Orfani del vento. L’autunno degli zingari. Una piccola mostra per fare pensare

di Luca CALENNE

Raramente mi trovo a passeggiare per la Suburra, i miei tragitti quotidiani ormai sono mutati, ma quando mi capita di percorrere quei vicoli, mi piace passare a piazza degli Zingari, per vedere se (r) esiste ancora la libreria “Libri Necessari”.

Fig 1

Ho sempre il timore di doverla inserire nella mia personale anagrafica delle librerie romane scomparse, e invece, eccola! Indomita e tentatrice, come sempre, da almeno tre lustri. Prima di uscirne con l’immancabile libro che mi è rimasto attaccato alle dita, sono invitato a scendere a vedere la mostra Orfani del Vento. L’autunno degli zingari del fotografo siciliano Tano d’Amico, a cura di Matteo di Castro, in corso fino al 1° aprile 2023 [fig. 1].

«È un incontro preparato dal destino», mi dico, ripensando ad alcune ricerche che ho condotto in passato, alla commedia cosiddetta zingaresca, al fondamentale libro di Leonardo Piasere (Buoni da ridere, gli zingari), a quello non meno bello di Annabella Rossi (Le feste dei poveri), e alla Buona ventura di Simon Vouet di Palazzo Barberini, dove una sorta di Renzo Tramaglino viene circuito da una bella chiromante gitana e borseggiato dalla sua anziana complice. Ebbene sì, lo confesso, i soggetti zingareschi sono una mia passione, nata sotto il segno della pittura caravaggesca; vengo qui due volte l’anno, e mi attende questo premio! Peraltro, non c’era un luogo più adatto per allestire questa piccola esposizione: a pochi metri dalla libreria si trova l’epigrafe che ricorda la deportazione nazista degli zingari, i quali si insediarono nel quartiere Monti fin dal basso medioevo, come sappiamo grazie alle accurate e meritorie ricerche storiche di Vladimyr Martelli.

Scendo nell’ex cisterna romana sotto la libreria, adibita a saletta per le mostre, e trovo subito i testi degli altri due curatori di questa piccola ma toccante mostra [fig. 2].

Fig 2

Sono estratti dal volume con lo stesso titolo, pubblicato dalla casa editrice Mimesis. Christian Raino giustamente fa notare come le foto di Tano D’Amico, anche se

«raccontano le famiglie, i bambini, di un’altra epoca, di altri campi e altre baracche», sono attuali, perché «oggi la situazione è identica, forse peggiore, forse appena migliore».

 Michela Becchis riporta invece un brano dello storico David Abulafia, che ricorda le «lettere di protezione» emanate da principi e vescovi che gli zingari portavano con sé nel Quattrocento, con cui chiedevano alle comunità solo di essere «humaniter tractati»; poco conta se quelle lettere fossero autentiche o patenti false create ad hoc dagli stessi nomadi, magari grazie all’aiuto di qualche cancelliere compiacente, è assai più importante il senso della richiesta, ossia di non essere perseguitati, di essere considerati esseri umani. Una mite richiesta, in fondo.

Quelle lettere – lo sappiamo – non sono bastate: nei secoli le persecuzioni non sono mai mancate, anzi poco è mancato che Rom, Sinti e Caminanti sparissero inghiottiti dai campi di sterminio nazisti. Nemmeno lo status di sopravvissuti ha però eliminato lo stigma sociale, e se agli ebrei è stato concesso di crearsi uno stato, a loro si continua a rimproverare ogni giorno di esistere, ovvero di non essere integrati con il modello di società vigente, e di volere perpetuare uno stile di vita – il nomadismo – che è incompatibile con quel modello di società. Ma il loro girare, in verità, è finito da tempo: i Rom non si spostano più tra le nazioni, semmai tra i quartieri, da un campo all’altro, e ogni campo è uguale all’altro.  Quando l’ultimo di loro si fermerà del tutto, il mondo sarà probabilmente più ordinato, ma avremo perso tutti qualcosa, avremo tutti un’opzione in meno, e quindi anche un po’ di libertà in meno.

D’altra parte, gli zingari ce la mettono tutta per essere detestati e indesiderabili: vanno in giro raccattando gli oggetti che noi buttiamo, sembrano non curarsi della sporcizia né del numero dei loro figli, indossano abiti consunti senza alcun rispetto per la moda, e poi ci sono i furti, le parolacce sempre pronte, e l’accattonaggio come mestiere. Sono indifendibili, bisogna ammetterlo, ma sono gli unici veri irriducibili ribelli del nostro tempo, anzi di tutti i tempi, i veri Bohémiens; sono loro il paradigma di ogni ribellione, e solo per questo meriterebbero di essere apprezzati di più da noi, ex ribelli, ex utopisti disillusi, che la vita ha piegato.

La bellezza delle foto di Tano D’amico è un piccolo risarcimento a quella bellezza sfiorita anzitempo e mortificata da abiti male assortiti, che per coglierla devi stare in mezzo loro, ossia trovarti nel bel mezzo di un matrimonio o di un funerale (Goran Bregović docet), di una festa o di un momento di riposo, ed è questo che ha fatto con discrezione Tano d’Amico, ricavando dai campi rom del Casilino  Una galleria di immagini che può affiancare a quella memorabile realizzata tra il 1968 e il 1975 dal fotografo ceco Josef Koudelka, Gitans. La Fin du Voyage, che solo nel 2012 è stata pubblicata nella sua interezza. Negli scatti di entrambi è percepibile la stessa volontà di ascolto dell’altro, la stessa fiducia reciproca, la stessa ricerca dell’uomo sotto le apparenze, i discorsi, le convenzioni. Una ricerca che, ovviamente, l’uso sapiente del bianco e nero idealizza, trasfigura, poeticizza, insomma rende opera d’arte, piuttosto che il mero e distaccato reportage di un antropologo o di un sociologo.

La prima foto che incontro è quella scelta come locandina della mostra [vedi fig. 1], un gruppo di bambini che tengono una bandiera con una ruota, la bandiera appunto del popolo Rom. Sembra che siano ad una manifestazione, dietro di loro si vede anche qualche adulto. Sarà una foto dei primi anni Ottanta. Guardano tutti in alto, non so bene a cosa, direi al loro futuro. Penso che quei bambini oggi saranno miei coetanei (o quasi) e temo per loro, mi chiedo che fine abbiano fatto. Il futuro che quei bambini attendevano all’epoca di questa foto, ora è arrivato, e loro ora dove sono?

Accanto una bambina con le trecce si specchia, soddisfatta della sua felpa nuova [fig. 3],

Fig 3

e in un’altra foto, due ragazzine si improvvisano parrucchiere per un’altra sorridente, quasi una Pippi Calzelunghe balcanica [fig. 4].

Fig 4

Davanti a tanto infantile candore – che né i fumi del campo nomadi, né il lezzo dei cassonetti possono intaccare – è difficile rimanere indifferenti come quando incontriamo gli stessi bambini per la strada, intenti «con le vene celeste dei polsi […] a caritare», con un’insistenza lamentevole che ci urta. Ho visto anche zingari felici, per citare il titolo di un celebre film, ma per farlo occorre prima creare un’empatia, partecipazione, e questa è la missione delle foto di D’Amico.

Su una staccionata stanno invece cinque bambini mascherati per carnevale [fig. 5].

Fig 5

Il posto mi pare famigliare, sulla via Prenestina, mi sembra persino di riconoscere pure le case sullo sfondo. Messi in posa, un po’ malinconici e risparmiati dal chiaroscuro, i bambini hanno qualcosa di oleografico, se non fosse per il coniglio e la tigre che chiudono la scena, due fauves assai meno rassicuranti, tanto che sembrano uscire da un quadro di Ensor. In aggiunta ai musetti imbellettati dei bambini al centro, il volto negato (per sempre) di quei due ragazzini crea inevitabilmente una nota dissonante, e assumono l’aspetto di un avvertimento: non saprete mai tutto di noi.

In un’altra foto, una ventina di rom sono allineati sul greto del Tevere, probabilmente nei pressi di una discarica [fig. 6].

Fig 6

La foto è stata scattata nel 1985 ma in realtà è senza tempo, se non fosse per il taglio della giacca degli uomini. Le donne più anziane hanno il capo avvolto in grandi foulards, annodati stretto sotto il mento. I bambini sono distratti. Le curatrici della mostra giustamente paragonano questa immagine al Funerale di Ornans di Gustave Courbet, soltanto che in quel famoso quadro il compito dell’admonitor di albertiana memoria spetta al crocifero, che ci rivolge uno sguardo d’intesa complice e demistificante, mentre qui tocca alla prima donna da sinistra, con una gonna a quadri e i capelli scuri, a ferirci con il suo sguardo. Uno sguardo dipinto – scrive Jean Luc-Nancy – tocca inesorabilmente il nostro sguardo come una mano potrebbe toccare il nostro corpo, stabilendo un contatto che risveglia la nostra coscienza. Qui però non c’è il beffardo sorrisetto del crocifero di Courbet, ma due occhi profondi e stanchi, e un accenno di rimprovero.

Ma la foto che mi lascia il segno più profondo è quella che rappresenta una giovane madre su un camper che assiste con i suoi figli allo sgombero del suo campo [fig. 7].

Fig 7
Fig 8

La foto ha un illustre prototipo, ossia la foto The Migrant Mother scattata da Dorothea Lange nel 1936 a Nipomo (California) durante la Grande depressione americana [fig. 8]. Vi si ritrova la stessa incertezza per il futuro, lo stesso interrogarsi su quale è l’oscura e atavica colpa che la propria famiglia deve scontare, lo stesso senso di precarietà. Mentre alle porte dell’Europa infuria una guerra, e tante altre si combattono in luoghi lontani, le due foto sono virtualmente una accanto all’altra, a ricordarci che le nostre certezze sono quasi sempre un privilegio di nascita.

Libreria Libri Necessari Via degli Zingari 22A Roma

Il finissage della mostra “Orfani del vento” è fissato per il 31 marzo 2023 dalle 18,00 alle 20,00

Luca CALENNE  Roma  12 Marzo 2023