di Nica FIORI
È giunta alla terza fase la mostra “Colori dei Romani. I mosaici dalle Collezioni Capitoline”, realizzata con un allestimento accattivante nella Centrale Montemartini, un interessante esempio di edificio industriale per la produzione di elettricità del 1912 riconvertito in museo.
L’esposizione riguarda differenti tipologie di opere musive policrome (sia pavimentali sia parietali), suddivise in più sezioni tematiche, all’interno delle quali il percorso segue un andamento cronologico. Si tratta indubbiamente di un patrimonio unico e fortemente caratterizzante della città, perché proveniente al 90% da scavi eseguiti a Roma tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso, nell’ambito delle trasformazioni urbanistiche legate al nuovo ruolo di capitale d’Italia.
I mosaici rinvenuti in questi scavi furono divisi tra i Musei Capitolini e l’Antiquarium del Celio, un museo inizialmente concepito come magazzino archeologico, che nel 1939 subì delle lesioni a causa dei lavori per la metropolitana. Ciò comportò l’abbandono del complesso e il trasferimento in altri magazzini dei reperti, che di fatto risultarono invisibili. Solo in questi ultimi anni sono stati in gran parte recuperati e restaurati nei laboratori comunali, così da rendere possibile la loro esposizione, accompagnata da foto storiche, acquarelli e disegni che raccontano i ritrovamenti.
Fin dalla sua inaugurazione, nell’aprile 2021, il progetto espositivo si è sviluppato con l’idea di esporre i mosaici in più fasi, nell’ambito di una mostra “in fieri”, proponendo di volta in volta nuove opere restaurate, delle quali vengono raccontati non solo gli aspetti estetici, ma anche le vicende relative ai loro proprietari.
Con le ultime 16 opere esposte si raggiunge ora il centinaio di pezzi, superando la collezione dei mosaici dei Musei Vaticani, quasi del tutto decontestualizzati, e quelli del Museo Nazionale Romano, come ha precisato il Sovrintendente Capitolino ai Beni culturali Claudio Parisi Presicce, curatore della mostra insieme a Nadia Agnoli e Serena Guglielmi.
La visita che viene proposta è un’occasione da non perdere per approfondire la conoscenza di un’arte affascinante che, a dispetto della definizione vasariana di “pittura eterna”, è oggi assai poco esercitata, mentre nel passato era molto diffusa nel contesto delle civiltà gravitanti intorno al Mediterraneo. Non si può affermare con certezza che il mosaico sia “nato” in una regione precisa, ma probabilmente il mosaico romano pavimentale è di derivazione greca, come riferisce Plinio il Vecchio nel XXXVI libro della Naturalis Historia: “I pavimenti ebbero origine in Grecia e furono abbelliti con arte analoga alla pittura”.
Il mosaico assicurava una buona durata nel tempo, grazie alle sue tessere in materiale inerte (pietra, marmo, pasta vitrea), fornendo allo stesso tempo la possibilità di sbizzarrirsi con svariati motivi geometrici e vegetali, cui spesso si aggiungevano elementi figurati e simbolici che arricchivano di significato l’opera. Gli antecedenti del mosaico realizzato con tessere sono i pavimenti a ciottoli colorati, che già dal V-IV secolo a.C. decoravano con scene figurate le case in varie città della Grecia e della Magna Grecia. Solo nel III secolo a.C. venne introdotto l’uso delle tessere, che gradualmente si diffuse anche a Roma. Un esempio di pavimento tipicamente romano, noto a partire dal II secolo a.C., è quello punteggiato di tessere a spina, come nell’esempio appena restaurato, realizzato con tessere di basalto e marmi bianchi, che si aggiunge alla prima sezione espositiva, relativa alla storia e alla tecnica del mosaico.
Un’altra novità nel percorso iniziale è data da un mosaico policromo parietale con una fascia decorativa verticale realizzata in calcare e pasta vitrea. Doveva far parte di una piccola struttura architettonica appartenente probabilmente a una fontana o a un ninfeo del I secolo d.C., come si deduce dall’abbondanza di tessere azzurre che richiamano l’elemento acquatico.
È stato aggiunto al percorso anche un mosaico pavimentale con tessere in palombino, basalto e calcari colorati (IV sec d.C.), rinvenuto nel 1872 nella zona dell’Esquilino. Era composto da ottagoni adiacenti, delimitati da una cornice a dentelli e con un’ulteriore cornice esterna a treccia. Molto particolare è il motivo centrale: un fiore stilizzato policromo con petali terminanti in due volute divergenti.
La terza fase espositiva, aperta al pubblico dal 14 marzo al 25 giugno, oltre ad aggiungere alcuni reperti al percorso attuato precedentemente, introduce due tipologie di manufatti non esposti prima: i mosaici a grandi tessere marmoree e l’opus sectile, raccolti in una nuova sezione chiamata “I colori del marmo”.
Viene giustamente evidenziato in mostra che in età repubblicana venivano usate a Roma soprattutto le pietre locali, quali il tufo, il travertino o il peperino, mentre a partire da Augusto si diffonde l’uso dei marmi, divenendo consuetudine nell’architettura pubblica, civile e sacra, come pure in ambito privato. Celebre è l’affermazione del primo imperatore, di “aver trovato una città di mattoni e di restituirla di marmo”, riferita da Svetonio nelle Vite dei Cesari. Ma non si trattava certo dei manufatti in marmo bianco che sono stati proposti da una certa cinematografia in costume, e ancora prima dal gusto neoclassico e dalle gipsoteche. La città doveva essere molto colorata, come gli archeologi ci hanno più volte dimostrato, e non solo nel senso che le statue e i rilievi in marmo bianco venivano dipinti, ma anche perché c’era un’abbondanza di cromie naturali, dovute all’estrema varietà dei materiali lapidei usati nella statuaria, nelle colonne e nei rivestimenti architettonici.
Nella Roma del III e del IV secolo d.C. la grande disponibilità di marmi colorati e gli scarti di lavorazione dei grandi cantieri edili erano impiegati per diversi scopi, tra i quali la realizzazione di tessere di mosaico. È in questo periodo che nasce una categoria particolare di mosaici pavimentali a grandi tessere, realizzati con materiali particolarmente preziosi: porfido, serpentino, portasanta, giallo antico. Appartengono a questa categoria i mosaici in mostra provenienti dalle Terme di Diocleziano: frammenti di tessellato con una rara combinazione di marmi e porfidi, rinvenuti nel corso degli scavi del 1873. Un frammento, in particolare, presenta una spirale di giallo antico con al centro un disco di tessere in porfido rosso; altre tessere usate sono in marmo bianco e in cipollino.
Un focus didattico è offerto da una vetrina con lastrine di marmi colorati, cui è accostata una carta geografica che indica la provenienza dei vari marmi.
Il porfido rosso, dal colore simile alla porpora ma punteggiato di piccolissimi puntini chiari, proveniva dal Mons porphyrites in Egitto. Sempre dall’Egitto proveniva il granito rosa di Assuan.
Il porfido verde, o serpentino, era estratto dalla zona di Sparta, in Grecia, ed era perciò detto anche marmor lacedaemonium.
Il pavonazzetto, il cui nome deriva dalle chiazze e venature di colore paonazzo, ovvero violaceo, su fondo bianco, era il marmo più importante della Frigia (nell’attuale Turchia).
Il giallo antico era detto marmor numidicum perché proveniva dalla Numidia (Africa settentrionale). Pure dalla Numidia proveniva il bigio morato, o marmo nero antico, a volte macchiato dalla presenza di fossili marini biancastri.
Il portasanta, dal bel colore rosato inframmezzato da macchie giallo-arancio, brune, grigie, era detto in epoca romana marmor chium, perché proveniva dall’isola di Chio, nell’Egeo settentrionale.
Mentre i mosaici facevano uso di tessere, nella tecnica chiamata opus sectile (termine coniato nel XIX secolo basandosi su quello antico di sectilia pavimenta), venivano usati dei ritagli di marmo più grandi, accostati tra loro a formare motivi geometrici e talvolta anche figurati, sia nei pavimenti sia nelle pareti (in questo caso si parlava di incrustationes).
A Roma la produzione dei pavimenti a marmi tagliati inizia intorno ai primi anni del I secolo a.C. e si sviluppa parallelamente a quella dei rivestimenti a mosaico. Il marmo diverrà prevalente nella seconda metà del I secolo d.C. con disegni sempre più complessi e articolati. Gli edifici imperiali e pubblici, ma anche le residenze aristocratiche erano spesso decorati con preziosi pavimenti realizzati con un’ampia varietà di marmi policromi.
Nel III secolo diminuisce gradualmente la produzione di sectilia pavimenta: con la decadenza dell’Impero, infatti, era più complesso procurarsi il marmo, tanto che si ricorreva alla pratica del reimpiego dei materiali, un fenomeno predominante nel IV secolo.
Gli esempi in mostra rappresentano sia la fase più antica della produzione sia quella più tarda, con pavimenti disegnati a quadrato o a losanga, a motivi semplici e complessi, spesso caratterizzati dall’uso predominante di elementi di reimpiego, ma sempre con un’associazione di materiali che creano un particolare effetto cromatico. Questa produzione ha il suo centro di diffusione nell’Urbe e uno dei primi esempi di questa tipologia è quello del pavimento dioclezianeo nella Curia Iulia nel Foro Romano, datato alla fine del III secolo d.C. e caratterizzato dall’abbinamento del porfido verde greco con il porfido rosso egiziano e il pavonazzetto.
L’ultimo settore del percorso espositivo, intitolato “La necropoli della via Portuense: mosaici in contesto”, è relativo al sepolcreto venuto alla luce nel 1926, durante la costruzione del primo tratto del nuovo viale della Circonvallazione Gianicolense, presso la stazione di Trastevere.
I numerosi sepolcri individuati appartenevano a un periodo compreso tra il II e il V secolo d.C. ed erano in parte a incinerazione e in parte a inumazione; al momento della scoperta alcuni pavimenti delle camere sepolcrali conservavano ancora il rivestimento a mosaico, ma la scarsa documentazione eseguita durante gli scavi determinò la perdita dei dati e della provenienza.
In mostra è inserito un grande mosaico con motivi vegetali e uccelli, del quale si era persa la provenienza. Data la sua sostanziale integrità, era stato montato a pavimento nel Braccio Nuovo del Palazzo dei Conservatori dal 1952 al 2005 e ne era stata proposta l’errata identificazione con un mosaico scoperto nel 1880 nella Vigna Belardi, sull’Esquilino. Grazie alla ricerca di archivio è stato ora possibile restituire questo mosaico al suo contesto originario della via Portuense.
Nell’allestimento il mosaico è presentato insieme alle iscrizioni funerarie dei defunti della stessa necropoli, importanti testimonianze epigrafiche che ci restituiscono informazioni sui proprietari dei sepolcri, alcuni dei quali di origine straniera. “Troia me genuit” si legge nell’iscrizione di un’ara (frase che riecheggia quella di Virgilio “Mantua me genuit”), evidentemente perché il defunto proveniva dall’area dell’Asia minore dove era sorta la città di Troia, legata a Roma dal mito di Enea.
Un mosaico presenta una testa umana inserita in un motivo bicolore a pelte: al di sopra si legge D M, una sigla che si scioglie in Dis Manibus, cioè “agli dei Mani” (quelli degli Inferi), seguita da ATTICO, ovvero il nome del defunto, probabilmente di origine greca.
Foto 15
Come testimoniano le caratteristiche costruttive delle tombe e le loro decorazioni, i committenti erano in gran parte famiglie benestanti, che appartenevano sia alla tradizione filoellenica sia a quella romana.
Pure proveniente da questa necropoli della via Portuense è un prezioso sarcofago frammentario, attualmente esposto nell’atrio della Centrale Montemartini, che raffigura una scena di battaglia tra Romani e Galli.
di Nica FIORI Roma 19 Marzo 2023
Musei Capitolini, Centrale Montemartini, via Ostiense 106, Roma
Orari: da martedì a domenica ore 9.00 – 19.00. Chiuso: lunedì,1° maggio, 25 dicembre. L’ingresso è consentito fino a un’ora prima dell’orario di chiusura.
Info www.museiincomune.it; www.centralemontemartini.org