di Natale MAFFIOLI
“La prima menzione scritta del castello di Ozegna, che oggi possiamo ammirare con la sua mole turrita nel cuore antico del paese canavesano, risale al 1363, ed è contenuta nel ‘De bello canepiciano’ opera del notaio e cronachista novarese Pietro Azario che vi descrisse le varie fasi della cosiddetta ‘guerra del Canavese’, combattuta nel corso del Trecento in questa fetta del Piemonte bagnata dalle acque della Dora Baltea e dell’Orco.”[1]
Questa, in sintesi, è la descrizione del maniero di Ozegna. L’edificio è decisamente più complesso di quanto descritto nel testo citato e, lungo i secoli, ha subito interessanti variazioni, a cominciare dal cambio di proprietà: è passato dalle mani dei Biandrate a quelle dei Savoia, con momenti di gloria a di decadenza, mantenendo però grossomodo intatta la struttura quattrocentesca (fig. 1).
L’epoca d’oro del castello di Ozegna ha avuto inizio nell’ultimo scorcio del Cinquecento, con la presa di possesso della contea di Ozegna da parte del conte Bonifacio. Bonifacio era nipote di Francesco Bernardino dei conti di San Martino, questi, nel 1586, aveva ottenuto che Ozegna divenisse una contea; il titolo comitale lo trasmise al figlio Gaspare che lo passò al nipote Bonifacio. Il duca di Savoia Carlo Emanuele I aveva grande sima di Bonifacio e gli affidò numerose missioni diplomatiche a Madrid a Parigi e a Roma. A Parigi aveva assistito, nel 1593, all’abiura di Enrico IV e ne aveva riportato memoria in un affresco (fig. 2) nella cornice superiore di un salone del suo castello di Ozegna.
Verso il 1595 (ritengo fosse al momento del suo rientro in patria) il conte diede inizio ad una intensa campagna di ammodernamento della sua dimora in modo da renderla una confortevole residenza signorile; le sue intenzioni erano quelle di imprimere al complesso una impronta di alto profilo formale e decorativo.
Sul monumentale camino del salone d’onore, fece apporre, unitamente ad altre imprese araldiche, lo stemma di famiglia (fig. 3) quasi a siglare non solo la presa di possesso, ma pure la sua presenza colta e raffinata nella gestione dell’apparato ornamentale.
Chi visita a tutt’oggi il castello non si deve stupire se vedrà che il lungo stato di abbandono non ha giovato ai decori. Non mancano i segni del tempo, come polvere e ragnatele che inghirlandano specialmente le pregevoli grottesche. Sono presenti scritte graffite sulle muraglie, fatte da persone con poca attenzione ai beni culturali, ma anche di pessima educazione, iscrizioni che danneggiano le importanti decorazioni ad affresco. Questi segni sono facilmente eliminabili con un attento restauro, ma sono state lasciate a testimonianza delle vicende, ahimè, ingloriose del passato.
Lo “studiolo” del conte Bonifacio
Ma andiamo con ordine. È possibile datare, quasi ‘ad annum’, l’epoca in cui ebbe inizio l’esecuzione dei diversi cicli decorativi (gli anni novanta del 1500), ma sono assenti documenti fondamentali sulla storia del palazzo, per questo è impossibile definire una scansione cronologica della loro realizzazione. Per una successione (se non chiara ma certamente credibile) nel presentare gli affreschi che decorano le pareti, si può iniziare dall’ambiente più rappresentativo, quello che reca più evidente l’impronta dell’interesse del committente, il conte Bonifacio.
L’ambiente più stimolante dal punto di vista formale è quello che potremmo definire come lo ‘studiolo’ del conte (fig. 4), un ambiente di non vaste dimensioni, ma raffinato per le decorazioni sia delle pareti che della volta.
Se si volesse trovare un riferimento colto, anche se distante per luogo e per risultati, si potrebbe affermare che il suo esemplare ispiratore è la stufetta del Cardinale Bibbiena, in Vaticano (del 1516), opera degli aiuti di Raffello Sanzio. Si tratta unicamente di un riferimento perché lo ‘studiolo’ del conte Bonifacio è carico di rimandi ad una cultura figurativa più tarda e con implicanze maggiormente decorative.
Questo di Ozegna è un locale a pianta quadrata, coperto da una volta a padiglione. Gli angoli smussati sono occupati da nicchie semicircolari (fig. 5) con catino a conchiglia e la base piatta sorretta da mensole convergenti, la nicchia poi è contornata da una spessa cornice interrotta da motivi a cartoccio. La camera è circondata, all’altezza della curva delle nicchie, da un fregio di eleganti girali di stucco, formato da un ‘continuum’ di elementi vegetali: foglie d’acanto, rosette il tutto realizzato da un valente plasticatore.
Si diceva che la volta è a padiglione ed è centrata da una splendida cornice in stucco; questo elemento decorativo è opera dello stesso aurore del fregio che l’ha realizzata a rilievo massiccio con splendidi mascheroni mediani intervallati da consistenti volute che hanno all’apice trionfi floreali. La sutura dei quattro spicchi della volta è occupata da una elegante e spessa foglia di acanto che, partendo dalla base, raggiunge il bordo della cornice centrale.
La ricca decorazione della volta è divisa in quattro parti ed ognuna di queste è formata da quadretti che in origine, probabilmente erano dipinti con scene agresti[2]. I piccoli riquadri sono racchiusi entro elaborate cornici barocche e appaiono appesi ai mascheroni del riquadro centrale con dei nastri elaborati che terminano con un fiocco. Come tutti gli elementi della volta sono stati eseguiti con grande maestria e verosimiglianza. È interessante notare che alla cornice di due riquadri è appesa, con una fila di perle, una croce di Malta, forse, non essendo state collocate lì a caso, può alludere al fatto che Bonifacio fosse un ‘cavaliere di onore e devozione’ dell’ordine melitense.
Tra i decori di stucco dell’intradosso sono stati dipinti ad affresco elementi desunti dal puro repertorio della pittura decorativa della grottesca[3]. Siamo alla fine del XVI secolo, e non si è assolutamente esaurita la volontà di ornare gli ambienti nobili con questo genere di decorazione e lo ‘studiolo’ del conte Bonifacio è da considerarsi, anche per questo aspetto, come il ‘cuore’ del castello di Ozegna. Il conte volle che la volta e gli sguinci delle finestre e delle porte dell’ambiente prediletto ricevessero un’impronta di prestigio grazie all’apparato decorativo delle grottesche.
La volta riserva delle autentiche raffinatezze e varietà appartenenti ai diversi generi sia vegetali sotto forma di ghirlande di racemi di festoni e guglie floreali delle più diverse qualità di fiori, che animali, l’insieme pare una voliera con fantastiche varietà di uccelli variopinti, che svolazzano liberi oppure sono appollaiati sui dettagli delle decorazioni. Non ci sono spazi liberi dove è presente una quantità di insetti: variopinte farfalle, realistiche libellule che rendono la superficie pulsante di vita.
Sono presenti motivi tipici del genere della grottesca come figurette umane, per metà uomini e donne e per metà animali frutto di strane commistioni oniriche, mascheroni barbuti o glabri appesi a stendardi in una figurazione stravagante.
Una cornice decorata a finti ovuli propone ancora una serie di inusitati elementi, sempre desunti dal genere della grottesca: sfingi, grifi, che si accompagnano a individui, uomini e donne, con il corpo nella parte superiore con caratteri umani mentre in quella inferiore è ferina, ma anche polimorfe al punto che hanno le zampe di rana e il corpo di donna licenziosa (fig. 6) ed entrambi hanno tra le mani oggetti inconsueti: l’uno una ghirlanda l’altro un tamburello, tutte queste figure reggono sul capo un cesto ricolmo di ortaggi. Infine non mancano figure multiformi realizzate con la parte inferiore di un volatile in commistione con un corpo umano che reggono un’anfora (fig. 7), il tutto termina con un trionfo di verzura.
Grottesche degli sguinci
Lo ‘studiolo’, come si diceva sopra, è un ambiente circondato da vani che lo qualificano come ‘il cuore’ del maniero, ovviamente ha delle finestre, che si aprono sul giardino, e delle porte che lo collegano con le camere limitrofe; gli sguinci[4] di queste aperture sono decorati con delle splendide grottesche che sono del tutto diverse da quelle che abbiamo incontrato sulla volta dello ‘studiolo’: le figure sono tutte appaiate e realizzate in verticale (fig. 8).
Una semplice analisi formale palesa che sono tutte eseguite dalla stessa mano, che pur essendo anonima, si rivela da subito per quella di un artista provetto. Il pittore mostra una spiccata attenzione ai dettagli: nella flora variopinta, nelle figure raffinate e nella resa dei corpi, siano questi secondo natura oppure bizzarri e stravaganti e così particolareggiate, nonostante le dimensioni ridotte, che li diresti prodotti da un miniaturista. In tutti gli sguinci le immagini sono frutto di fantasia e tutte sono costruite con coerenza stilistica. Analizziamo le raffigurazioni più significative.
Stupisce come il ricorrere negli sguinci della figura mitologica dell’arpia un’immagine che non trova alcun riferimento araldico nella cultura personale del conte Bonifacio[5]. In assenza di questa attestazione leggeremo queste figure alla stregua di semplici elementi decorativi.
Nella parte alta della svasatura della finestra che dà sul giardino, due arpie con attributi femminili e dal collo allungato (fig. 9.), si fronteggiano reggendo sul capo due plinti decorati con una protome leonina.
Qui, come d’altra parte in tutta la decorazione dello ‘studiolo’ si è costretti ad ammirare la perizia del pittore-decoratore che rivela una raffinata conoscenza del genere che sta trattando, quello della grottesca, per appunto. Sarebbe interessante conoscere altri suoi lavori e dove ha appreso una così consumata abilità nel trattare questo tipo di decorazione.
Tra le due arpie si può ammirare uno splendido cigno bianco con le ali spiegate, pronto spiccare il volo; dagli stessi plinti pendono due eleganti ‘trionfi’ di strumenti musicali. La decorazione prosegue verso la parte inferiore dello sguincio con una inflorescenza di raffinata eleganza le cui foglie multicolori e i baccelli sono pronti a espellere i loro semi (fig. 10). Sullo sguincio posto di fronte compaiono due figure maschili (fig. 11) prive di braccia ma forniti di ali diaboliche e dotati di zampe leonine.
Entrambi si arrampicano sui girali floreali con l’evidente tensione della muscolatura e reggono sulla esta, come le figure frontali, dei plinti uniti da un festone di stoffa; superiormente compare un volto, ricorrente in altri luoghi delle grottesche, che pare essere il un curioso contrassegno del pittore. Altri particolari denotano lo sbizzarrirsi della creatività del decoratore. Tra le due figure maschili compare un piccolo dragone attorcigliato con le zampe palmate questo è l’indizio della presenza di un artista dalla fantasia inesauribile.
Nella stesura delle decorazioni nulla è lasciato al caso, tutto è stato fatto con una intenzionalità che rivela, da una parte la volontà del conte Bonifacio di ottenere risultati originali, dall’altra la presenza di artisti che erano dotati di grande inventiva e di professionalità. Qui sarebbe il caso di rimarcare che la scelta degli artisti presupponeva una conoscenza delle maestranze e queste non erano dei decoratori banali ma dei professionisti di alto profilo, per cui niente manodopera locale, ma artisti reclutati a livello sovranazionale e ciò sarà ampiamente dimostrato nell’analisi degli affreschi successivi.
L’analisi delle decorazioni degli sguinci ai lati della porta che immette nello ‘studiolo’ del conte lascia intendere che sono state realizzati sì da una stessa mano mani ma con intenti differenti: benché siano frutto del lavoro di un solo artista in accordo con i risultati che troviamo negli altri sguinci, in quello di sinistra indugia maggiormente su aspetti propri del miniaturista. Anche qui regna incontrastata la presenza delle figure femminili con il sembiante di arpie, (fig. 12) perfettamente rispondenti alla figurazione del genere. Come è consuetudine anche in questa figurazione le due figure mitologiche hanno sul capo una sorta di piastra che pare voglia impedire il loro tentativo di librarsi, mentre le zampe sono degli artigli che si aggrappano agli splendidi girali vegetali.
Il tutto si sviluppa in verticale con una successione di motivi di grande impatto decorativo. Il centro della composizione è occupata da una splendida figura maschile che in atteggiamento di riposo, si appoggia ad una lancia, è una figura classica che ricorda in modo impressionante l’immagine del Doriforo di Policleto (fig.13).
La figurina è accompagnata da due nudi femminili ed è posta in un contesto di girali e variopinte forme vegetali.
L’opera necessita di un restauro per poterla preservare e godere tutta la freschezza espressiva della composizione.
Sul lato opposto è riproposta una decorazione con due di arpie sedute l’una di fronte all’altra (fig.14), con un piglio sciolto ed è per caratteristiche formali vicino agli affreschi degli altri sguinci.
La composizione centrale è fatta da due figurine che sbocciano da un cespo vegetale e sono in posa rilassata, recano in mano due lance e sono appaiate da due trionfi di frutti. Al centro ricorre ancora un volto barbuto collocato sopra un cencio e la parte inferiore termina con delle inflorescenze di fantasia e girali vegetali multicolori.
All’ingresso sono ovviamente associati i due sguinci laterali e un architrave decorata ad affresco (fig.16) con elementi specifici del genere della grottesca.
La parte centrale è occupata da un viso, tipico negli ornamenti di questi ambienti, ed è accompagnato da doppi pendagli di diversa natura: due file di perline rosse, a imitazione del corallo due panoplie di armi e di strumenti musicali, due mitici leoni alati dalle cui inflorescenze sbocciano figure semi nude che trattengono con un filo due farfalle il tutto immesso in una splendida visione di fiori multicolori creati con suprema finezza.
Ora analizziamo questi elementi partendo dalla base dove sono dipinti degli splendidi tripodi (vedi fig.15) che fungono da sostegno per dei vasi (li si direbbero d’argento) strigilati, i tre appoggi, legati da un anello di metallo, sono decorati con protome leonine.
Nel bel mezzo di una parete dello ‘studiolo’, esiste uno spazio depresso che suggerisce la presenza, in origine, di un mobile; non sono presenti né cornici e neppure lamine metalliche che possano suggerire un aggancio ma la cavità termina nella parte superiore con un motivo che lascia intendere fosse completato con una sorte di timpano. Probabilmente era il sito dove era collocata ona libreria, oppure in questo posto era posizionata la seggiola davanti alla quale c’era una scrivania usata del conte.
Lo ‘studiolo’ ha lo zoccolo decorato con lastre di finti marmi colorati e screziati (fig.17) e sono decorate con elementi di diverse forme geometriche: losanghe, quadrati, rettangoli contornati da semicerchi, ottagoni irregolari, queste figure geometriche sono raccolte entro spesse bande riproducenti il marmo bardiglio grigio, il tutto insiste su un fondo rosso o blu.
AFFRESCHI CON IMMAGINI DI ROVINE ROMANE[6]
Le raffigurazioni, ad affresco, delle rovine di edifici di epoca romana coprono la parte alta delle quattro pareti, a ridosso del soffitto ligneo decorato ad intaglio, con losanghe ed elementi vegetali stilizzati, del grande salone del primo piano; certamente furono realizzate negli anni novanta del XVI secolo [7], quando il conte Bonifacio riallestì l’apparato decorativo degli ambienti del castello. Indubbiamente questi interventi non sono stai messi in opera da maestranze locali e nemmeno da decoratori italiani. Il conte aveva viaggiato, nelle sue missioni diplomatiche, per mezza Europa compresa Roma, come legato del duca Carlo Emanuele I, presso il papa Innocenzo IX, e aveva avuto modo di apprezzare il genere di decorazione allora maggiormente ammirato e adottato nelle dimore signorili, le grottesche per l’appunto[8] e nella sua cultura, aveva anche ammirato la pittura ‘forestiera’, avendo percorso le strade dell’Europa sapeva apprezzare anche la pittura fiamminga o delle Francia del nord per cui, giunto a Roma, probabilmente si era ‘invaghito’ di ambientazioni, realizzate da artisti, non italiani, che allora andavano per la maggiore, e che gli rammentavano i suoi viaggi lontano dal Piemonte. Tornando in patria forse aveva portato con sé molti ‘souvenir’, dei suoi viaggi, disegni e dipinti oppure, si può congetturare che abbia invitato qualche artista fiammingo che aveva incontrato e apprezzato a Roma per impiegarli nella sua dimora di Ozegna. Queste possono essere unicamente delle suggestioni, ma sono, per certi aspetti, legittime in assenza di una documentazione probatoria dell’assunto.
Il fatto che questi affreschi di Ozegna non siano mai stati studiati può essere dovuto al fatto che l’abbandono in cui versava il castello dal XVIII secolo, abbia impedito l’accesso a visitatori interessati o a persone appassionate di cose d’arte, senza contare che, alcuni storici dell’arte del nord Europa, tra i più accreditati con una supponenza degna di una migliore motivazione, ritenevano negative le esperienze in terra italiana, e segnatamente a Roma, fatte da artisti provenienti dalle provincie fiamminghe, ed erano definiti con una espressione spregiativa ‘romanisti’[9]. Ma al di là di queste congetture si tratta di lavori di un pittore che forse non era stato di persona a Roma ma che aveva avuto dimestichezza con i disegni o le stampe, di coloro che avevano realmente vissuto a Roma e avevano avuto una notevole esperienza di edifici, o meglio di rovine, della Roma antica, può anche darsi che abbia avuto contatti con alcuni che avevano tratto dei ragguagli pittorici che circolavano tra i colleghi.
AFFRESCHI CON ALCUNI EDIFICI ANTICHI
Gli affreschi nella parte superiore delle pareti del salone del primo piano sono allusivi a edifici, o a parti di questi, caratteristici dell’antica Roma, si possono individuare riferimenti al Colosseo, al Settizonio, ma anche ad architetture di fantasia; il confronto con realtà esistite potrebbe portare a scoperte interessanti, ad esempio si potrebbero trovare riferimenti alle terme di Tito (fig. 18) e ad altri edifici; ovviamente le raffigurazioni ad affresco sono frutto di creatività (fig. 18a-b-c-d-e) non descrivono puntualmente le strutture ma, essendo evocativi, il riferimento è unicamente indicativo non esaustivo. In un riquadro, una veduta parrebbe richiamare il Colosseo (fig.19), che è descritto come una struttura che ne mostra una parte dell’anello periferico, ma è privo di molti elementi caratterizzanti l’edificio storico, archi e pilastri mezzo diruti rivelano l’intento di descriverne i ruderi, comunque un ulteriore affresco rammenta lo stato delle arcate interne del monumento (fig. 20).
Nonostante lo sfacelo, il luogo è visto come rappresentativo a causa una colonna sormontata da una statua (che la si direbbe marmorea), collocata al centro della composizione, che depone a favore di questa idea. Non poteva mancare l’illustrazione del monumento tra i più conosciuti e riprodotti nel Cinquecento: il Settizonio ) (fig. 21), e qui è delineato con una visione scorciata.
Il rudere è descritto con accuratezza; la veduta è credibile e, alle sue spalle sono tratteggiate quelle che potrebbero essere le rovine delle terme severiane del Palatino che nell’affresco sono identificate da una fuga di massicci archi a tutto sesto. Il Settizonio occupava il lato sud ai piedi del Palatino, il dipinto presenta i tre piani superstiti ed essendo visto dal retro, si appoggia ad una massiccia muraglia di cui il pittore ne ha descritto compiutamente i conci; di scorcio si notano tre colonne che formavano i resti della facciata mentre il fianco è dato da una sola colona. Vista l’esiguità della raffigurazione, non si può definire a quale ordine appartenessero le colonne. L’affresco può essere stato prodotto o meglio l’immagine è stata prodotta con l’ausilio dei disegni, perché se il Settizonio è stato demolito da SistoV nel 1588-89 si può credere che nel 1590 (l’anno di probabile realizzazione dell’affresco) non esisteva più.
Tutto trova però dei riscontri in diverse immagini antiche; interessante è un’acquaforte (fig. 22) firmata e datata da Hieronymus Cock (1518-1570), 1550[10] dove l’artista descrive le pendici del Palatino con una visione di parte del Settizonio nel contesto delle rovine del palazzo imperiale.
Le sue incisioni furono utilizzate anche dal pittore Lambert van Noort (1520-1571) per una tela del 1557 dove l’artista colloca un episodio biblico, ‘David e Abigail’, in ambito romano è identificato dalla presenza del Settizonio; anche se presenta l’immagine dell’edificio ribaltata è comunque molto vicina all’affresco di Ozegna[11]. Un ulteriore lavoro (questa volta si tratta di un disegno) del 1532-35 di Marten van Heemskerk (1498-1574)[12] nel quale l’artista presenta il monumento alcuni decenni prima di essere demolito.
Si conosce con approssimazione l’anno di realizzazione dell’affresco perché sullo sguincio superiore di una finestra del salone del primo piano compare la data 1594.
STEMMI E ISCRIZIONI NOBILIARI
Sulla cornice superiore del salone del primo piano, oltre alle illustrazioni, in buona parte di fantasia, di rovine di edifici di età romana, sono inframezzati alcune riproduzioni dello stemma della nobile famiglia biellese dei Ferrero. Inferiormente allo stemma si accompagnava un filetto dove era presentato il nome del membro della famiglia, quale era stato il suo ruolo nella compagine politica del Piemonte del XVI secolo, e alcune date significative della sua vita. I nomi presentati erano tutti cardinali e vescovi della chiesa vercellese e di Ivrea, alcuni erano stati anche nunzi e diplomatici a servizio della chiesa in sedi prestigiose. Probabilmente il loro impegno come diplomatici li aveva fatti ricordare al signore di Ozegna, lui stesso ambasciatore del duca del Piemonte Carlo Emanuele I presso numerose corti europee.
Natale MAFFIOLI Torino 16 Aprile 2023
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