di Maria Cristina CHIUSA
Correggio per la Camera di San Paolo: dai fantasmi dell’antico alla teologia (Figg. 1, 2)
La camera affrescata da Correggio presso il monastero benedettino di San Paolo in Parma è stata oggetto nel tempo di indagini storico-artistiche e documentarie che si sono intensificate nel corso degli ultimi anni, spaziando dalla committenza, la badessa Giovanna Piacenza in particolare,[1] alla documentazione inerente il ruolo del cenobio, sino all’iconografia della decorazione.[2]( fig. 3).
Queste note si propongono una rilettura che prende avvìo dalle sententiae presenti nelle epigrafi diffuse fra una sala e l’altra dell’appartamento della monaca. La revisione dei motti epigrafici[3] sembra infatti riservare qualche sorpresa. Strettamente correlate agli affreschi, le incisioni, ad una lettura svincolata da eccessi erudizionistici, dichiarano la loro dipendenza dalla patristica, dalla civiltà ebraica e dall’esegesi biblica,[4] materie frequentate con assiduità dai monaci della congregazione cassinese, bene radicata a Parma soprattutto nel convento di San Giovanni Evangelista.[5]
Esulano da queste note i dati che, già acquisiti dalla letteratura relativa, hanno messo a punto il profilo della committente e del suo tempo: il matronage di lei nel monastero-corte dal duplice ruolo amministrativo e spirituale, tanto significativo da suscitare accese invidie e opposizioni in un quadro storico generale in balia dei poteri forti, caratterizzato nella realtà locale da alleanze familiari e particolarismi di natura ancora feudale.[6] La civiltà ‘cortigiana’ che affiorava nel cenobio paolino in virtù delle scelte culturali e delle inclinazioni della monaca sono argomenti altrettanto noti che hanno rivelato la raffinata incidenza umanistico-letteraria della badessa sulle scelte iconografiche svolte dagli artisti al suo seguito: Correggio, ma pure Alessandro Araldi, il probabile Cesare Cesariano e forse altri ancora.
I due filoni di ricerca hanno condotto ad una lettura non univoca, ad oggi, della celebre camera: qualche contributo nell’accoglimento a tutto campo di erudite citazioni testuali di varia ascendenza,[7]è pervenuto a un esito il cui ampio raggio sfuma il carattere specifico dell’argomento. La civiltà benedettino-cassinese, vi affiora genericamente, defilata e privata del ruolo centrale che le compete. Correggio fu, di fatto,[8] un pittore ‘benedettino’, come confermano gli affreschi da lui svolti nel monastero cassinese di San Giovanni Evangelista in Parma, a pochi passi dal convento paolino, e la nuova documentazione emersa: una lettera inviata dall’Allegri il 20 luglio 1519 a Girolamo da Monferrato a Praglia, nella quale affiorano tempistiche, iconografie e ispirazioni, tutte benedettine, condivise dall’artista con i monaci di San Giovanni.
La chiave di lettura di quel ciclo di affreschi è intonata all’esegesi biblica e ai moniti profetici delle Divinae Instutiones di Lattanzio, tradotti testualmente in larga parte delle lapidi presentate dai profeti e dalle sibille affrescati da Correggio nel Fregio della navata centrale dell’abbazia, (1519-1523) come indicato nel mio lavoro ultimo. E’ dunque possibile istituire una relazione fra il ciclo pittorico giovanneo e la decorazione paolina? Sono proprio le epigrafi a dichiararlo: né credo sia casuale il comune utilizzo delle lapidi che danno parola, in entrambi i casi, agli episodi dipinti. L’evenienza non è un caso isolato, e, da estendere ad altri monasteri cassinesi,sembra acquisire un significato particolare rispetto alla tradizionale inserzione delle epigrafi nelle testimonianze artistiche, consolidata far il XIV e il XVI secolo: frutto della consuetudine in voga di proporre miti e iconografie desunti dall’antiquaria e dalla letteratura classica.[9] Il fatto, ancora, che le sententiae fossero distribuite in tutte le stanze oggi note del convento di San Paolo, induce ad ipotizzare un indirizzo comune a quello delle imprese pittoriche.
Né sembra sfumare tale ipotesi il fatto che il monastero di San Paolo non rientrasse nel tempo di Giovanna Piacenza all’interno della Congregazione cassinese: è noto che ancora nel 1532 la comunità faceva pressione sul cardinal Farnese perché ne favorisse l’ingresso sotto la guida spirituale dei monaci di San Giovanni Evangelista, sull’esempio degli altri monasteri benedettini ormai riformati come Sant’Alessandro, San Quintino e Sant’Uldarico. L’unitarietà delle aspirazioni culturali e spirituali sembra confermata dallo stretto vincolo che univa il cenobio paolino a quello giovanneo, sottolineato dall’utilizzo dei medesimi artisti.
Gli studi più aggiornati sulla riforma cassinese, cui si rinvia,[10] aprono uno scenario di grande interesse: un’analisi comparata delle imprese decorative coeve, padane soprattutto, evidenzia la circolazione di idee e pratiche fra i monasteri della Congregazione di Santa Giustina in un dibattito di largo respiro fra dotti interlocutori. In tale circuito emerge un costante, comune rapporto con le fonti bibliche e patristiche, visitate con assiduità dai monaci, in particolare nel cenobio di San Benedetto Po. Alcuni nomi, ricorrenti, giustificano scelte culturali specifiche: quello di Gregorio Cortese, prima concellerario di quel convento dal 1508 al 1516, poi abate dal 1538 al 1542, raffinato committente dell’apparato architettonico e scultoreo della basilica di San Benedetto Po, il cui impianto decorativo s’ispira a un programma analogo, si ritiene, a quello presente in San Giovanni a Parma. Nel monastero mantovano, fra i centri culturali più vivaci e cosmopoliti della Congregazione, soggiornavano allora figure destinate a svolgere un ruolo di primo piano nella vita letteraria e religiosa del Cinquecento: Dionisio Faucher, Luciano degli Ottoni, Giambattista e Teofilo Folengo, Benedetto Fontanini (probabile autore della prima stesura del Beneficio di Cristo),[11] i quali studiarono sotto la guida del Cortese: con tutta probabilità egli sin dal 1514 si sarebbe interessato ai dipinti che il Correggio avrebbe dovuto eseguire per l’organo della chiesa. Nel 1516 l’abate Girolamo da Monferrato, destinatario della lettera dell’Allegri menzionata, è documentato nel monastero di Sant’Onorato nelle isole Lérins insieme a Cortese e ad altri monaci di San Benedetto Polirone. Lo stesso ‘donno’ Girolamo, come noto, avrebbe conferito a Correggio nel 1521 il titolo di oblato benedettino per le benemerenze acquisite nella nota ‘lettera graziosa’. Sulla ricchezza dei contatti e delle esperienze intellettuali e artistiche che animavano le abbazie benedettine prima della ‘normalizzazione’ tridentina Barry Collett offriva una proposta suggestiva, ricca di stimoli per le future ricerche, confluite nell’opera fondamentale di Massimo Zaggia.[12]Collett assegnava un ruolo importante a Isidoro Clario, al secolo Taddeo Cucchi (Chiari 1496 – Foligno 1555) che, pur vescovo fedele alla norma tridentina, era al contempo l’autore dell’’Adhortatio ad concordiam’, una significativa eco dell’appello erasmiano alla concordia e al dialogo con i riformatori tedeschi in un dibattito religioso inter pares, volto alla suprema missione del cristiano.[13] Per una comune ricerca dell’armonia universale, Collett accostava l’attività e i pensieri di Clario a quelli di Gioseffo Zarlino, compositore e teorico musicale come noto,[14] e del nostro Correggio.
La straordinaria cultura biblica e letteraria del monaco di Chiari, frutto della formazione umanistico-benedettina, si estendeva all’esegesi artistica; l’emissione della professione religiosa il 24 giugno del 1517 nel monastero parmense di San Giovanni Evangelista, tra i più rinomati centri culturali della Congregazione di Santa Giustina, renderebbe verisimile il possibile influsso teologico – più o meno diretto – del monaco sulle iconografie che l’Allegri vi avrebbe svolto durante il quinquennio della sua attività (1519-1524), e, in termini più generali, sulle committenze artistiche del cenobio e dei monasteri cassinesi del suo tempo. Assunto qui il nome di Isidoro, egli, di salute cagionevole, soggiornava frequentemente presso la più salubre Torchiara,[15] una dipendenza in area collinare dell’abbazia di San Giovanni, dove poteva dedicarsi con maggiore tranquillità agli studi. I frequenti spostamenti dei padri benedettini, disposti ogni anno dal capitolo generale dell’Ordine, portavano Clario a soggiornare presso vari monasteri, e favorivano l’intreccio di strette relazioni amicali e intellettuali con eminenti confratelli, da Gregorio Cortese, antico maestro del monaco clarense, a Luciano degli Ottoni, Teofilo e Giovanni Battista Folengo, Andrea Pampuro da Asola, Gregorio da Modena, Giulio da Parma, ecc.[16] E la cerchia delle sue frequentazioni non si limitava all’ambito benedettino, ma si estendeva agli esponenti di punta dell’evangelismo italiano (Gasparo Contarini, Giovanni Morone, Reginald Pole, Gian Matteo Giberti).
L’autonomia canonica dei monaci neri del Cinquecento si rifletteva in una specificità teologica ancorata ai dati biblici e patristici, complessi e spesso di difficile interpretazione pure ad un lettore esperto, per i misteri sottesi alle parole, o l’antichità dei testi, le metafore, le locuzioni ebraiche e le contraddizioni.[17]
Il tema della fede, della teologia monastica e della spiritualità cassinese,[18] della predestinazione nel destino umano, richiamata da Agostino, si rincorrono nelle diverse decorazioni concordate da alcuni monaci della Congregazione, molti dei quali oriundi dalla sede di Polirone.
A questa cultura fanno riferimento, si ritiene, le sententiae scolpite nelle epigrafi paoline, buon vademecum per il visitatore. Quali messaggi intendono dunque trasmettere? La loro funzione sembra richiamare le sacre scritture, che, ispiratrici del senso ultimo dei dipinti presenti nelle sale, sono contaminate con i testi classici.
Rivelatrici di un’approfondita conoscenza degli specimini cassinesi, nell’istituire un parallelo fra la vicenda personale della badessa e la storia della salvezza dell’uomo, appaiono ermetiche e di non agevole lettura. Il loro significato, frutto dei dotti pensieri della committente, sembra svilupparsi su un duplice binario; quello più semplice rivolto a tutti e un altro comprensibile a una cerchia ristretta di religiosi e laici, bene addestrati all’associazione delle massime bibliche con i pensieri degli autori classici.
Occorre ricordare che il sistema dei prestiti delle citazioni (bibliche, ebraiche, greco-latine), e la loro stretta comparazione riflettono una scelta dottrinale che, trasparente per la fruizione cinquecentesca, non risulta sempre per noi altrettanto lineare: è indispensabile inoltre comprendere il senso riposto che la monaca assegnava all’assetto decorativo del proprio appartamento. Giovanna Piacenza, domina, sostenuta, come noto, da una colta schiera di amici e da un illustre entourage familiare, era invisa a nemici politici altrettanto forti, e per tutto l’arco del suo incarico fu impegnata ad affermare la propria autonomia all’interno del convento: questo è il primo elemento che sembra emergere nei motti, ove l’uso dei riferimenti patristici e del linguaggio liturgico arcaico si apre alla cultura umanistica e al riutilizzo teologico di pensieri misterico-orientali di varia ascendenza.
Il 27 maggio 1507 al Monastero parmense di San Paolo Giovanna Piacenza, figura di grande spicco della prima Rinascenza padana e oggetto di una ricca recente bibliografia,[19] subentrava con breve di papa Giulio II alla badessa Ursina Bergonzi, passata a miglior vita. Nel tramestio dei lavori da lei promosso nel convento spiccava l’ampio appartamento fatto erigere per sé ex novo da Giorgio Hedoari da Erba nel 1510 e concluso nel 1514, data scolpita in caratteri romani sul camino della camera affrescata dall’Araldi e da altri artisti, attigua a quella del Correggio, la cui decorazione era già stata conclusa probabilmente entro il 1518.[20]
Nonostante i rimaneggiamenti intervenuti nel corso dell’Ottocento, le stanze si rivelano ancor oggi corrispondenti a quelle previste nel progetto originario, del quale conosciamo la reale entità grazie ad un rogito celebrato il 28 agosto 1524.[21]
Tramite la planimetria è agevole verificare come la residenza fosse costituita da sei stanze di differente forma e misura: i locali, ubicati al pianterreno, si articolavano in una grande sala ad est, alla quale era prospiciente, sul lato ovest la camera delle ‘grottesche’, a sua volta adiacente, sul lato est, alla stanza decorata dal Correggio, con la quale confinava un locale adibito ad oratorio. Sul lato ovest si disponevano tre ambienti fra loro comunicanti destinati rispettivamente a camera di servitù, a camerino o ‘camarino’, e a gabinetto; infine quattro vani ‘superiori’ si aprivano su di un esteso loggiato a nord che affacciava sul giardino.
La neo-badessa, forte della dotta cultura maturata sui testi greco-latini ed ebraici, ne favorì la coesione con la filosofia patristica e l’esegesi biblica,[22] come era nella tradizione benedettina,[23] (Figg. 4, 5). La passione che la badessa nutriva per le arti, l’erudizione, la filosofia, la letteratura aggiornata sugli indirizzi della civiltà cortigiana contemporanea, suggerisce un parallelo con Isabella d’Este, la signora del primo Rinascimento italiano, affetta da quell’‘insaciabile desiderio de cose antique’.
Le iscrizioni rientrano in una tradizione di largo utilizzo nel quadro rinascimentale: quelle di cui ci occupiamo, sia latine che greche, di non semplice interpretazione,[24] scorrevano ora audaci, a tratti ironiche fra i vani dell’appartamento a spiegare il significato dell’intero programma previsto dalla monaca.
Il ruolo mnemonico della declinazione delle iscrizioni accanto alle immagini ebbe larga fortuna nei conventi tardo-medievali e rinascimentali: in quelli cassinesi soprattutto, ove l’utilizzo delle epigrafi, sia latino-greche che ebraiche, era moneta corrente ad accompagnare la presenza silente dei protagonisti biblici, e degli eroi pagani, come è, fra gli altri, per gli affreschi della navata centrale di San Giovanni Evangelista. Tale pratica comune nei complessi padani legittima il pensiero che il Correggio, ‘benedettino’,[25] fosse operoso in San Paolo in stretta continuità con l’attività nel convento giovanneo, e a date ravvicinate.
Le iscrizioni degli appartamenti badessali sembrano destinate a un ampio pubblico, consorelle ed ospiti esterni: né possono riferirsi alle sole imprese di Giovanna, o alla sua, pur poliedrica, vita privata di donna, monaca e amministratrice.[26]
Né tornerò[27] sulla schiera di poeti, teorici e intellettuali tradizionalmente accolti dalla storiografia accanto alla Badessa. In quella compagnia raffinata già sottolineavo il ruolo di Giorgio Anselmi Nepote, interprete pitagorico delle opere di Niccolò Cusano, pubblicate in Italia per la prima volta nel 1504 a Cortemaggiore con il sostegno di Rolando II Pallavicino; e identificavo ne la Venatio Sapientiae teorizzata da Cusano un testo di riferimento per le iconografie che Correggio avrebbe svolto. Ma all’ispirazione a quei testi si accompagna il ricorso alle pagine bibliche e patristiche identificabili in numerosi riscontri testuali.[28] Il monito ‘ora, lege et labora’ sotteso al corpus iconografico sviluppato dall’Allegri in San Giovanni Evangelista (Parma), invito devozionale che prelude ad un percorso sapienziale,[29]sembra riecheggiare nel cenobio femminile.
I motti, sia latini che greci, sparsi negli ambienti fatti costruire da Giovanna, vennero riadattati nel corso dell’Ottocento: all’ingresso della Camera del Correggio attraverso la stanza delle grottesche si era accolti dalla scritta ‘Dii bene vortant’ (Possano gli dei volgere tutto al meglio): un augurio ispirato al diritto e alle leggi romane in uso nelle trattative inerenti le nozze. Spesso, per il buon fine degli accordi sponsali o di un fidanzamento si invocava la protezione degli dei con l’espressione ‘di bene vortant’ e simili; la massima, di grande diffusione soprattutto fra i comici latini, venne ripresa pure da Plauto in Aulularia.[30] La sententia, di matrice squisitamente arcaica, sembra esprimere una formula propiziatoria per il cammino della badessa e delle consorelle; il richiamo all’’antico’ rientra d’altronde senza forzature nel tradizionale confronto tutto benedettino fra cultura pagana e cristiana.
Sull’architrave della porta che immetteva dalla camera di Correggio nel gabinetto-studiolo,[31] si legge ‘O(mn)ia Virtuti pervia ‘oīa virtvti pervia’[32] (Grazie alla virtù si ottiene ogni cosa); la massima, ripresa plausibilmente da un adattamento dell’Elegiarum Liber Primus di Jacopo Sannazzaro, punta al tema della gloria derivata da uno stile di vita virtuoso, che, pur d’ispirazione profana, consuona con le riflessioni filosofiche e teologiche enunciate.[33] Nell’architrave del caminetto si legge la citazione, ‘Ignem gladio ne fodias’ (Non sfidare con la spada il fuoco, fig. 11) tratto da Girolamo (Ep. Rufin. 3,39), e derivato dalla nota massima pitagorica ‘πῦρ μαχαίρᾳ μὴ σκαλεύειν’. Come già sottolineavo in un precedente contributo, le parole di Girolamo, riportate da Correggio in alcune lapidi del fregio con Profeti e Sibille nella chiesa di San Giovanni, ricorrono nella letteratura cassinese. Si osservi inoltre come l’incisione sul camino della camera di Araldi ‘transimus per ignem et aquam et eduxisti nos in refrigerium’, sia fedelmente tratta da Psalmorum Libri 65(64),12. La sala correggesca, cui si poteva accedere ufficialmente soltanto dalla stanza delle grottesche, si può considerare il sancta sanctorum della badessa: su una delle due porte d’ingresso ubicate simmetricamente lo stemma di Giovanna Piacenza offre il benvenuto con il celebrato acronimo reso dalle lettere IO e PL[34] (Fig. 6).
I criteri generali della trama narrativa proposta da Correggio sembrano coincidere con ciò che si evidenzia ai nostri occhi: una battuta di caccia da poco compiuta nei sedici spicchi e relativi ovati di cui si compone la volta e, in diretta connessione, Diana sul carro, ritratta sulla parete del camino. Forse proprio un eccesso di ingegnosa ricercatezza nell’interpretazione iconologica delle decorazioni delle lunette e degli ovati da parte degli studiosi, cui si rinvia[35], ha finito con l’ignorare la semplicità generale dell’assunto, dedicato appunto a Diana e all’attività che maggiormente la caratterizza, la caccia. (Fig. 7) La caccia alla sapienza consuona con il significato complessivo cui le massime incise esortano: il cammino sapienziale, il cuore della riflessione cassinese.
Nel salone di grandi dimensioni nell’estrema sezione orientale del complesso, adibito nel tempo a refettorio e poi a cappella, sull’architrave esterna della porta, che era in origine l’accesso principale, era incisa la massima ‘nec te qvaesiveris extra’, ovvero ‘Non cercarti al di fuori’. Ritroviamo la scritta, già utilizzata da Persio in Satyrae (I, 7) e da Macrobio (In somnum Scipionis, I, 9)[36], nel celebre motto di Agostino ‘Noli foras ire. In te ispum redi..’, un avvertimento contro ogni eccessivo attaccamento al mondo. Ritorna la parola di Agostino, fonte irrinunciabile della teologia cassinese, assai frequentata nella decorazione giovannea.
Ma le citazioni più significative sono quelle intarsiate su di una cornice lignea, oggi collocata al di sopra del cornicione dell’attuale ingresso all’appartamento della badessa, ad ovest della sala del Correggio, a seguito del riassetto generale del complesso voluto nel 1856 da Ludovica Maria di Borbone, reggente di Roberto I.
Si tratta degli otto motti nei cartigli orizzontali veduti da padre Affò nella grande sala a sud dell’atrio antico,[37] quattro in Greco e altrettanti in Latino, alternati agli stemmi di Giovanna Piacenza, che recitano, a partire da sinistra: ‘iovis omnia plena’; ‘ηνι παντα η ενικλω’; ‘eripe te morae’; ‘ιωhντε κaι πλανην’; ‘sva cviq mihi mea’; ‘αεi νh, και των πλην’;’sic erat in fatis’; ‘ην ενι πτιλω καν ηα’.[38] (Figg. 8, 9).
Se le iscrizioni greche, di oscura interpretazione, non hanno consentito di approdare allo stato attuale ai relativi artefici, è stato possibile ricondurre i motti latini ai testi di riferimento. Vediamoli:la testimonianza ‘Iovis omnia plena’, presente nelle Ecloghe, verrà ripresa più volte da Agostino in De Civitate Dei.[39] ( Fig. 10). Egli, nella medesima accezione virgiliana della pienezza ontologica della divinità nell’universo, proclama quella divina come ‘Anima mundi.’ E si ritorna nel cuore della riflessione cassinese. A seguire sta la citazione ‘Eripe te morae’ (‘Rompi gli indugi’, Fig. 11). Di oraziana memoria,[40] il motto sembra ricondurre ad un altro testo assai caro ai cassinesi, il Libro dei Salmi;[41] nel Salmo CXLIII, 7 infatti leggiamo …’eripe me, et libera me de aquis multis, de manu filiorum alienorum; e nell’11 ‘Erue me, eripe me de manu alienorum, quorum os locutum est vanitatem, et dextera eorum dextera iniquitatis’. Ancora in Psalmi, CXLII, 9-11 ritorna il monito ‘eripe me de inimicis meis Domine ad te confugi’. Se le parole dei Salmi non sono pienamente sovrapponibili alla nostra scritta, il significato, l’affrancarsi dalle schiavitù terrene, sembra lo stesso. Nella teologia cassinese i Salmi erano propedeutici alla formazione musicale prevista per la scuola dei monaci. Da ultimo, l’incisione ‘Sic erat in fatis’ (Fig. 12) riconduce alle medesime solenni parole spese nel Libro della Genesi,[42] 1-6, testo chiave della riflessione sapienziale cassinese.
Entriamo ora nella battuta di caccia.
La volta della Camera avvolge il visitatore in un ambiente arcano, di raffinata eleganza, ove l’elemento venatorio e conviviale si fondono in un unicum: orchestrata in sedici spicchi, assume le sembianze di un pergolato ricco di frutti, verdure, fogliame ove è possibile individuare le varietà e le specie botaniche. Scandite da una canna di bambù, le singole partiture si annodano nel cuore della volta con dei nastri i quali, nel serrare nella chiave di volta lo stemma della badessa Giovanna, tre crescenti lunari in campo d’oro, generano sedici pendagli allungati carichi di un tripudio di frutta. Più in basso prendono forma, uno per ciascuno spicchio, sedici ovati racchiusi in cornici vegetali che, finestre nel cielo aperto, colgono il passare e ripassare dinamico di una progenie di amorini, attesi, come noto, ai loro giochi puerili. Questa favola antica incontra il proprio zenith nella raffigurazione di Diana che, conclusa la caccia, appare nel finto varco della cappa del camino al centro di una delle pareti della stanza, per risalire all’Olimpo sul carro trascinato dalle due cerve, interpretate pure come cavalli; dalla chiave di volta del soffitto con l’impresa di Giovanna Piacenza quale incipit, la storia trascorre vigile alle pareti ad incontrare Diana, alter ego della badessa. Le pareti della Camera quasi quadrata, forse originariamente ricoperte di arazzi a motivi naturalistici sono oggi prive di decorazioni, fatta eccezione per quella, da considerarsi centrale, ove appare Diana. Sono conchiuse, al limite della volta, da un fregio dipinto e scandito da finti capitelli, la cui voluta ionica, trovata teneramente arguta del Correggio, è resa da corna arricciolate ed agghindate di teste d’arieti che sembrano ammiccare con ironia, tanto appaiono ancora trepide di vita. Gli arieti sacrificati non sembrano ancora morti: negli occhi, nelle labbra, quasi umane, sembrano portare il peso del cammino dell’umanità verso la salvezza.
Sulle mensole poi tutto un brulichio di oggetti anima le tovaglie le quali sostengono brocche, piatti d’argento, patere, fiasche, rami d’alloro. I capitelli sono sormontati da sedici lunette monocrome, quattro per ciascuna parete, incorniciate da una modanatura di conchiglie, ove sono raffigurate a monocromo figure direttamente tratte dall’universo classico: l’antico è bene in vista qui grazie a questi rilievi “a cera fusa”, i quali sorpresi dalla luce radente dal basso, generano un seducente chiaroscuro.
Il Correggio compone qui un canto intonato alle grazie, alla bellezza dell’infanzia, e indulge nei particolari più voluttuosi, fisici, sessuali a volte, di quei corpi ignudi. Il Correggio, pittore benedettino, entro il realismo di tanta umanità lascia trasparire il programma cassinese del ripristino dell’Imago Dei, in virtù del quale l’umanità rigenerata dal dono salvifico del Beneficio di Cristo, perverrebbe, sull’esempio divino, ad una nobile spiritualità, tale da riflettersi nella gentilezza e nell’esuberanza del comportamento umano. Assai chiari si concentrano nell’opera dell’artista, e proprio a partire dagli affreschi della camera, i temi centrali della natura umana trasformata, i cui corpi, come questi, sani e belli, ma soprattutto la grazia femminile coniugano il tema del ripristino dell’Imago Dei. Diana, celebrazione della virtù insita negli insegnamenti cassinesi, gli amabili putti, intenti a scherzare e ad impennarsi in posizioni acrobatiche, le splendide Grazie ed Apollo, sono tutti esempi di creature belle nel corpo e nello spirito. L’artista offre nelle pareti il senso più compiuto dell’umanità dell’Imago Dei, raffigurando il tripudio della vita che scorre con prepotenza in tutta la decorazione.
Un brano che sembra declinare il pensiero dominante dell’intera decorazione è quello dedicato a Le grazie: le tre dee, svolte a monocromo nella lunetta, nell’efficace affondo ottenuto con il chiaroscuro grazie al suggestivo artificio della luce proiettata dal basso verso l’alto, sono fra le creature più affascinanti del catalogo del Correggio. Le Grazie non rispondono qui ai canoni della perfezione classica, ma al contrario è lecito cogliere nelle anatomie e nei volti qualche umana imperfezione: il loro stesso atteggiarsi, lontano dall’essere sicuro e disinibito, rivela ritrosia nel ricevere sguardi estranei. L’artista, rinunziando alla regola e al canone del bello, intuisce che non è tanto la bellezza ad attrarci, quanto il piacere di un fascino singolare.
Antonio Lieto intende vagheggiare sulle pareti della stanza una vita nel segno delle Grazie; il pensiero sembra evocare i Versi di Pitagora, e altre immagini simboliche come quella delle Tre Grazie di Seneca. “Perché le Grazie siano tre, perché siano sorelle, perché esse si tengano allacciate per mano” viene giustificato dal filosofo che, ispirandosi a Crisippo, (III sec. a. C.) descrive in De beneficiis[43] il triplice atto della generosità, che consiste nel dare, nell’accogliere e nel restituire. Il rito del beneficio, infatti, comporta che esso venga elargito con la mano, ma per tornare al donatore, e per quanto “vi sia una più alta dignità in colui che dà”, la catena non si deve interrompere. Il brano del Correggio, una libera interpretazione del gruppo antico, punta forse all’idea che Seneca aveva della liberalità, che collimava con il monito delle prescrizioni cassinesi. Alle Grazie è assegnato un compito solenne; Muse ispiratrici della bellezza universale e della sapienza esse ci consegnano il messaggio offerto da Correggio e dalla badessa benedettina nella decorazione.
Maria Cristina Chiusa Parma aprile 2018
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NOTE