di Beatrice BUSCAROLI
“La macchia è la solidità dei corpi di fronte alla luce”.
Giovanni Fattori
Macchiaioli o Impressionisti? Italia o Francia? Oggi la contrapposizione sembra ormai essere risolta, o, quanto meno, decisamente stemperata. Ma nell’immediato secondo dopoguerra quella dicotomia aveva una soluzione inequivocabile e la esprime in modo risoluto, quasi focoso, Roberto Longhi, introducendo la Storia dell’Impressionismo di John Rewald. Siamo nel 1948 e il maestro della storiografia artistica italiana non ha dubbi: “Buona notte signor Fattori”.
Eppure una prima “riabilitazione” di quell’esperienza la si deve all’allievo bolognese prediletto da Longhi, Francesco Arcangeli. Nelle sue ultime lezioni, all’inizio degli anni Settanta, mette a confronto opere coeve di Auguste Renoir e di Silvestro Lega, sottolineando l’originalità dell’opera del macchiaiolo. Gli studenti si esprimono in larga maggioranza a favore delle indicazioni critiche dello storico.
Insomma, la competizione impostata come ineludibile da Longhi inizia ad assumere connotati del tutto originali: la stagione dei Macchiaioli richiede una lettura e un’attenzione nuove. Il franco-centrismo della storia della pittura europea del XIX secolo si può e si deve rimodulare, senza per questo eludere la centralità dell’Impressionismo; eppure riconoscendo le potenzialità di un dialogo aperto, audace e propositivo, capace di riconoscere il contributo – tecnico e tematico – di quella scuola “toscana” che fiorisce verso la metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento.
Giovanni Fattori – nato a Livorno nel 1825 e scomparso a Firenze nel 1908 – è uno dei cardini di questa originale visione della realtà, assieme al poetico Silvestro Lega e all’eccentrico e raffinato Telemaco Signorini.
Nel 1845 Fattori inizia gli studi a Firenze, all’Accademia, ma anche presso la prestigiosa scuola privata di Giuseppe Bezzuoli. E a Firenze inizia a frequentare il Caffè Michelangiolo, dove artisti e patrioti democratici e liberali, contrari alle ingerenze austriache e alla restaurazione granducale, si riuniscono assiduamente.
Qui conosce Andrea Gastaldi, con il quale dà avvio alla pratica di dipingere il paesaggio “dal vero”, inaugurando una consuetudine che i giovani del Caffè Michelangiolo resterà costante per molto tempo. Nel 1855 il provocatorio e violento chiaroscuro dei frequentatori del Caffè sembra modificarsi grazie alle informazioni che Serafino De Tivoli e Domenico Morelli portano da Parigi, dove hanno avuto modo di visitare l’Esposizione Universale: è la novità del ton gris, del fare pittura che interroga il “vero” attraverso il chiaroscuro della “macchia”, la tecnica pittorica sperimentata da Gabriel Decamps e Paul Delaroche, consistente nel ritrarre la natura osservandola con uno specchio scuro per meglio filtrare i contrasti chiaroscurali.
Ma non solo di questa sperimentazione si tratta. L’osservazione “dal vero” si manifesta in Fattori anche attraverso il filtro di una carica emotiva squisitamente risorgimentale: il vero è anche – e soprattutto – la narrazione storica degli eventi che ci accompagnano, l’adesione a un’idea che accomuna i giovani del Michelangiolo. E anche qualche cosa di più: gli eventi che si certificano, gli atti che accompagnano il farsi di una storia, per quanto incerta, vanno colti nella loro dimensione più intima, quasi nel loro “pericolo”.
Nei soldati francesi di Girolamo Napoleone, in quei reparti multietnici con zuavi e turchi, non c’è retorica, non c’è celebrazione estatica dell’epica storica di Delacroix o di David (le cui opere sono viste da Fattori all’interno della collezione fiorentina di Anatoli Demidoff). La rivoluzione patriottica è vista attraverso gli abbozzi di un realismo sintetico, quasi iconoclasta, che si esplicita in tavole di ridotta dimensione dove il fragore della battaglia sembra essere nascosta, come accade in Soldati francesi del ’59, tre soldati, accampamento.
Come avrebbe sottolineati Diego Martelli, critico apprezzato anche da Longhi, “il loro modo di far pittura (dei macchiaioli), di colorito nuovo, brillante argentino, il chiaroscuro potente” sono espressione di un “fanatismo” sincero teso a una profonda riforma artistica. L’artista studia le sagome e le divise dei soldati sotto l’effetto del sole, fissandone l’impressione su una tavoletta, apparentemente comune nella morfologia ma estremamente complessa ed ardita nella struttura compositiva. E questa attenzione non si attenua negli anni, quanto meno fino a quel capolavoro del 1872 In vedetta, dove è l’astrazione del “muro bianco” a fare da quinta ai soldati che controllano un territorio assolato.
È stato osservato – penso ragionevolmente – quanto impianto compositivo e effetti della luce siano debitori il primo della diffusione della grafica giapponese, il secondo della diffusione del mezzo fotografico. E questo forse si chiarisce meglio nelle opere del decennio successivo, nei paesaggi e nei ritratti di vita contadina.
Comunque sia, già nelle opere che Fattori realizza nei soggiorni a Castiglioncello, ospite dell’amico Martelli – assieme a Signorini, Vincenzo Cabianca, Raffaello Sernesi, Odoardo Borriani e Vincenzo Abbati – questo processo si pone in atto, divenendo motivo centrale della sua opera (Raccolta del fieno, Cavalli in Tombolo, Raccolta del fieno in Maremma, Riposo in Maremma, Pineta di Castiglioncello) .
L’amicizia e l’influenza del giovane Giovanni Boldini consente a Fattori di avvicinarsi all’influente borghesia fiorentina, per la quale realizza opere di genere, mondane, come Signora all’aperto, o Rotonda Palmieri, entrambi nel 1866. E, nel 1869, viene nominato docente di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Eppure, sul finire degli anni Settanta, in Fattori prende corpo un nuovo gusto per il paesaggio, dove si manifesta una visione amara, disincantata, che non ha più niente a che vedere con gli idilli dei soggiorni a Castiglioncello. Una natura rude, spesso crudele, grazie alla quale emergono sottili adesioni sociali ai costumi contadini: Lo spaccapietre, Case di contadini, La raccoglitrice di foglie, Trecciaiola toscana, fino al Carro rosso dell’85, e al Riposo dell’87.
Il “narratore dell’epopea risorgimentale – ha scritto Andrea Baboni – va affiancato al poeta delle sintetiche, liriche tavolette degli anni Sessanta; il prosatore dei grandi quadri dei butteri non va disgiunto dal cantore dell’elegia agreste di acquaiole e boscaiole”.
Fattori è stato tutto questo, oltre che robusto disegnatore e asciutto acquafortista. Interprete di un clima quanto mai controverso, dove la storia viene rivissuta nei suoi contrasti e nelle sue incertezze, senza magniloquenza e infingimenti: nei “piccolo” delle battaglie e nel maestoso di una natura che le gesta umane non possono intaccare.
In questo non c’è il “provincialismo” denunciato dalla blague di Longhi, ma piuttosto l’impegno di porre l’arte in dialogo con una storia ricca di compromissioni, e, forse, di tradimenti.
La mostra “Fattori. L’umanità tradotta in pittura” aperta a Bologna (Palazzo Fava, fino al 1 maggio, a cura di C. Fulgheri, E. Matteucci, F. Panconi) espone, attraverso una settantina di opere, la vasta “umanità” che fu di quest’uomo, attento agli equilibri dei cavalli, quanto alle malinconie dei personaggi che ritrae.
Col tempo, la qualità assoluta della sua pittura ha avuto ragione dell’infelice espressione del Longhi in cattedra, e ogni singolo dipinto, anche quelle tavolette da cui traspaiono le venature del legno, tavolette di pochi centimetri, mostrano come in un’Italia divisa, povera, inattuale, un uomo solo poteva raggiungere la grandezza di Cézanne, che, solo, negli stessi anni, cercava una via d’uscita per riportare la pittura italiana ai fasti antichi, ripetendo, ripetendo sempre lo stesso modello, ma dandogli ogni volta un accento nuovo, un guizzo d’affetto, uno scatto.
Beatrice BUSCAROLI Bologna 19 Marzo 2023