di Giuseppe RESCA
Capitolo primo: il “Bacchino malato”
Il primo quadro di Caravaggio, primo fra quelli di cui siamo sicuri, è il Bacchino malato.
La storiografia vuole che sia nato in occasione di una seria malattia del pittore in seguito a un’accidentale caduta da cavallo, che rese necessario un lungo ricovero all’Ospedale della Consolazione. Da qui l’aggettivo malato che, dall’intuizione di Roberto Longhi in poi, connota il quadro.
In parallelo, tutte le circostanze che lo hanno accompagnato ci sono ben note, come se anche ai contemporanei fosse chiaro che da lì partisse la parabola di Caravaggio. Quasi che, con quel quadro, fosse nato lui. Prima l’opera e poi l’artista, dunque. È curioso che negli eventi di quella vicenda, raccontata da più autori e con moltissimi aneddoti, sia racchiusa quasi una summa del carattere del pittore. E forse persino un’anticipazione dei mille risvolti problematici della sua vita.
Al centro della diatriba sta la controversia che lo oppone a Giuseppe Cesari, futuro Cavalier d’Arpino. Venuto a Roma dopo un quadriennale apprendistato presso il pittore milanese Simone Peterzano, e dopo aver girato per molte botteghe pittoriche in cerca di lavoro, nell’anno 1593 Caravaggio entra in quella dei Cesari, Giuseppe e Bernardino. Che non si fanno scrupolo di impiegarlo a dipingere “fiori e frutti”: genere di second’ordine, riservato ai pittori che scendevano dal Nord dove era stato inventato.
Ma per Caravaggio, che ambiva a dipingere Istorie, sembrava uno sfregio. Il risentimento provocato dall’impiego suddetto crebbe, poi, in seguito alla solitudine patita nella lunga degenza, durante la quale nessuno dei due suoi patroni andò a visitarlo.
Tralasciando i vari contorni, la pietanza basta da sola a illustrare il soggetto: Caravaggio si erge a protagonista dipingendo se stesso nell’autoritratto. Non solo: si dipinge nelle forme di un Dio, coronato del canonico tralcio di vite. Ma soprattutto dichiara di saper dipingere figure, tanto quanto nature morte. E tutto ciò in barba all’attuale patrono, futuro Cavaliere (sarà questa nomina, a lui sempre negata, l’origine dell’invidia futura, la causa della sua compulsione a portare Spada, e lo smacco maggiore della sua giovinezza).
E non basta. Vi è molto altro in questo quadro per quel che riguarda il processo creativo di Caravaggio.
Intanto, perché siamo così sicuri che si tratti proprio di un Caravaggio? E perché siamo altrettanto certi che non ve ne siano altri, prima di questo, che possano essere presi in considerazione come autografi?
In effetti, i critici d’arte si sono molto prodigati nella ricerca degli antecedenti. Chi era Caravaggio, prima di Caravaggio? Com’è possibile che non si trovino quadri del suo periodo milanese, neanche a cercarli col lanternino? Può un autore comparire così all’improvviso, a un’età già matura (ventidue anni), senza aver dato prova riconoscibile di sé fino ad allora? E dove sono andate a finire le tante opere documentate di lui nelle fonti antiche, i fiori e frutti, le teste vendute a un grosso l’una?
Non credo siano più riconoscibili. Caravaggio, dipingendo il Bacchino, inventa se stesso, quello che noi conosciamo. Cambia identità, diventa altro da sé. D’improvviso: perché è il quadro che battezza Caravaggio, e non viceversa. E questo perché è alla radice del suo processo creativo, che si struttura a partire da un intenso sentimento di frustrazione nel sentirsi abbandonato da quelli che sentiva amici (la malattia), e si sviluppa verso la rivalsa di proclamarsi un Dio, seppur controverso (il Bacchino).
Ma se questo è il fine che si propone di dichiarare al mondo l’autore, che scopre per la prima volta il vero Sé, ancora più interessante è il modo pittorico in cui ciò avviene.
Ora dobbiamo pensare che Caravaggio si è tediato, a questo punto, di essere impiegato a dipingere solo frutti e fiori. Per cui la natura morta, nel quadro, diventa insignificante: due misere pesche pelose e un nero grappolo d’uva, posti ai margini della composizione. Con ciò, egli dice addio alla pratica odiosa cui è destinato.
Teniamo ben presente, però, che Caravaggio si oppone alla pratica, ma non al genere, perché lui ama visceralmente le nature morte, che gli permettono di indagare la verità delle cose naturali. Se pensiamo, infatti, alla straordinaria complessità delle nature morte che dipingerà successivamente, la differenza balza agli occhi impietosa. Ma è proprio con la misera natura morta del Bacchino malato che Caravaggio diventa Caravaggio: ripudiando, appunto, le nature morte che è stato finora costretto a dipingere.
E se confrontiamo questa scheletrica composizione di frutta con l’opulenza di quella dell’altro Bacco, ora agli Uffizi, o alla verità della Canestra di frutta dell’Ambrosiana, constatiamo come a lui stia a cuore il significato del brano dipinto, più che l’artifizio con cui lo dipinge. Certo, in questi secondi quadri egli dà sfoggio di sé, della sua abilità nell’imitar natura, molto meglio dei rinomati maestri fiamminghi che il Cardinale Federico Borromeo predilige, per primo Jan Brueghel dei Fiori. Ma solo perché, all’epoca, è quello il momento di mostrare il proprio talento, come a dover dare l’esame di valentìa. E la potenza di questo bisogno si è ingigantita dai tempi del Bacchino malato.
Incorre in errore solo chi pensa all’Arte come a un processo evolutivo lineare, quando invece essa procede per salti, per cambi di identità. Come avviene in Picasso con les Demoiselles d’Avignon, in totale rottura con i quadri figurativi precedenti.
Ma col Bacchino Caravaggio non si limita a proclamare che è stanco della pratica: dipingendosi nei panni di un Dio dichiara di non voler più essere servo di alcuno, siano pure i suoi patroni i più rinomati pittori del tempo, Simone Peterzano e Giuseppe Cesari indifferentemente. E anche qui, oltre al significato, è il modo con cui procede nel dipingere che lascia stupiti. Perché?
È del tutto evidente che nel realismo con cui descrive il personaggio di Bacco traspare la visione di sé che lo ha finora accompagnato: non per nulla si tratta di un autoritratto. La malattia da cui Bacco è afflitto è senz’altro reale, perché lo ha costretto al ricovero, ma ad essa si giustappongono le malcelate deformità fisionomiche del protagonista. Che, pur nell’atto di mascherarsi all’antica, dà mostra di un testone in esubero rispetto alle giuste proporzioni del corpo, e di membra in sgraziata postura, con ben misera dignità divina.
Sappiamo bene che Caravaggio si serviva di uno specchio concavo nel dipingere, capace di deformare l’immagine riflessa ai bordi del quadro. Ma non abbiamo pensato mai che lo facesse proprio perché si sentiva egli stesso deforme, e ritenesse improponibile tenerlo nascosto?
Diverso è ricorrere alla figura di un Dio, perché la finzione è troppo esibita per sembrare bugia. Ma pure in essa si affaccia il realismo, nel meraviglioso fiocco posato distrattamente sul piano, come fosse il vezzo di un damerino sbadato che ha deciso frettolosamente di mascherarsi all’antica. È questo il vero brano di natura morta del quadro: un capo dell’abbigliamento che Caravaggio predilige, assieme alle divise sgargianti, ai guanti e ai cappelli piumati, agli stivali militareschi e all’immancabile spada, almeno a partire dalla Vocazione di Matteo, in San Luigi dei Francesi nell’anno 1600.
Finzione e realtà che si scambiano le parti: anche il volto di lui, così accuratamente delineato, appare studiato più che reale (pensiamo alla differenza con tutti gli altri autoritratti di lui che conosciamo). Ammantato com’è di un superbo tralcio di vite, sembra persino anch’esso un oggetto, tra i tanti del quadro.
Perciò, come sberleffo finale a chi lo ha messo a dipingere fiori e frutti soltanto, Caravaggio risponde dipingendosi come se fosse lui stesso natura morta.
Una natura morta, mascherata da quadro di figura.
Capitolo secondo: Bacco e Bacchino
Il secondo dipinto di Caravaggio che ci guida in questo capitolo del processo creativo del pittore è il Bacco agli Uffizi, perché espone una differenza sostanziale rispetto al Bacchino malato, talmente evidente da sembrare addirittura programmatica.
Se analizziamo i due dipinti in doppio si colgono immediatamente le differenze, la prima delle quali è il carattere diverso che il pittore imprime al quadro. Nel Bacchino si ha l’impressione di una istantanea; nel Bacco di un’opera in posa. Nel primo il pittore è agito da un’intuizione; nel secondo agisce con un programma.
E se avevamo colto nel segno nell’ipotizzare per il Bacchino l’insofferenza nell’essere costretto a dipingere Nature morte, nel Bacco troviamo l’orgoglio di dipingerne di inusitate. Perché il cesto di frutta che ci si para dinnanzi nel Bacco, già al primo sguardo fa mostra di essere la più perfetta rappresentazione di Natura in posa che sia mai stata dipinta. Tanto perfetta da essere replicata dallo stesso autore, praticamente identica, in un altro dipinto memorabile (come lo sono tutti) della sua giovinezza: la Cena in Emmaus della National Gallery.
Ma dov’è finita l’intenzione recondita del Bacchino di trovar fortuna nel dipingere figure? Per ora è procrastinata, perché la figura umana di Bacco è irrimediabilmente secondaria nel quadro, poco vitale al confronto dello splendore della Natura che lo circonda, al contrario del Bacchino, in cui l’autoritratto rende immediata e spontanea la rappresentazione.
Ecco quindi svelata la prima delle mille contraddizioni che segnano il processo creativo di Caravaggio: un attimo dopo aver manifestato le proprie intenzioni (dipinger figure, quale è certamente Bacchino), se le rimangia dipingendo proprio le Nature Morte che sembrava rifiutare in partenza.
E tuttavia nei due dipinti appare il trait d’union che li congiunge: quel fantastico Fiocco che avevamo segnalato nel Bacchino, e ritroviamo nel Bacco, quasi a legarli insieme (o slegarli? Perché Bacco fa gesto di sciogliere il nodo) nello stesso destino.
Ma anche una precognizione di quel che avverrà, quando Caravaggio si stancherà di dipingere ragazzi abbigliati alla Greca (con semplici camicie di lino ad assecondare le nudità dei corpi), e si produrrà in quei caleidoscopici costumi moderni che costellano le sue composizioni posteriori (una su tutte, la Vocazione di Matteo). Ossia, quando passerà dal Mito alla Storia; dall’Arcadia della spensieratezza dell’arte, alla tragedia dell’Istinto di Morte.
Ma non è ancora questo il tempo, perché il suo processo creativo segnerà molte altre tappe prima. Per ora si tratta di evoluzione, come simboleggiato da quei grappoli d’uva che primeggiavano nel Bacchino, e che nel Bacco si trasformano in vino, in calici e brocche, in luce, trasparenze, e riflessi ammalianti. Perché è nel riflesso che si gusta il sapore del vino, nel tatto che si odora la sua consistenza, nella fragilità del vetro che si cristallizza la sua tenacia.
La verità delle cose è il segreto dell’indagine di Caravaggio, e la Natura Morta la sua palestra ideale. È cominciato il tempo della Natura in posa.
Giuseppe RESCA Roma 23 Aprile 2023