di Claudio LISTANTI
Lo storico allestimento di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo del grande Franco Zeffirelli è tornato sulle scene del Teatro dell’Opera di Roma come omaggio al regista fiorentino per ricordarlo con affetto nell’anno che coincide con il centenario della sua nascita.
Un evento, questo, molto atteso dal pubblico romano che ha sempre accolto con estremo interesse le realizzazioni sceniche di Zeffirelli che il Teatro dell’Opera ha più volte inserito nella sua programmazione. Il segreto del successo dello Zeffirelli regista d’opera sta nel fatto che le sue proposte sono sempre state in linea con l’espressione degli autori, ben lontane dalla smania che da qualche decennio contagia registi e scenografi alla ricerca proposte caratterizzate da ‘rotture’, spesso forzate ed inspiegabili, con la tradizione e lo spirito originale. Il pubblico romano ha affollato la Sala del Costanzi visibilmente soddisfatto ed appagato dalla visione d’insieme di tutto lo spettacolo; non solo per la parte visiva ma anche per quella specificatamente musicale.
Con la realizzazione di questa edizione di Pagliacci che, ricordiamo, fu concepita nel lontano 1992 nel centenario della prima rappresentazione e ripresa qualche anno dopo nel 2009, Zeffirelli ha operato una sorta di attualizzazione, cosa che potrebbe sembrare in contrasto con quanto abbiamo asserito poco prima ma, come lo stesso regista dichiarò a suo tempo in una intervista in parte pubblicata nel programma di sala della serata, con questa realizzazione volle fare un omaggio a tutti quegli elementi di modernità che a suo giudizio molto ben evidenti nell’opera. Pur comprendendo che la più gran parte dei capolavori operistici non hanno bisogno di alcuna attualizzazione in quanto l’autore, o gli autori, sapevano mettere ben in risalto la loro poetica e l’impronta drammaturgica dello spettacolo elemento questo che vanifica ogni tentativo di cambio di epoca.
Secondo Zeffirelli, però, Pagliacci permette una operazione di questo tipo in quanto gli elementi di modernità contenuti nell’opera, come l’ambientazione popolare e l’azione circoscritta all’interno di una cornice appartenente al mondo rurale dove agiscono persone semplici, dai modi spontanei quanto genuini e sanguigni, ma anche, e soprattutto, umani, individui che possiamo definire di tutti i giorni, ben inseriti in un insieme dove traspare quel mondo contadino e quel disagio sociale caratteristico, purtroppo della vita dei ceti popolari.
Con Zeffirelli l’ambiente contadino del sud Italia, per la precisione di Montalto di Calabria, luogo presso il quale avvennero i fatti che ispirarono Leoncavallo e che regalano all’opera quei caratteri ‘veristi’ di una giornata della canonica festa di metà agosto, negli anni compresi tra il 1865 e il 1870, caratteri in voga all’epoca della composizione dell’opera che ebbe la sua prima rappresentazione nel 1892, restano strutturalmente simili ad una altro ambiente meridionale, un quartiere della Napoli del secondo ‘900 sempre nel giorno di Ferragosto, dove l’azione immaginata da Leoncavallo si inserisce alla perfezione nello spettacolo.
La scena creata da Zeffirelli offre la visione di uno spaccato di un quartiere periferico, variopinto, semplice nella realizzazione ma maestoso nell’insieme, dettagliata ed analitica fin nei minimi particolari, una scena nella quale quanto previsto dal libretto viene inglobato praticamente alla perfezione.
Molto curati, ed incisivi, tutti i movimenti scenici non solo perché conserva inalterata la trama e l’azione immaginata da Leoncavallo, con il tutto valorizzato da movimenti che Stefano Trespidi ha saputo riprodurre con maestria, con il viavai dei personaggi, come sempre in Zeffirelli incalzante, pressante, spesso frenetico, con l’inserimento di acrobati e giocolieri che davano al tutto il giusto carattere circense in linea con quel piccolo mondo di guitti che caratterizza l’opera. La magnificenza dell’insieme si diffonde anche nel secondo atto, quando lo spettacolo comico si tramuta progressivamente in tragedia, quando il pubblico viene trasportato dagli echi dell’opera giocosa scivolando man mano scivola verso la strada che porta al dramma finale.
A contribuire a tale ricchezza sono stati anche i costumi ideati da Raimonda Gaetani che ha assecondato con grande professionalità l’impronta teatrale impressa da Zeffirelli riuscendo a rendere lo spettacolo del tutto godibile.
Ma l’opera Pagliacci possiede anche un elemento carismatico, quello di essere considerata da molti una sorta di manifesto del verismo italiano in musica. Scritto da Ruggero Leoncavallo grazie al ricordo tratto dalla carriera di suo padre, giudice in Calabria, che condannò un artista girovago che uccise per gelosia sua moglie e il suo amante. Su questo episodio Leoncavallo creò un libretto molto incisivo, ideale per il pubblico che riesce a seguire tutta l’evoluzione della trama che, a parte qualche caso, risulta stringata, chiara e lineare per catturare efficacemente l’attenzione, e la partecipazione dello spettatore.
La trama, nel complesso è piuttosto semplice. Ci troviamo all’interno di una compagnia di girovaghi capitanati da Canio il capocomico che ha al fianco Nedda, sua moglie più giovane di lui. Nella compagnia ci sono anche Tonio e Beppe. Giungono in un paese del sud per dare uno spettacolo a Ferragosto. Nedda, palesemente annoiata di questa vita, è innamorata di un giovane contadino, Silvio. Questo amore, al momento segreto, emerge per opera Tonio, a sua volta innamorato di Nedda; dopo il rifiuto della donna Tonio assume il ruolo di novello Jago, avvertendo Canio del comportamento di sua moglie e scatenando tutto il dramma che si consumerà durante la recita in programma per la sera stessa. Nella commedia rappresentata c’è una situazione analoga. Canio e Nedda sono i coniugi (Pagliaccio e Colombina), Tonio diventa Taddeo anche qui innamorato della donna e Beppe che si trasforma in Arlecchino amante di Colombina. Il tutto è ovviamente a sfondo comico ma Canio/Pagliaccio passa dalla finzione alla realtà e uccide la moglie. Silvio, che si trova tra il pubblico interviene ma Canio, accecato dall’ira e dalla gelosia, uccide anche lui.
Il libretto ci dice che Pagliacci è opera in un prologo e due atti ma realizzata in maniera molto concisa dove il prologo è affidato a Tonio che in poche parole indica allo spettatore la via per arrivare allo spirito e al nocciolo della tragedia. Il primo atto è di presentazione dei personaggi e dell’ambiente circostante mentre nel secondo atto tutto matura in tragedia.
Leoncavallo ha concepito una partitura del tutto funzionale allo svolgimento della trama prevedendo una linea vocale del tutta asciutta, basata su quel declamato melodico che a fine ‘800 dominava le scene liriche, uno stile esaltato dalla progressiva visione dell’opera di Giuseppe Verdi che proprio in quell’epoca stava raggiungendo lo Zenit con il Falstaff che trionferà nel successivo 1893, anno che consacrò definitivamente anche un altro musicista, il giovane Giacomo Puccini, autore quello stesso anno di una Manon Lescaut con la quale fa intravedere la sua poetica musicale dove sono sempre ben presenti questi insegnamenti anche se in lui la parte specificatamente melodica assume una certa importanza.
In Pagliacci, se escludiamo qualche momento del primo atto dove è chiara l’ispirazione all’operetta, genere molto in voga all’epoca e frequentato spesso anche da Leoncavallo e da lui utilizzato per sottolineare con leggerezza l’amore nascosto tra Nedda e Silvio, nel resto abbiamo un declamato asciutto dalla linea vocale piuttosto impegnativa che sostiene una narrazione tanto stringata quanto intelligibile, favorendo lo scorrimento della storia. Il tutto però è rafforzato da una vena melodica piuttosto consistente che ne impreziosisce l’effetto sonoro. Di grande effetto il prologo di apertura affidato ad un monologo assegnato alla voce di baritono di Tonio dal sapore quasi ‘espressionista’ che chiarisce allo spettatore lo spirito dell’opera che poi avrà il suo epilogo nel secondo atto e nello strepitoso finale realizzato con un chiaro esempio di “teatro nel teatro”.
Qui si svolge la rappresentazione della compagnia di guitti nella quale si scorge chiaramente il carattere della commedia dell’arte affidato ad una musica di stile settecentesco, leggera ed elegante che richiama agli stilemi dell’opera buffa. Al tutto si sovrappone con sempre maggiore intensità la tragedia incombente che divide la recita in due parti con il pubblico che crede fino all’ultimo alla comicità del soggetto contrapponendosi alle sensazioni della compagnia di attori dove tutti capiscono che la temperatura del dramma sta crescendo vorticosamente. Le due parti si intrecciano, nessuna delle due prende il sopravvento perché alcuni attori cercano di riportare la recita sui binari della comicità che, repentinamente, si sposteranno poi su quelli dal finale tragico che sarà compreso da tutti solo dopo l’uccisione di Silvio salito al proscenio per difendere la sua amata Nedda. Anche l’orchestrazione, a nostro giudizio, si rende funzionale a valorizzare la visione d’insieme contribuendo a rendere del tutto ottimale la percezione dell’azione e della tragedia.
Pagliacci andò in scena per la prima volta al Teatro dal Verme di Milano il 21 maggio 1892 sotto la direzione di Arturo Toscanini riscuotendo fin da allora, e a seguire, un buon successo di pubblico. Poco dopo la prima fu abbinata a l’altro capolavoro del verismo musicale italiano, Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, che debuttò proprio al Teatro dell’Opera di Roma nel 1890. Assieme, per anni, Cavalleria e Pagliacci hanno costituito un binomio pressoché indistruttibile divenendo lo spettacolo simbolo del verismo italiano. Una unione che danneggiò l’opera di Leoncavallo considerata spesso più debole sotto il punto di vista teatrale.
Scarsa considerazione ebbe anche dalla critica nostrana, condizionata frequentemente da un intellettualismo che si è rivelato spesso dannoso, che la considerava ‘minore’ rispetto ad altri capolavori del teatro d’opera. Non fu così al di fuori dei nostri confini, soprattutto nei paesi di lingua tedesca dove un dramma a forti tinte come questo era molto apprezzato in quell’ambiente musicale e culturale, comparendo così diverse volte nei programmi dei teatri d’opera. Ci furono anche personalità come il musicista, musicologo e direttore d’orchestra di origini polacche René Leibowitz che stimava molto questa partitura. Come ricorda lo studioso Cesare Orselli nel suo interessante saggio pubblicato nel programma di sala della serata, Leibowitz, famoso anche per essere tra i musicisti legati alla dodecafonia ed a Schönberg, nel 1957 diede un giudizio, che lo stesso Orselli ipotizza polemico e provocatorio pur approvandone il significato di fondo, che riteneva Pagliacci
“opera possente d’una intensità espressiva eccezionale, degna d’occupare un posto d’onore fra i grandi capolavori dell’arte lirica”.
Negli anni, inoltre, si è anche verificato l’abbandono del binomio Cavalleria-Pagliacci, dovuto ad una serie di fattori tra i quali le cospicue dimensioni della durata dello spettacolo ma anche il fatto che per eseguirle entrambe è necessario avere due compagnie di canto di primaria importanza. Tali condizioni hanno favorito esecuzioni staccate di entrambe le opere consentendo così a Pagliacci di essere apprezzata senza condizionamenti, dimostrando anch’essa di fare ‘serata’ e di possedere una apprezzabile autonomia stilistica.
Lo spettacolo del Teatro dell’Opera di Roma, del quale riferiamo dopo aver assisto alla recita del 14 marzo scorso, si è rivelato valido, non solo per la parte visiva come poco prima descritto ma anche per la parte prettamente musicale.
La compagnia di canto ci è apparsa del tutto omogenea e ben preparata per riprodurre quanto creato da Zeffirelli. Nella parte di Canio/Pagliaccio ha brillato il tenore Luciano Ganci in possesso di una voce fresca e squillante che ha superato con facilità le difficoltà di una linea vocale che risulta sempre complicata ed impervia, mostrando sicurezza nelle emissioni. Tonio/Taddeo era il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat molto apprezzato qui in Italia per la sua voce potente ed espressiva, confermando ancora una volta la sua abilità vocale senza cedere a forzature o ad esibizione di atletismi vocali come spesso capita per questo genere di repertorio. Il soprano georgiano Nino Machaidze in possesso di un repertorio piuttosto vasto nel quale spiccano molti personaggi di capolavori italiani, ha mostrato una voce molto elegante seppur in presenza di qualche difficoltà nella pronuncia e nella linea vocale del primo atto. Si è riscattata nel secondo atto offrendo una prova vocale di alto livello impreziosita anche da una accurata presenza scenica regalandoci una Nedda/Colombina del tutto valida teatralmente. Silvio era il baritono Vittorio Prato bravo nel rendere il personaggio come il tenore Matteo Falcier nella parte di Beppe che vogliamo ricordare per la delicatezza e l’eleganza con la quale ha cantato la breve ma significativa serenata di Arlecchino del secondo atto. Per concludere Massino Di Stefano e Giordano Massaro sono stati, rispettivamente, Primo e Secondo contadino.
Daniel Oren, che fu già apprezzato direttore nella citata realizzazione zeffirelliana del 1992, ha confermato tutte le sue qualità di direttore d’opera dedicando estrema cura ai cantanti, ai cori e all’orchestra e offrirci una direzione del tutto teatrale ed avvolgente. La sua direzione si è giovata della professionalità dell’Orchestra del Teatro dell’Opera e del Coro del Teatro dell’Opera diretto da Ciro Visco ai quali si è aggiunto anche il determinante apporto del Coro di Voci Bianche. Un cenno anche per la fattiva partecipazione del Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera e dei numerosi mimi ed acrobati che hanno contribuito alla felice rappresentazione.
Il pubblico è convenuto numeroso a questa recita riservando un caloroso successo per tutti gli interpreti chiamati più volte al proscenio dagli applausi di tutti gli spettatori.
Claudio LISTANTI Roma 19 Marzo 2023