e considerava l’esemplare di Varsavia quello più aderente alla pala del 1620, mentre riteneva la redazione di Dresda eseguita dopo il 1623, al rientro dell’artista da Roma.
Quando venne scoperta la terza replica di Cento lo studioso inglese prese in considerazione che potesse essere identificabile in quella citata (sin dal 1677) in palazzo Massimo a Roma (vedi Orbaan 1920, p. 516), scalzando da quel ruolo la versione di Varsavia. Dagli inventari romani risulta che un “San Francesco con angelo del Guercino” venne restaurato da Agostino Toffanelli (Lucca 1770 – Roma 1834) che lavorava abitualmente per le collezioni vaticane. Questa notizia potrebbe escludere che l’opera dei Massimo fosse quella polacca perché dal 1818 era già documentata il loco.
Tuttavia il riemergere di questa quarta versione, totalmente autografa, mette nuovamente in discussione l’identità dell’opera già appartenuta alla prestigiosa collezione romana anche se non possiamo né escludere né affermare che si tratti di quella centese o di quella fiorentina.
In questa nuova versione è soprattutto nella figura di San Francesco che vengono espressi i valori più intensi dello stile di Guercino, quella corposità del saio che, sottoposto ai vapori atmosferici assume la consistenza di un morbido fustagno, toccato nelle pieghe da un crepitio di lumeggiature.
Fortemente atmosferico è anche l’incarnato del viso e delle mani, dove il lume sembra avvolgere il corpo e trasformarsi in un alito animale. Siamo di fronte al Guercino più estremo e creativo, che impasta e macera la materia pittorica dandole consistenza e vapore al medesimo tempo.
È il momento che precede la chiamata a Roma, ottenuta proprio per aver dato prova di questa nuovissima concezione della pittura, che sposa la sospensione alla pienezza, la materia più terrena all’ariosità, una pittura che anticipa e indica la strada al Barocco.
Il sott’insù dell’angelo precede, su tale terreno, anche l’Aurora del Casino Ludovisi che di lì a poco Guercino realizzerà per il nipote di papa Gregorio XV.
In sintesi questa vicenda e i cinque dipinti protagonisti ci mostrano un artista disposto a cimentarsi nella ripetizione senza venire a meno ai più alti valori creativi, riuscendo e far emergere la qualità di stesura e l’espressione sentimentale in ognuna delle differenti opere, nessuna delle quali ha il sapore o la stanchezza di una copia.
Infine va registrata l’esistenza di una incisione a bulino, eseguita da Giovanni Battista Pasqualini (Foto 13) che era calcografo del primo periodo artistico di Guercino, nella quale viene mostrata una redazione ancora diversa, che include il plinto murario, ma non è presente l’ombra nella colonna a terra.
Sappiamo che il Pasqualini non era un traduttore sempre fedele delle invenzioni del Barbieri, ma non escludo che possa riemergere una quinta versione autografa, che aggiungerebbe ulteriore conferma a quanto ho cercato di raccontare.
Massimo PULINI Montiano 12 Marzo 2023