“Fece poi Raffaello … una tavola d’un Christo, che porta la croce, la quale è tenuta cosa maravigliosa”. Lo “Spasimo di Sicilia”: storia, ipotesi ed enigmi ancora non sciolti.

di Francesca SARACENO

Tra i tesori artistici che la Sicilia avrebbe potuto vantare, uno tra i più “rimpianti” è certamente la celeberrima Andata al Calvario che Raffaello e la sua scuola eseguirono per la chiesa di Santa Maria dello Spasimo di Palermo, edificio voluto dal giureconsulto Jacopo Basilicò che lo fece erigere, a partire dal 1506, dai monaci benedettini della Congregazione di Santa Maria di Monte Oliveto in ricordo della defunta moglie, Eulalia Resolmini, devotissima della Madonna Addolorata; proprio dalla chiesa dedicata al dolore della Vergine, prese poi il titolo il dipinto, oggi ricordato infatti come Lo Spasimo di Sicilia e conservato al museo del Prado di Madrid (fig. 1).

Fig. 1 Raffaello Sanzio (e aiuti) Lo Spasimo di Sicilia 1516-1517, Museo del Prado, Madrid.

Lo stesso Basilicò, a lavori di edilizia ultimati, commissionò allo scultore Antonello Gagini un’imponente cornice marmorea per l’altare della cappella di famiglia, che avrebbe accolto il magnifico dipinto dell’urbinate.

Fig. 2 Riproduzione digitale dello Spasimo di Sicilia (con cornice originale di Antonello Gagini), 2020, Chiesa dello Spasimo, Palermo

La pala d’altare rimase all’interno della chiesa dello Spasimo fino al 1573, quando i benedettini trasferirono il monastero al Santo Spirito (la famosa chiesa palermitana detta “del Vespro”, a suo tempo in uso ai cistercensi) dove collocarono anche il prezioso dipinto e la sua sontuosa cornice. Nella chiesa di Santa Maria dello Spasimo, sede originaria designata del quadro, è posta oggi una fedele riproduzione su tavola, realizzata nel 2020, in occasione del 500esimo anniversario della morte di Raffaello, dalla Factum Foundation di Adam Lowe a Madrid[1]; la stessa che realizzò anche la copia della trafugata Natività con i Santi Lorenzo e Francesco del Caravaggio, per l’Oratorio di San Lorenzo, sempre a Palermo (per ulteriori approfondimenti si veda la bibliografia aggiuntiva in calce all’articolo). La pregevole riproduzione, definita da Vittorio Sgarbi “una copia più vera del vero”[2], è stata collocata sull’altare della cappella con la cornice originale del Gagini (fig. 2).

Lo Spasimo di Sicilia è un’opera dell’ultimissimo periodo di attività del grande pittore realizzata a Roma tra il 1516 e il 1517. Ma che il dipinto del Prado non sia interamente opera di sua mano è opinione condivisa da gran parte della critica che rimarca come le numerose commissioni in cui l’urbinate era impegnato, imponevano che i suoi migliori collaboratori avessero parte attiva nella realizzazione delle opere, delle quali il maestro realizzava l’idea, la composizione, il bozzetto preparatorio e l’eventuale cartone, intervenendo personalmente sui soggetti principali con il suo tocco prezioso là dove il dipinto andava maggiormente valorizzato. Tuttavia, che l’intervento diretto del maestro fosse paradossalmente marginale rispetto alle diverse mani che poi avrebbero portato a compimento l’opera, di certo non ne sminuisce il valore, né impedisce di riconoscerne la paternità, nell’estro creativo come nei tòpos caratteristici dell’artista.

Nel caso specifico l’impianto scenico, il cromatismo e il particolare uso della luce, sono elementi distintivi inequivocabili dell’ultima fase artistica dell’urbinate, e lasciano già notare quella virata verso una rappresentazione dei personaggi più empatica e introspettiva, alla ricerca dei sentimenti; i cosiddetti “moti dell’anima” che rendono le sue figure umane, prima spesso marcatamente estetizzate, ora decisamente più realistiche.

In qualche modo questo dipinto anticipa quella che sarà la trattazione dell’ultima opera del maestro ovvero la Trasfigurazione (fig. 3).

Fig. 3 Raffaello Sanzio, Trasfigurazione 1516-1520, Pinacoteca, Musei Vaticani, Città del Vaticano

Ne possiamo scorgere i segni nella bipartizione dello spazio – qui funzionale anche per conferire profondità alla scena – dove il primo piano ospita un evento sacro ma raccontato dall’artista nella sua estrema umanità, e per questo le figure che lo animano sono tutte caratterizzate da una tavolozza ricca di toni accesi e da forti contrasti chiaroscurali che ne accentuano il pathos; mentre il paesaggio, alle spalle dei personaggi, degrada in lontananza verso il luogo che sarà della morte ma che prefigura già la resurrezione, nel chiarore azzurrino che sfuma, per finire in una luminescenza di bianco intenso, che ha già in sé il senso del divino. Di qua la concitazione degli eventi terreni: i tormenti del Cristo, la crudeltà degli aguzzini, il dolore delle donne; di là il cammino verso la speranza, verso la vita che trionferà sulla morte. Le due dimensioni, umana e divina, che segneranno la suddivisione dello spazio (in quel caso in verticale) anche nella citata Trasfigurazione. E già in questo dipinto palermitano è particolarmente intenso il linguaggio dei corpi, la forte gestualità che enfatizza i toni drammatici della scena.

Di questa trattazione particolarmente empatica del soggetto, ne diede, a suo tempo, mirabile descrizione Giorgio Vasari:

“Fece poi Raffaello per il monasterio di Palermo detto santa Maria dello Spasmo, de frati di monte Oliveto una tavola d’un Christo, che porta la croce, la quale è tenuta cosa maravigliosa. Conoscendosi in quella, la impietà de’ Crocifissori, che lo conducono alla morte al Monte Calvario con grandissima rabbia, dove il Christo appassionatissimo nel tormento dello avvicinarsi alla morte, calcato in terra per il peso del legno della Croce, et bagnato di sudore, et di sangue, si volta verso le Marie, che piangono dirottissimamente. Oltre ciò si vede fra loro Veronica, che stende le braccia, porgendoli un panno, con uno affetto di Carità grandissima. Senza che l’opera è piena di armati à cavallo, et à piede, i quali sboccano fuora dalla porta di Gerusalemme con gli stendardi della giustizia in mano, in attitudini varie, et bellissime.”[3]

Dalle parole del Vasari, ciò che subito si evidenzia è quella che potrebbe sembrare un’anomalia descrittiva.

Il biografo parla infatti di una Veronica che tende le braccia porgendo il velo al Cristo; ma nella scena che vediamo nel dipinto del Prado, è la Vergine a tendere le braccia verso il figlio, mentre la figura della Veronica, come da tradizione rappresentata, è del tutto assente. Questa evidenza così singolare è stata spiegata nel tempo con diverse possibili ragioni.

Anzitutto va detto che il soggetto dello Spasimo di Sicilia, così come venne concepito, non si può dire sia invenzione esclusiva di Raffaello, il quale ha – con ogni evidenza – mutuato la sua composizione (personalizzandola) da un identico soggetto di Albrecht Dürer (fig. 4), realizzato per un ciclo di xilografie raffiguranti la Grande Passione, dove l’artista tedesco pone in primo piano insieme al Cristo gravato dalla croce, proprio la figura della Veronica, che invece – come abbiamo visto – manca nel dipinto dell’urbinate.

Fig. 4 Albrecht Dürer La Grande Passione: Salita al Calvario, 1497-1498 ca., Museo Albertina, Vienna.

Ebbene, la straordinaria fortuna artistica della pala di Raffaello, della quale si conoscono numerose copie – non solo siciliane – non può essere disgiunta dall’analoga ampia diffusione della xilografia di Dürer, che va comunque considerata quale modello primario per le successive versioni del soggetto. Lo stesso Spasimo di Madrid, attribuito a Raffaello “e aiuti”, a tutt’oggi è gravato da più di un dubbio, da parte della critica, sul fatto che si tratti davvero del prototipo realizzato per la chiesa palermitana; e uno dei motivi è proprio l’assenza della Veronica inserita dal Dürer e riferita dal Vasari. Appare, infatti, piuttosto strano che un’opera, chiaramente derivata da un soggetto identico in cui quella figura è presente, ne sia invece priva e che sia stata questa l’espressa intenzione del pittore. In realtà è davvero poco verosimile che, in una scena così altamente drammatica e carica di simbolismi, Raffaello escludesse volutamente un personaggio così importante nel racconto della Passione di Cristo. Eppure, osservando alcune delle copie siciliane dello Spasimo del Prado (figg. 5-6-7-8), possiamo notare che – pur con tutte le evidenti varianti del caso, non ultima nella copia catanese (fig. 5), dove la scena è impostata addirittura in senso opposto rispetto al prototipo – nessuna di esse riporta la figura della Veronica.

Fig. 5 Jacopo Vignerio Spasimo di Sicilia 1541, chiesa di S. Francesco d’Assisi, Catania.

Ragion per cui si è arrivati a ipotizzare che anche il dipinto del Prado sia in realtà una copia mentre l’originale deve aver avuto un destino occulto. D’altra parte, sempre dalla puntuale cronaca del Vasari, apprendiamo delle vicende piuttosto movimentate di cui il dipinto fu protagonista:

Questa tavola finita del tutto, ma non códotta ancora al suo luogo, fu vicinissima à capitar male, percioche secondo che e’ dicono, essendo ella messa in mare, per essere portata in Palermo, una orribile tempesta, percosse ad uno scoglio la nave, che la portava di maniera, che tutta si aperse, et si perderono gli huomini, et le mercanzie, eccetto questa tavola solaméte, che così incassata come era fu portata dal mare in quel di Genova; Dove ripescata et tirata in terra, fu veduta essere cosa divina, et per questo messa in custodia; essendosi mantenuta illesa, et senza macchia, ò difetto alcuno, percioche fino alla furia dei venti, et l’onde del mare hebbono rispetto alla bellezza di tale opera, della quale divulgandosi poi la fama, procacciarono i Monaci di rihaverla, et appena, che con favori del papa ella fu renduta loro, che satisfecero, e bene, coloro che l’havevano salvata. Rimbaracatala dunque di nuovo, et condottola pure in Sicilia, la posero in Palermo, nel qual luogo ha più fama, et riputazione ch’el monte di Vulcano.”[4]
Fig. 6 Giovanni Paolo Fondulli Spasimo di Sicilia 1574, chiesa di S. Domenico, Castelvetrano.

Le peripezie che interessarono il quadro fino a metterne in pericolo l’integrità, non si esaurirono con il lungo viaggio da Genova verso la Sicilia ma proseguirono, anni dopo, con ulteriori trasferimenti: quello del 1661, quando l’abate del monastero del Santo Spirito, Clemente Staropoli, lo avrebbe fatto pervenire (donato o venduto), tramite il vicerè di Sicilia, Ferdinando d’Ayala, al re di Spagna Filippo IV. E poi le famigerate espoliazioni napoleoniche che lo portarono a Parigi, dove rimase dal 1813 al 1822; in questa occasione, peraltro, il dipinto fu trasposto dalla tavola in legno dove era stato eseguito, al supporto in tela; operazione pare piuttosto in uso a quel tempo, ma che certamente non giovò al suo stato di conservazione. Dopo la sconfitta di Napoleone il dipinto tornò in Spagna, dove rimase anche quando, dopo la firma dei Patti Lateranensi, i monaci palermitani tentarono di riportarlo in Sicilia.

Ora, rispetto alla possibilità che il dipinto del Prado non sia l’originale di Raffaello, queste movimentazioni dell’opera – o quanto meno le prime – in effetti lasciano margine per ipotizzare che esso in realtà o non sia mai arrivato in Sicilia, dove i genovesi – lungi dal lasciarsi sfuggire un’opera di così grande pregio – avrebbero inviato una copia (verosimilmente quella poi approdata in Spagna), contando sul fatto che i destinatari designati non avevano mai visto il dipinto e dunque non avrebbero saputo, né potuto, rilevare alcuna differenza; oppure, come racconta un’antica leggenda, il dipinto non avrebbe mai lasciato l’isola per la Spagna, perché l’abate Staropoli, pur di non separarsene, avrebbe commissionato a un pittore del luogo una copia da spedire in Spagna, mentre l’originale sarebbe stato affidato alle monache del Convento di Santa Croce di Caltanissetta. E in effetti, oggi, la città nissena ospita uno Spasimo (fig. 7) che, sull’onda di questo aneddoto, qualcuno si è spinto “generosamente” a indicare come il prototipo originale.

Fig. 7 Autore ignoto (scuola di Polidoro da Caravaggio) Spasimo di Sicilia seconda metà del XVI sec. Museo Diocesano, Caltanissetta.

Ma, per quanto si tratti di un dipinto di un certo pregio, derivato con tutta evidenza dall’esemplare di Madrid e riportante perfino un tratto della firma dell’artista, “R- Urbinas” (ma – è bene precisarlo – non la figura della Veronica riferita dal Vasari sul prototipo originale), anche l’occhio meno allenato si accorge della distanza abissale dallo stile pittorico e dalla qualità esecutiva dell’urbinate. In ogni caso, sono state le indagini diagnostiche condotte sul dipinto nisseno nel 2010 a fugare ogni dubbio:

“Il Maestro costruisce le sue immagini con una più rigorosa osservanza del disegno di tradizione fiorentina, mentre le figure della Tavola nissena sono costruite con tocchi di pennello secondo uno stile che si svilupperà nell’area meridionale con Polidoro da Caravaggio e i suoi seguaci, cosa che fa propendere per una datazione intorno alla seconda metà del XVI secolo.”[5]
Fig. 8 Autore ignoto, Spasimo di Sicilia seconda metà del XVI sec., Chiesa dei Cappuccini, Mazara del Vallo (TP).

E proprio a Polidoro da Caravaggio, allievo di Raffaello, approdato in Sicilia a Messina dopo la prematura morte del maestro e i pericoli delle incursioni dei lanzichenecchi, appartiene una versione dello Spasimo (oggi al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, fig. 9) che, piuttosto distante dall’impostazione dell’urbinate, riporta – tra l’altro – chiari sentori di arte fiamminga, probabilmente assimilati dall’artista lombardo proprio nella città dello Stretto.

Fig. 9 Polidoro da Caravaggio Andata al Calvario 1534, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli.

Un bozzetto preparatorio di dimensioni notevolmente ridotte rispetto alla pala, considerato autografo di Polidoro e conservato anch’esso al Museo Nazionale di Capodimonte (fig. 10), sembra riportare una composizione più aderente all’esemplare di Raffaello realizzato per Palermo, dove in primo piano figura la Vergine con le braccia tese verso il Figlio, ma pare non vi sia traccia della Veronica.

Fig. 10 Polidoro da Caravaggio Andata al Calvario 1534, bozzetto preparatorio, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli.

Tuttavia, nella versione definitiva, Polidoro, invece, inserisce nella scena anche la Veronica[6], dimostrando, se non altro, che le derivazioni da Dürer erano molto diffuse; ma fornendo anche una labile sponda alla possibilità che un presunto prototipo dell’Andata al Calvario di Raffaello riportasse effettivamente la figura della donna che, per tradizione, terse il volto del Cristo.

In ogni caso, per quanto l’urbinate abbia effettivamente attinto da Dürer, è chiaro che la sua trattazione del soggetto, così come appare dalle varie copie conosciute del dipinto, è un’evoluzione in chiave personale e, come tale, riflette pensiero e intenzioni del tutto soggettive, orientate a una più profonda introspezione psicologia e una più forte resa evocativa. D’altra parte, come scrisse Clemente Fusero:

“La pittura di Raffaello è arte che parla – per chi non si accontenti della più pronta e spontanea parvenza – prima all’intelligenza che al cuore, e più con l’intelligenza che col cuore si conquista.”[7]

In questo senso, don Leo di Simone in un suo studio del 2021, faceva notare che la figura della Veronica potrebbe essere una presenza “criptica” nel dipinto siciliano:

“Nella scena dello Spasimo c’è una sola donna che ha a che fare con un velo, ed è quella in basso a destra, in ginocchio, quasi accovacciata sui talloni, che con indice e pollice sta per sollevare il velo dal capo di Maria, per usarlo, in mancanza di altro velo, e compiere così il rito pietoso della tersione del volto e restituire alla madre l’immagine del figlio. Del figlio che ha preso la sua immagine d’uomo dalla carne della madre.[8]

 Ebbene, di quest’ultima interpretazione, in gran parte condivisibile, forse è solo l’attribuzione dei ruoli che potrebbe avere delle varianti.

Com’è noto il nome Veronica è stato attribuito a questa figura femminile che, in realtà, i Vangeli canonici non citano; e d’altra parte non raccontano nemmeno come esattamente si svolse il tragitto verso il Golgota. Solo nel Vangelo di Luca, si fa menzione di un incontro con alcune donne:

“Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli.” (Lc. 23,28)

Nulla, comunque, che accenni a una eventuale Veronica. Ma, per tradizione, nella Via Crucis una donna viene collocata sul percorso verso il Calvario dove avrebbe terso il viso del Cristo sofferente con un panno, sul quale si sarebbe impressa l’immagine acheropita del suo volto. Verosimilmente questo personaggio potrebbe costituire un’estensione iconografica dell’emorroissa citata nei vangeli apocrifi (Atti di Pilato cap. 7):

E una donna di nome Bernice gridò da lontano: «Io pativo flusso di sangue, ma toccai la fimbria del suo mantello e l’emorragia, che durava da dodici anni, cessò».[9]

La figura di questa donna compare anche nei Vangeli Sinottici (Matteo 9,20-22; Marco 5,25-34; Luca 8,43-48), e sarebbe guarita dalla malattia toccando un lembo della veste di Gesù. Il sangue e il panno tornano – non a caso – nell’episodio della Via Crucis a simboleggiare proprio il miracolo di cui quella donna avrebbe beneficiato. Il sangue di Cristo impresso sul panno testimonia, a imperitura memoria, la sua grande fede:

“Figlia la tua fede ti ha salvata, va in pace!” (Lc. 8, 43-48.)

Come indicato dagli apocrifi, il nome della donna in greco antico è Bερενίκη (Berenìke), derivato da Φερενικη (Pherenike), che è composto da φερω (portare) e νικη (vittoria); quindi “portatrice di vittoria” o “colei che porta alla vittoria”. In latino il nome diventerà Veronica, da “vera icon” ossia “vera immagine”. Dunque “vera icon” e “portatrice di vittoria”, una doppia valenza per uno stesso nome e una stessa figura; valenza che diventa triplice se consideriamo che essa rappresenta anche la fede. Inoltre, sappiamo dalla Historia Ecclesiastica (VII, 18) dello storico Eusebio (vissuto tra il 265 e il 340 ca.), che nella città di Cesarea si trovava la casa dell’emorroissa Berenìke, e che proprio all’ingresso di questa casa era posta la statua bronzea di una donna in ginocchio, con le mani tese in preghiera verso un uomo in piedi davanti a lei. L’uomo si diceva rappresentasse Gesù.

Ora, nello Spasimo di Madrid abbiamo effettivamente una donna in ginocchio, all’estrema destra del dipinto, la cui mano tiene un lembo di tessuto; ma colei che tende le braccia verso il Cristo non è Berenìke/Veronica bensì Maria, la madre di Gesù. Ebbene: chi, meglio di Maria, incarna sia l’attributo di “vera icon” che quello di “colei che porta alla vittoria”?

L’assunto del Di Simone, circa il “figlio che ha preso la sua immagine d’uomo dalla carne della madre” trova la sua perfetta spiegazione proprio in quelle mani tese della Vergine, che nel suo dolore di madre “umana”, vorrebbe forse rimettersi in grembo il figlio pur di risparmiargli quelle sevizie. Maria è colei che, mettendo al mondo Gesù, ha dato forma umana – e dunque una “vera icon” – al Figlio di Dio; e adesso, accompagnandolo al Calvario, pur nel suo estremo dolore, lo “porta alla vittoria” della vita sulla morte; perché la resurrezione altro non è che “rinascita”. In questo modo la figura femminile inginocchiata che tiene un lembo del manto di Maria, fungerebbe, per l’osservatore, da raccordo metaforico, da “guida visiva”, che attraverso quel gesto, evoca l’atto di fede della donna e individua nella Vergine l’origine primigenia da cui scaturì quella fede.

Peraltro, la donna in ginocchio accanto a Maria nella rappresentazione dello Spasimo di Sicilia, ricorda molto da vicino una figura simile, per fattezze e per posa, che sarà presente – pochi anni dopo – anche nella Trasfigurazione. In quello che fu l’ultimo dipinto eseguito dall’urbinate, essa è posta nella parte bassa della composizione (fig. 11) dove i discepoli di Gesù sono chiamati a liberare un ragazzo dal demone che lo opprime;

Fig. 11 Raffaello Sanzio, Trasfigurazione 1516-1520, particolare, Pinacoteca, Musei Vaticani, Città del Vaticano.

l’artista li rappresenta smarriti, confusi, incapaci di compiere il miracolo richiesto, perché la loro fede non è sufficientemente salda. La donna inginocchiata viene posta al centro tra il gruppo dei discepoli sulla sinistra e quello della famiglia del ragazzo a destra, con lo sguardo rivolto agli apostoli e le braccia orientate verso il ragazzo. Anche in questo caso, Raffaello ne fa una figura intermediaria, una allegoria della Grazia, dalla quale, attraverso la preghiera, si ottiene il dono della fede: il solo sentimento la cui potenza è capace di operare “miracoli”.

Fermo restando che ogni interpretazione non può che intendersi come un’ipotesi rispetto alle reali intenzioni dell’artista, e non tralasciando la possibilità che il dipinto del Prado possa davvero essere la copia di un originale (perduto) di Raffaello, la descrizione così precisa fornita dal Vasari potrebbe derivare: o dal racconto di qualcuno che, a Roma, aveva visto il prototipo originale del maestro riportante la Veronica, o da una personale supposizione dell’aretino, stante la diffusissima xilografia di Dürer, dando quindi per scontato che l’urbinate avesse mutuato in toto la composizione del tedesco.

Resta ineludibile la straordinaria composizione, indiscutibilmente frutto della prodigiosa inventiva del maestro di Urbino, la cui impronta di valore assoluto ha magnificato un tòpos iconografico della cultura cristiana e reso celeberrimo il dipinto oggi a Madrid, quale che sia la sua storia, tra innumerevoli copie, ipotesi e leggende.

©Francesca SARACENO   Catania, 16 aprile 2023

NOTE

[1] Dettagli su https://www.factumfoundation.org/pag/1265/
[2] Stefano Bucci Palermo ritrova Raffaello. Così rinasce lo «Spasimo», su: https://www.corriere.it/cultura/20_luglio_09/palermo-spasimo-raffaello-ricostruzione-c71cac7e-c210-11ea-9a71-56106a53bf80.shtml
[3] G. Vasari Delle VITE DE’ PIU ECCELLENTI Pittori Scultori et Architettori Scritte da M. Giorgio Vasari Pittore et Architetto Aretino, Primo Volume della Terza Parte, Con Licenza et Privilegio di N. S. Pio V et delli Illustrissimi et Eccellentissimi Signori Duca, et Principe de Fiorenza, e Siena. In Fiorenza Appresso I Giunti, 1568, p. 79
[4] Ibidem
[5] Rosalba Panvini, allora soprintendente regionale ai Beni Culturali, su: https://www.ersuonline.it/caltanissetta-esito-indagini-qspasimo-di-siciliaq/
[6] Altri due bozzetti dell’opera di Polidoro da Caravaggio sono oggi conservati rispettivamente a Roma, ai Musei Vaticani e a Londra, alla National Gallery, e entrambi riportano la figura della veronica. Per ulteriori approfondimenti: https://capodimonte.cultura.gov.it/litalia-chiamo-capodimonte-oggi-racconta-landata-al-calvario-di-polidoro-da-caravaggio/#
[7] Clemente Fusero Raffaello, Introduzione, Edizioni Corbaccio, 1939
[8] Leo Di Simone Raffaello a Mazara del Vallo. L’enigma irrisolto dello “Spasimo di Sicilia”, 1 luglio 2021, su: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/raffaello-a-mazara-del-vallo-lenigma-irrisolto-dello-spasimo-di-sicilia/
[9] Mario Erbetta (a cura di) “Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, ½. Infanzia, Passione, Assunzione di Maria” ed. Marietti, 2003
Una serie di pubblicazioni sull’argomento sono uscite nel corso degli anni ad opera di M.A. Spadaro: Opere d’arte in Santa Maria dello Spasimo, in “Atti del Seminario di studio sul Complesso monastico-militare di Santa Maria dello Spasimo”, Palermo 1987, pp. 121-134. L’altare dimenticato, in Kalós -arte in Sicilia, n.1 anno 2, Palermo 1990. Raffaello e lo Spasimo di Sicilia, Accademia di Scienze Lettere ed Arti, Palermo 1991. Il complesso dello Spasimo e l’altare di Antonello Gagini in “Vincenzo degli Azani da Pavia e la cultura figurativa in Sicilia nell’età di Carlo V” (a cura di T. Viscuso), Palermo 1999, pp.39-47. Da Antonello Gagini a Raffaello: un altare per lo Spasimo di Sicilia, in “S. Maria del Bosco di Calatamauro” (a cura di A. Marchese), Palermo 2006, pp.483-491. Rivedremo l’altare di Antonello Gagini allo Spasimo? Aggiornamenti sulle ricerche intorno all’Altare dello Spasimo, in Atti del ciclo di conferenze “Il quartiere delle Kalsa a Palermo. Dalle architetture civili e religiose delle origini alle attuali articolate realtà museali”. Assessorato regionale dei Beni Culturali e dell’identità siciliana, Palermo 2013, pp. 79-89. Gagini, Raffaello e l’altare dello Spasimo, in GdS del 14 ottobre 2018. L’arte di Raffaello che contaminò anche Palermo, in GdS,  1 ottobre 2019. L’altare dello Spasimo di Antonello Gagini: le fasi di una ricerca, in Per Salv Pa, n. 54-55, maggio-dicembre 2020 pp.23-25. Gagini, Raffaello e le grottesche, in GdS, 8 gennaio 2021. Le mille trasformazioni dello Spasimo, in GdS, 13 gennaio 2022.