di Francesca SARACENO
Fino allo scorso 24 febbraio non sapevo che Pina Mandolfo (fig. 1) fosse una mia concittadina.
Anche se da anni ormai non vi risiede più, è nata a Belpasso (CT), su quel fianco di montagna del versante sud dal quale, se l’orizzonte è limpido, si vede il mare. Quando la sentii parlare, alla presentazione del suo libro, in quella sala della biblioteca comunale gremita, nonostante un’apparente esitazione nella sua voce, avvertii la forza della sua tempra, figlia delle insidiose asperità vulcaniche, ma capace di assecondarle se non di dominarle. Personalità artistica poliedrica e raffinato intelletto, Pina Mandolfo vanta un curriculum straordinariamente ricco, che spazia tra insegnamento, giornalismo, pregiata scrittura, sceneggiatura e regia cinematografica, promozione culturale, attivismo accorato – civile e politico – su tematiche come le differenze di genere, la difesa dei diritti umani, la ricerca e la comunicazione delle conoscenze dell’universo femminile, la tutela del patrimonio ambientale.
Lo scandalo della felicità. Storia della principessa Valdina di Palermo (fig. 2) è solo l’ultimo tassello di una lunga carriera da grande narratrice delle innumerevoli potenzialità e qualità delle donne; protagoniste della storia del mondo, anche quando la storia nega loro riconoscimenti, diritti e dignità. E non è un caso che il volume sia stato pubblicato – il 27 gennaio 2023 – sotto l’insegna della VandA.edizioni, che si professa “casa editrice femminista”; ma di quel femminismo “utile”, intelligente, solidale, mai superato, denso di contenuti sostanziali e di urgente attualità. Perfino la scelta del dipinto in copertina, mirabile opera di Stefano Bersani intitolata Il Silenzio (1906, fig. 3), anticipa al lettore, con immediata evidenza, la solitudine feroce – tutta femminile – che pervade l’intero racconto.
Come spesso accade, le donne si raccontano ad altre donne, in una sorta di “sorellanza intellettiva”, cercando in ogni dimensione spazio-temporale l’interlocutore giusto a cui affidare la propria storia. Successe così che nel 2005, Anna Valdina “chiamò” Pina Mandolfo da una sala dell’Archivio di Stato di Palermo, dove si esponevano le antiche pergamene delle monacazioni.
Autrice di cotanto spessore, la Mandolfo entrò, assecondando il mai pago desiderio di conoscenza, per accostarsi a quelle storie di donne così lontane nel tempo. Finché, tra le molte pergamene in esposizione, non scorse un fascicoletto in cui si citavano i documenti di un processo per una monacazione forzata. Ecco: era da lì, da quelle pagine corrose dai secoli, che Anna Valdina la stava chiamando, perché la sua storia avesse un’eco – importante e quanto mai opportuna – nel nostro tempo. Un caso, dice la Mandolfo; ma io non credo molto alle coincidenze. Il passato – “certo” passato, che in realtà non passa mai – attende i secoli prima di vedersi riconosciuto, legittimato, compreso. E la principessa Anna Valdina attendeva da quattrocento anni che Pina Mandolfo passasse accanto a quelle pagine: era lei “quella giusta”. Ma dovette aspettare ancora quindici anni e il tempo vuoto di una pandemia, perché finalmente il materiale raccolto e conservato dalla Mandolfo, potesse trovare spazio su nuove pagine.
Lo sfondo della vicenda è la Palermo “spagnola” del Seicento, uno dei secoli più violenti e controversi della nostra storia, segnato da opulenza e miseria, da moralità apparente e ipocrisia strisciante, da una religiosità esaltata e opportunista, il cui senso primigenio era sfuggito di mano, per finire mozzato e issato sulle picche, o arso sul rogo dalla “santa” Inquisizione.
La storia di Anna Valdina non è di quelle che si immaginano, in un tempo e in un luogo in cui i destini delle “nate femmine”, sebbene nobili, erano quasi sempre contrassegnati da due veli: quello da sposa o quello da monaca. Amore e fede non costituivano criterio di scelta; al massimo – ed era già una fortuna – potevano risultare un fatto contingente. Perché alla “nata femmina” non era consentito scegliere. E don Andrea Valdina, tirannico e avido principe della Rocca, per preservare integro il suo patrimonio all’erede maschio, destinò solo una delle sue figlie al matrimonio; per Anna e per le altre sue sorelle il principe scelse il velo più austero. Ma Anna Valdina fu l’eccezione a confermare la regola: Anna osò scegliere. A dispetto del padre, a dispetto del mondo e delle convenzioni, a dispetto della legge degli uomini e di quella di Dio, Anna scelse, scientemente, caparbiamente, di NON essere monaca. Lei scelse di essere LIBERA.
Quando hai appena sette “annuzzi” e papà ti scarica in convento come se ti stesse lasciando al collegio delle brave signorine dell’alta società, giusto il tempo di imparare le buone maniere, prima di venirti a riprendere per iniziare la tua “vera” vita, e tu da brava bambina, ci credi; per poi renderti conto, nel giro di poche ore, che non solo quello non è un collegio per signorine, ma che le buone maniere sono in realtà regole mortificanti imposte da esseri umani totalmente anaffettivi, per fiaccare la tua volontà, annientare la tua intelligenza e ridurti al silenzio e all’obbedienza. Ma soprattutto scopri … che papà non verrà mai più a riprenderti, che quella sarà la tua prigione. È in quel momento che Anna Valdina decide, per se stessa, un altro destino. Dal preciso istante in cui prende coscienza di essere stata raggirata, Anna comincia a tessere i fili della sua vendetta; comincia a cucirsi addosso la corazza del dolore, cicatrice dopo cicatrice, un tentativo di affrancamento dopo l’altro, fallimento dopo fallimento, per anni; fino a diventare invincibile, irriducibile.
Sarà guerra aperta; sarà la potenza incrollabile della sua volontà contro la crudeltà sistemica di chi la vorrebbe – invece – priva di ogni volontà. E non chiamatela “eroina”; l’eroismo presuppone un’alterazione, una condizione “altra” da sé. E invece Anna è assolutamente, prepotentemente “se stessa”. Lo è in maniera audace e perentoria, e rivendica a gran voce il diritto di esserlo. Lo griderà in faccia alla badessa e al confessore, che se ne infischia di ciò che, suo padre e loro, hanno deciso lei debba essere:
“Non mi farò monaca!” E ancora: “Non ubbidirò a comandi che ripugnano alla mia coscienza e sono causa della mia infelicità.”
Ma soprattutto, Anna pretenderà giustizia perché è stata ingannata. Lotterà per ottenere un processo e lo scioglimento dei voti professati contro la sua volontà, subiti con la forza della coercizione. La libertà da quella monacazione coatta e fraudolenta sarà lo scopo della sua esistenza, di ogni suo respiro per oltre cinquant’anni. E quel desiderio di libertà, di affermazione di sé, diventerà lo “scandalo” da cui sarà costretta a difendersi in un mondo in cui il concetto di libertà era limitato ai privilegi degli uomini, e di quelli potenti in particolare. Potevano avere il suo corpo da tenere in ostaggio e velare di nero, ma mai, mai il suo spirito. Perché quello era puro, ed era libero. E lo sarebbe stato anche quando la dura vita del monastero avrebbe provato a costringerlo entro il recinto stretto delle meschinità, delle invidie tra “detenute”:
“Dovete solo rassegnarvi, piccola principessa.”
Risposta di Anna:
“È questa la carità che vi ha condotte qui dentro, serpi velenose? Voi, voi che vi inginocchiate e vi confessate per poi praticare discordie e gelosie, da quest’inferno passerete prontamente a quell’altro, se esiste.”
O quando la cattiveria della badessa avrebbe imposto ad Anna, dall’alto, come una sadica punizione, la vista straziante – per lei reclusa – di ciò che non avrebbe mai potuto vivere: la dinamica, esuberante realtà cittadina, fatta di carrozze, di dame e cavalieri, di navi che solcavano il largo mare all’orizzonte.
Né lo sarà quando, quello spirito indomito, proveranno a blandirlo con vuote promesse di potere e privilegi per l’alta gerarchia monastica a cui avrebbe potuto ambire, dato il suo lignaggio. Ma Anna Valdina era “nata femmina”, non sottomessa; per lei nulla al mondo aveva più attrattiva, più valore della libertà:
“Pur essendo donna, io sfiderò l’accanimento feroce che si compie su di me.”
Qualcosa di inaudito tra le austere mura del monastero delle Stimmate di San Francesco a Palermo. Migliaia di donne erano finite sul rogo, additate come “streghe”, per molto meno. Ma Anna aveva dalla sua il blasone; lo stesso a cui avrebbe volentieri rinunciato pur di vivere nel mondo. Libera.
L’estrosa penna Pina Mandolfo non ha avuto bisogno di forzare troppo la verità storica per adattarla alle necessità narrative del romanzo, perché i documenti che ha consultato, restituiscono un profilo dettagliato a sufficienza da poter immaginare, senza timore d’andar troppo oltre il verosimile, pensieri, parole e azioni dell’indomita principessa.
Il racconto della Mandolfo è spedito e incalzante, e galoppa veloce cavalcando un lessico di razza, dove il mezzo-parola – benché ricercato – non si perde in vane leziosità, ma asseconda con sapiente padronanza, le vette e gli abissi in cui l’incredibile storia di Anna Valdina dispiega il suo nastro.
E si fa ancor più vibrante e partecipato quando la vicenda riserva al lettore l’ulteriore sorpresa di un altro personaggio femminile imprevisto. Una figura autorevolmente storica, eppure dalla storia occultata: donna Eleonora Mora, che nel 1677, alla morte del marito sua eccellenza il viceré don Aniello Guzmà y Carafa, divenne per sua espressa volontà testamentaria, la prima e unica “viceregina” a governare una Palermo attonita e incredula. Ventisette giorni durò il viceregno della “donna” Eleonora. Ventisette giorni in cui il senso stesso di “governo” della città venne rivoluzionato da una visione “futuristica”: lotta alla corruzione, con annessa immediata estirpazione delle mele marce da ogni dicastero e ruolo; attenuazione del morso della povertà attraverso l’abbassamento del prezzo del pane e il sostegno economico alle famiglie; contrasto deciso alla prostituzione nel modo più inusitato ed efficace: tutela delle donne costrette a quella vita e severe condanne per gli uomini che impunemente ne approfittavano. Ventisette giorni in cui – non sarebbe stato inverosimile crederlo – anche Anna Valdina avrebbe potuto sperare in un palpito di giustizia. Ventisette giorni “stranamente” (o forse no…) cancellati dai libri di storia, a cui solo personalità colte e illuminate come Pina Mandolfo, e Andrea Camilleri prima di lei (La rivoluzione della luna, Sellerio, 2013), hanno saputo rendere onore e memoria.
Un romanzo storico, quello della Mandolfo, in cui la storia – intesa in senso temporale – non si sminuisce nel mero dato cronologico perché l’autrice, attraverso un’efficace struttura narrativa, riconduce spesso e opportunamente, fatti e circostanze alla più stretta attualità, facendo di questo libro un’opera letteraria senza tempo, che induce – e quasi obbliga – il lettore a sentire come propria la vicenda di Anna Valdina. Perché la ricerca della felicità e il desiderio di libertà delle donne, spesso ancora oggi, danno “scandalo”; seppelliti – ancora e sempre – sotto la coltre scura di un velo, di un diritto negato, di una dignità offesa, di un corpo violato.
Non un eco lontana, dunque, ma una voce viva e presente, con tutto il suo carico di criticità mai realmente superate, che urla e lampeggia tra le luci sfarzose e le ombre scure di quel controverso Seicento che, personalmente, ho imparato a conoscere meglio grazie ai miei studi su Caravaggio. E confesso che quando lessi “Valdina” nel titolo del libro della Mandolfo ebbi un sussulto: quel cognome mi suonò subito familiare. Mi era già capitato di incontrarlo in alcuni testi caravaggeschi, e così ho pensato che neanche questo poteva essere un “caso”. E infatti, l’amato maestro si ritaglia il suo spazio anche tra le righe di questo romanzo (a pagina 100).
Non era ancora tramontata la stella del maestro, quando la principessa Valdina viveva la sua tragedia umana, affinché il patrimonio di famiglia non andasse disperso in doti matrimoniali. E mentre lei soffriva i tormenti della monacazione forzata, suo padre, il dispotico principe Andrea Valdina, arricchiva le sue residenze di pregiate opere d’arte. Nella sua collezione, inventariata nel 1659 dal figlio ed erede Giovanni, all’indomani della sua morte, figura almeno un dipinto riferibile al grande artista lombardo. Al numero 8 dell’elenco, dopo altri due quadri a tema sacro, risulta infatti
“Un Christo con croce in collo del Caravaggio della grandezza di sopra e cornice negra et oro”[1],
opera – purtroppo – a tutt’oggi sconosciuta.
Anna Valdina forse non seppe mai nemmeno che fosse esistito un Caravaggio pittore; Pina Mandolfo non sapeva dell’esistenza di una principessa Valdina monacata a forza; io non sapevo di avere una concittadina così estesamente e variamente talentuosa. Ma se le anime affini si cercano e si trovano anche a distanza di secoli, non può essere un caso che, alla fine, ci siamo ritrovati tutti tra le pagine di questo intenso romanzo, nel segno universale – sempre rincorso e mai pienamente raggiunto – della libertà.
Virginia Woolf sosteneva che una donna “deve avere una stanza tutta per sé per poter scrivere”. Siano benedette e prolifiche le stanze di tutti i tempi, in cui una donna possa scrivere di LIBERTÀ.
©Francesca SARACENO Catania 23 Aprile 2023
NOTA