di Nica FIORI
Urbano VIII (nato Maffeo Barberini) fu un pontefice pienamente cosciente della suprema autorità della Chiesa e di quella personale, che esercitò con grande vigore nel suo pontificato (1623-1644), il più lungo del XVII secolo.
Giustamente la grande mostra “L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini”, che gli viene dedicata a Roma nel palazzo Barberini nel quarto centenario della sua elezione, mette in luce la sua immagine di “monarca assoluto”, con potere sullo Stato pontificio e in particolare sulla città di Roma, i cui abitanti venivano da lui chiamati “figli amati”, anche se poi quei “figli” non gli perdonavano la sua politica di grandi spese, per fronteggiare le quali vennero imposte nuove gabelle (tra cui quella famigerata sul macinato). Il popolo romano con il solito sarcasmo lo soprannominò “Papa gabella, dalla barba bella”.
Mentre le classi meno abbienti erano costrette a vivere miseramente, egli riversò un cumulo di benefici sulla sua famiglia, che con le rendite delle nomine acquistò numerosi feudi nel Lazio, oltre allo splendido palazzo alle Quattro Fontane, che era corredato da una magnifica biblioteca e da una collezione di capolavori d’arte. Ricordiamo, in particolare, che nominò cardinali il fratello cappuccino Antonio Barberini e due nipoti, Francesco e Antonio.
Eppure a un certo punto del suo pontificato Urbano VIII, come ricorda Claudio Rendina nel suo libro “I peccati del Vaticano” (Roma 2009):
“è preso da uno scrupolo di coscienza e nel 1640 incarica una commissione cardinalizia di decidere se è da considerarsi peccato quanto egli fa in favore della sua famiglia”.
La risposta fu che tutto era lecito al sovrano pontefice e che il nepotismo era “opera della Divina Provvidenza”.
Forse non è un caso che, proprio nel salone più spettacolare del palazzo, “Il trionfo della Divina Provvidenza” sia il tema dell’affresco della volta realizzato nel 1633 da Pietro da Cortona. La sua enorme superficie, seconda solo a quella della Cappella Sistina in Vaticano, avrebbe spaventato chiunque, ma non Pietro Berrettini. Con sicurezza e inventiva egli creò un capolavoro, facendo vivere le figure allegoriche e gli altri elementi narrativi in uno spazio continuo, in una sola visione prospettica piena di luce. Il soggetto evidenzia il compimento dei fini della Provvidenza attraverso il potere spirituale e temporale del papato. Nella teatralità sontuosa dell’insieme, dove la religione è essenzialmente miracolistica e spettacolare, affiorano le concezioni gesuitiche del poema di Francesco Bracciolini “L’elezione di Urbano VIII”, soprattutto nelle figure di alcuni animali: il leone simbolo di forza, il liocorno di purezza, l’orso di sagacità e l’ippogrifo di perspicacia. Quanto alle api barberine, che caratterizzano lo stemma di famiglia, sono simbolo di operosità.
In realtà, già prima di arrivare al soglio pontificio, la straordinaria ascesa del fiorentino Maffeo Barberini nella carriera ecclesiastica sembra guidata dalla fortuna e da una precoce e oculata strategia, probabilmente già da quando, mentre era un giovane studente a Pisa, un astrologo gli predisse che sarebbe diventato papa. E non mancò certo il favore e la ricchezza dello zio Francesco, protonotario apostolico, che Maffeo seppe mettere utilmente a frutto per costruirsi “un capitale culturale oltre che materiale”, come si legge nella prima sezione della mostra, intitolata “Piacere, fortuna e strategia”. Ricco di una solida formazione culturale e giuridica (aveva studiato dai gesuiti ed era letterato e poeta), si avvicinò anche alle arti e le sue intuizioni lo portarono a investire su geni emergenti quali Caravaggio, del quale è in mostra Il sacrificio di Isacco (1603, Gallerie degli Uffizi, Firenze) e Gian Lorenzo Bernini, che nel 1617 (all’età di 19 anni) realizzò per il cardinale un intenso San Sebastiano, del quale è in mostra una riproduzione in scala 1:1. Nella stessa sezione è esposta anche la grande tela di Ludovico Carracci raffigurante San Sebastiano gettato nella Cloaca Maxima (1612, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles), che era inizialmente destinata alla grotta sotto la cappella di famiglia in S. Andrea della Valle, perché si riteneva che in quel luogo fosse stato ritrovato il cadavere del santo martire, poi trasportato nelle catacombe di San Sebastiano.
Di questo pontefice, che era un vero umanista, in un certo senso l’ultimo dei papi “rinascimentali”, sono ampiamente messi in risalto nella mostra romana il mecenatismo e la promozione delle arti, che concorsero in modo sostanziale al potenziamento del governo spirituale e temporale della Chiesa, oltre che all’accrescimento del prestigio personale e famigliare.
Fu grazie ai suoi artisti preferiti, in primis Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona, che Roma vide la nascita di un nuovo stile, il barocco, che era insieme iperbole, meraviglia, trionfo dei sensi e della creatività.
Come ha dichiarato Flaminia Gennari Santori, direttrice delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini e curatrice della mostra, insieme a Maurizia Cicconi e a Sebastian Schütze:
“La straordinaria macchina di propaganda e innovazione artistica creata da Urbano VIII e l’inestricabile intreccio tra politica e cultura al centro di ogni iniziativa messa in campo dal pontefice sono state le linee guida attorno alle quali abbiamo costruito la mostra”.
Protagonisti e capolavori di quell’eccezionale stagione che fu il suo pontificato sono ora di casa a Palazzo Barberini in una “mostra che unisce nuovamente ciò che la storia aveva separato”, come si legge sulla pagina facebook del museo, alludendo alla disgregazione della collezione Barberini, iniziata già nel Settecento, e proseguita nel 1934 quando, per regio decreto, lo Stato italiano concesse alla famiglia Barberini di poter alienare parte dei capolavori di loro proprietà (prima vincolati), che approdarono così nei principali musei del mondo.
Oltre 80 opere, provenienti dalla collezione permanente del museo e da oltre 40 tra istituzioni museali e collezioni private italiane e internazionali, sono esposte in 12 sezioni, procedendo dalle sale al pianterreno alle sale monumentali del piano nobile. L’allestimento in nero al pianterreno, se da un lato fa risaltare le singole opere d’arte, dall’altro costringe i visitatori a leggere i pannelli didattici e le lunghe didascalie in una condizione di scarsa visibilità, creando non poche difficoltà a chi ha problemi di vista. Il lutto non si addice a un pontefice, mi verrebbe da dire, convinta che egli avrebbe preferito la luce abbagliante dell’oro e il colore della porpora, simbolo di imperium di quella Urbs, nella quale si identificava a partire dalla scelta del suo nome.
Tra i grandi artisti presenti in mostra troviamo, oltre a quelli già citati, Francesco Mochi, Andrea Sacchi, Giovanni Lanfranco, Giovan Francesco Romanelli, Guercino, Nicolas Poussin, Simon Vouet, Valentin de Boulogne. Questi ultimi testimoniano l’atteggiamento filofrancese del pontefice, che era stato nunzio apostolico a Parigi tra il 1604 e il 1607 e aveva ottenuto l’incarico di cardinale grazie all’appoggio della corte francese.
Nella seconda sezione espositiva, “Immaginare la dinastia”, incontriamo i nipoti del pontefice che ebbero un ruolo importante nell’ambizioso disegno dello zio: i cardinali Francesco, che ebbe incarichi diplomatici in Francia e in Spagna e fu un appassionato mecenate delle arti, e Antonio, che creò un teatro all’interno del palazzo e si fece promotore di diverse celebrazioni, come la fastosa giostra del Saracino a piazza Navona.
L’altro nipote è Taddeo Barberini, che nel 1627 sposò Anna Colonna, imparentandosi così con una delle più importanti famiglie romane. Nel 1631, dopo aver acquisito il titolo di Principe di Palestrina, venne nominato Prefetto di Roma, e come tale appare nel ritratto a figura intera realizzato da Andrea Sacchi (1631-33, Collezione Istituto nazionale della previdenza sociale, Roma).
Fra le opere esposte, oltre al Ritratto bronzeo di Urbano VIII di Gian Lorenzo Bernini, fatto realizzare post mortem nel 1656 dal cardinal nepote Antonio e attualmente in prestito dalla collezione del Principe Corsini, ci colpisce un ritratto in terracotta dello stesso pontefice del 1637, eseguito dal cosiddetto Cieco da Gambassi, ovvero lo scultore Giovanni Gonnelli, che aveva perso sì la vista, ma non la manualità.
Proseguendo nel percorso espositivo, ci emozioniamo davanti alla grande tela con il Martirio di Sant’Erasmo di Nicolas Poussin (1629, Musei Vaticani), la prima e unica commissione pubblica romana del grande pittore, che suscitò l’ammirazione di Bernini per il corpo statuario del santo, che affronta stoicamente l’eviscerazione dei suoi organi intestinali. Un altro emblematico martirio è quello dei Martiri di Nagasaki, raffigurati da Antonio D’Enrico, detto Tanzio da Varallo (1627-28; Pinacoteca di Brera, Milano). Ci troviamo, in effetti, nella sezione “La fabbrica dei santi”, che illustra l’atteggiamento di Urbano VIII nei confronti della santità, fin dai primi anni del suo pontificato, ovvero lo sforzo di riaffermare l’universalismo della Chiesa cattolica attraverso la celebrazione di simboliche figure storiche come Matilde di Canossa (raffigurata con in mano la tiara e le chiavi del papato in una statuina di Bernini, che si rifà al suo monumento funerario nella basilica di San Pietro, prestata dal Museo del Castello di Köpenick di Berlino), la politica dei processi di canonizzazione e l’attività dell’Istituto di Propaganda Fide, funzionali all’opera di evangelizzazione nei diversi continenti.
Nella stessa sala viene proposta anche la tela di un artista anonimo, raffigurante le “Celebrazioni per la posa della prima pietra della chiesa di Santa Maria della Concezione” (1626, Collezione privata). Dell’evento furono protagonisti il fratello Antonio, frate cappuccino e cardinale, e lo stesso papa, che aveva destinato ai cappuccini il convento attiguo alla chiesa (in via Veneto), divenuto in seguito celebre per i suoi decori ossei.
In “Hic Domus” incontriamo alcuni capolavori della collezione Barberini, a partire dalla Fornarina di Raffaello, che è stata qui spostata dall’abituale location al piano nobile. Tra i prestiti straordinari vi sono il marmoreo Pan disteso attribuito a Francesco da Sangallo il Giovane (1560-70, Saint Louis Art Museum); la Morte di Germanico di Poussin (1627, Minneapolis Institute of Art), una delle più celebri opere del pittore francese commissionata dal cardinale Francesco nel 1626; il Ritratto di Marc’Antonio Pasqualini con Apollo e Marsia di Andrea Sacchi (1641 ca., The Metropolitan Museum of Art, New York). Da metà aprile verrà esposta anche la grande Allegoria di Roma di Valentin de Boulogne (in prestito dall’Institutum Romanum Finlandiae, Roma).
Nella sezione “Imprese di famiglia” viene illustrato, mediante libri, stampe, opere e oggetti d’arte, un universo simbolico e allegorico dominato dal sole, dalle api e dall’alloro, introdotti dall’emblematico dipinto Allegoria della Pace e delle Arti (1627, Gallerie Nazionali di Arte antica, Palazzo Barberini), opera di Charles Mellin e Francesco Muti Papazzurri.
Segue una sezione dedicata alle attività promosse dai Barberini nel recupero dell’arte antica e tardoantica, ben documentata nelle loro collezioni che comprendevano il Vaso Portland, il Fauno Barberini, il Togato Barberini, un busto di Cicerone e i preziosi reperti della Tomba Barberini di Palestrina. In mostra è esposta la grande tela di Jean Lemaire, Paesaggio con anacoreta e rovine classiche (1637-38, Museo del Prado, Madrid): un dipinto che appare anacronistico, in quanto mostra l’obelisco di Antinoo (ora al Pincio) perfettamente eretto, mentre all’epoca giaceva in pezzi nel giardino del palazzo Barberini, dove rimase fino al 1773.
Parlare di recupero dell’antico nel caso dei Barberini può suonare un po’ strano, pensando al testo della pasquinata “Quod non fecerunt Barbari fecerunt Barberini”, che si riferiva soprattutto al riuso dei manufatti in bronzo del Pantheon per fabbricare altre opere (il berniniano baldacchino di San Pietro, ma anche cannoni). Proveniente da un museo statale berlinese, è arrivato in mostra un chiodo del Pantheon, mentre un disegno di Francesco Borromini, prestato dall’Albertina di Vienna, raffigura il tetto del Pantheon.
Anche la sezione dedicata alla “Scienza moderna”, pur testimoniando il ruolo fondamentale delle attività di promozione della cultura scientifica svolte dalla famiglia e il perseguimento di un sapere di carattere enciclopedico e di curiosità varie (anche esotiche), tipico di quell’età, può apparire in contrasto con il processo subito da Galileo Galilei, del quale sono in mostra le edizioni originali del Dialogo sopra i massimi sistemi e del Saggiatore.
In realtà Urbano VIII non era insensibile al dibattito sull’astronomia, che all’epoca significava anche filosofia naturale e astrologia, tanto che la sua elezione venne salutata come “mirabile congiuntura” (una congiuntura astrale raffigurata da Andrea Sacchi nella Sala della Divina Sapienza) ed egli venne definito dai contemporanei “perfettissimo astrologo”. Purtuttavia fu inflessibile con gli astrologi, e in particolare con l’abate di Santa Prassede Orazio Morandi, che venne chiuso in carcere (e lì morì poco dopo, prima di subire il processo), perché aveva pronosticato la morte del pontefice per il 1630. Si dice che Urbano VIII, per contrastare il triste oroscopo, avesse fatto ricorso alle operazioni magiche di Tommaso Campanella e per sua fortuna regnò ancora fino al 1644.
Nel Salone Pietro da Cortona, al piano nobile, sono stati collocati tre grandi arazzi e i loro rispettivi cartoni, per dare l’idea del fasto dei ricevimenti barberiniani, considerato che gli arazzi erano un bene di lusso che potevano permettersi solo i sovrani e le famiglie più prestigiose. Un arazzo costava tantissimo, un prezzo non paragonabile a quello di un dipinto, tela o affresco che fosse, e richiedeva tempi di esecuzione lunghissimi. Ed è forse per questo che, piuttosto che commissionare gli arazzi all’estero (nelle Fiandre o in Francia), il cardinale Francesco Barberini nel 1625 impiantò a Roma un’arazzeria, servendosi di tessitori fiamminghi per la manodopera e dei pittori più talentuosi per il disegno dei cartoni.
I tre arazzi in lana e seta, prestati da collezioni statunitensi e dai Musei Vaticani, appartengono ognuno a una serie diversa, ovvero alla vita di Gesù (Il Battesimo di Cristo, su cartone di Giovan Francesco Romanelli), alla vita di Costantino (Costantino combatte il leone, su cartone di Pietro da Cortona) e a quella di Urbano VIII (Elezione di papa Urbano VIII, su disegno di Fabio Cristofani). Gli arazzi, grazie alla loro mobilità, potevano essere spostati e prestati, a volte anche a pagamento, per una festa o un evento importante.
Dal salone si accede alla berniniana Sala Ovale, nella quale è collocato al centro il busto marmoreo del pontefice, capolavoro di Bernini, in dialogo con il Busto di Francesco Bracciolini di Giuliano Finelli (Victoria and Albert Museum), che introduce la sezione dedicata alla Retorica e alla Poesia, e da qui si prosegue nella Sala dei Paesaggi, dove sono esposti i testi chiave della produzione letteraria ed encomiastica dell’epoca, compresi i Poemata scritti dallo stesso Maffeo Barberini (Biblioteca Apostolica Vaticana) e le Aedes Barberinae (1642) di Girolamo Teti (Biblioteca Casanatense), che celebrano Palazzo Barberini e i suoi capolavori.
La sezione “Le Api Munifiche” è dedicata alle opere commissionate dai nipoti del papa e poi inviate come doni diplomatici alle corti di Parigi, Madrid, Londra e Vienna. La Francia è rappresentata dal cardinale Richelieu, del quale è presente anche un busto berniniano, in prestito dal Louvre. “Intorno all’alveare” è, invece, dedicata al collezionismo di personaggi dell’entourage della famiglia Barberini, che agiscono come amplificatori su larga scala delle scelte artistiche e culturali della famiglia papale. È in mostra l’Allegoria dell’Intelletto, Volontà e Memoria di Simon Vouet dei Musei Capitolini.
“Il Teatro degli Stupori” conclude la mostra in grandezza raccontando la dimensione scenografica di Palazzo Barberini, coerentemente con la funzione originaria del luogo, dedicato agli spettacoli teatrali. Tra i grandiosi eventi “urbani” organizzati dalla famiglia, riprodotti in imponenti dipinti, è di grande importanza storica il dipinto, eseguito da Andrea Sacchi e da altri, che raffigura la Chiesa del Gesù nel 1639 in occasione del Centenario della fondazione della Compagnia di Gesù. Vi si riconoscono il pontefice Urbano VIII in visita ufficiale, i nipoti cardinali Francesco e Antonio e altri componenti della famiglia e si vedono appesi nella chiesa numerosi arazzi. La festa era stata sponsorizzata da Antonio Barberini e il regista dell’evento era stato Andrea Sacchi. La cosa che colpisce in questo dipinto è la visione contemporanea dell’interno e dell’esterno della chiesa (con la carrozza papale e perfino il nano di corte), come se il pittore avesse tagliato la facciata dell’edificio.
In questa sezione sono esposti anche due grandissimi dipinti di Andrea Camassei (1602 – 1649), uno dei maggiori interpreti del gusto dei Barberini: Il riposo di Diana e La strage dei Niobidi. Le due tele sono state restaurate appositamente per la mostra e ci colpiscono per la visione dell’antichità pagana, nella quale gli dei sono tutt’altro che benevoli.
Pensiamo in particolare ad Apollo, che abbiamo già incontrato in un precedente dipinto di A. Sacchi, nel quale era raffigurato anche Marsia, scorticato vivo perché aveva osato sfidare come musicista il bel dio, protettore delle arti. Nel dipinto dei Niobidi, Apollo e Diana appaiono in alto nel cielo mentre colpiscono con le loro frecce tutti i figli della sventurata Niobe, solo perché la donna si era vantata di avere tanti figli, mentre Latona (la madre di Apollo e Diana) ne aveva avuti solo due.
Questi miti affascinanti ben si prestavano a esprimere l’amore per la letteratura classica e per la loro rappresentazione artistica in uomini che, pur essendo di chiesa, continuavano ad avere una visione assai mondana della vita.
Nica FIORI Roma 26 Marzxo 2023
L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane 13, Roma 18 marzo – 30 luglio 2023
Orario: martedì – domenica, ore 10.00 – 19.00. Ultimo ingresso alle ore 18.00.