di Yuri PRIMAROSA
Si è tenuta lo scorso venerdì 5 Maggio a Palazzo Chigi in Ariccia un importante evento d’arte in ricordo della figura di Ferdinando (Nando) Peretti ad un anno dalla scomparsa. Nell’occasione sono stati presentati due dipinti assai significativi per qualità e valore scientifico e filologico, La Virtù trionfa sul Tempo, di Carlo Maratti, detto il Maratta, a cura di Francesco Petrucci, e San Cristoforo a cura di Yuri Primarosa. Siamo lieti di poter pubblicare grazie alla generosità e alla disponibilità di Francesco Petrucci e dell’autore, il saggio di Yuri Primarosa che in modo davvero impeccabile ripercorre la figura e l’opera di un autore ancora poco conosciuto ma che merita una riproposizione nel campo degli studi storico artistici assai più adeguata di quanto non sia avvenuto fino ad ora.
Aiutare un bambino in difficoltà è molto di più di un gesto di istintiva gentilezza se a compierlo è san Cristoforo, il gigante cananeo convertitosi al cristianesimo negli squadroni dell’esercito imperiale.
Cristoforo, in greco “colui che porta Cristo”, è un novello Caronte e al tempo stesso un novello Atlante: è il traghettatore benigno della fede e del messaggio cristologico, è l’àncora provvidenziale nel flusso delle nostre vite. Il suo gesto semplice è un’immagine perfetta di compassione e santità: anche se in apparenza vigoroso e inscalfibile, il gigante si piega sotto il peso di quell’esile creatura che sembra incombere sempre più ad ogni suo passo. Quel bimbo divino ha appena rivelato al suo traghettatore di essere il Messia, confessandogli di aver portato sulle sue spalle non soltanto il peso del suo corpicino, bensì quello del mondo intero. Questa è la sofisticata interpretazione che diede al tema il lucchese Paolo Guidotti nel dipinto qui presentato[1] (fig. 1).
Ingegno multiforme, pittore intellettuale e persino scultore e architetto, Guidotti era uno degli artisti più colti del suo tempo: si laureò a Pisa in utroque iure nel 1613, frequentò assiduamente l’Accademia degli Umoristi e compose versi egli stesso (fig. 2). Trasferitosi nella capitale papale verso il 1584, al tempo di papa Gregorio XIII, e attivo a più riprese – nel solco della tarda Maniera – nei cantieri pontifici promossi da Sisto V, nel primo decennio del Seicento l’artista iniziò a sperimentare nuovi linguaggi espressivi. Nello stesso tempo Guidotti si costruiva una posizione di qualche rilievo come decoratore e frescante sui ponteggi della Roma sistina, aldobrandina e borghesiana, spiccando in quella pletora di artisti non sempre per qualità e diligenza, quanto per invenzione e bizzarria.
Paolo fu tuttavia tra i pochi pittori nati prima del 1575 (assieme a Baglione, Gramatica, Borgianni e Gentileschi) ad aver repentinamente mutato il proprio stile dopo l’incontro con Caravaggio. Tali stimoli non lo portarono a un totale rifiuto del suo retroterra culturale, bensì alla costruzione di un linguaggio originale e stratificato, sul quale soltanto di recente si sta iniziando a fare nuova luce, soprattutto grazie agli sforzi di Gianni Papi, Michele Nicolaci e Paola Betti[2], dopo le pioneristiche aperture di Italo Faldi, Luigi Ficacci e Roberto Contini[3].
Il tema del San Cristoforo, molto diffuso in Spagna ma sino ad allora non particolarmente frequente in Italia[4], si era imposto a Roma soprattutto grazie alla circolazione delle incisioni (Raimondi, Dürer e Altdorfer in primis), ma anche attraverso un prototipo oggi a San Pietroburgo dipinto dal tedesco Adam Elsheimer e, evidentemente, anche grazie all’opera qui presentata. Questo mirabile «quadro in tela, ov’è dipinto San Christoforo che passa un fiume con Nostro Signore sopra le spal[l]e», è infatti riferito alla «mano del Cavagliere Guidotti» già in un elenco di «pitture de varie sorti» di proprietà della famiglia Aldobrandini, spettanti in gran parte al cardinale Silvestro (1587-1612)[5]. Le dimensioni dell’opera qui presentata, infatti, ben si sovrappongono a quelle riportate nella lista, dov’è descritto un quadro «alto palmi 4 incirca e largo 6 incirca»[6].
La tela fu verosimilmente ultimata entro il 1611, data del ritorno di Guidotti a Lucca dopo «27 anni di volontario essilio», secondo quanto dichiarato dallo stesso pittore.[7] L’opera, inoltre, costituisce un importante termine di confronto con i vari dipinti dello stesso soggetto realizzati in quegli stessi da anni Orazio Borgianni e dalla sua bottega (figg. 3-4), anche se è difficile allo stato attuale delle nostre conoscenze stabilire se il dipinto del lucchese segua o preceda di poco la geniale invenzione del collega romano[8].
Lanerboruta figura del gigante, infatti, invade anche qui l’intera superficie del quadro, traghettando il piccolo Gesù direttamente nel nostro spazio di astanti. Il prodigioso “portatore di Cristo”, inoltre, è qualificato da un naturalismo empirico e straordinariamente moderno, ed è colto in un dialogo mistico e al contempo amorevole con il Messia, in un’atmosfera crepuscolare rischiarata da un’illuminazione radente simile a quella scelta da Orazio (schiettamente caravaggesche, del resto, sono le ombre riportate del braccio e del capezzolo sul busto della figura, illuminata con l’“occhio di bue”).
L’opera costituisce dunque una rilevante aggiunta al mirabolante exploit naturalistico del lucchese, collocabile qualche tempo dopo il 1608, quando l’artista firmò e datò il David di San Paolo fuori le Mura[9] (fig. 5),
preludio dell’altrettanto sbalorditiva Deposizione di San Frediano, da lui inviata a Lucca verso il 1610-1611[10] (fig. 6).
Il dipinto Aldobrandini, inoltre, mette in evidenza il peso dei coevi esiti di Baglione sulla prima produzione “caravaggesca” di Guidotti, che verso il 1605-1607 dovette repentinamente aggiornare i suoi moduli tardomanieristici. Non sembra casuale, alla luce di queste considerazioni, la posizione di autorevole paciere assunta proprio dal lucchese in un noto processo giudiziario del 1606, attraverso il quale Giovanni Baglione aveva sfidato pubblicamente la fazione caravaggesca guidata da Orazio Borgianni e Carlo Saraceni[11].
L’eclettico Guidotti, come Borgianni, era ben inserito nel contesto delle accademie artistiche e letterarie romane, potendo vantare anch’egli una raffinata formazione umanistica; basti pensare che fu addirittura in grado di comporre, nel secondo decennio del secolo, un ambizioso poema epico in cinque canti dedicato alla famiglia Borghese, sulla scorta dei modelli aulici di Tasso e Marino[12]. Tra Paolo e Orazio, dunque, dovettero esistere dei rapporti, considerando i nessi stilistici delle loro opere e le loro comuni frequentazioni, soprattutto in ambito letterario. I due artisti, infatti, ricevettero entrambi attestati di stima da parte di Marzio Milesi, Giovan Battista Marino e Giulio Cesare Gigli: quest’ultimo abbinò i loro nomi nel suo poetico elenco del 1615[13], mentre Marino, dopo aver evocato l’Ercole Filante di Borgianni, celebrò nella Galeria un dipinto di Guidotti tematicamente affine, raffigurante la sfortunata «Dianira» amata da Ercole[14]. Stupisce, invece, la presenza di una biografia di Guidotti nella monumentale Pinacotheca imaginum illustrium dell’eccentrico Gian Vittorio de Rossi (1577-1647), alias Giano Nicio Eritreo, all’interno della quale il lucchese è l’unico pittore presente assieme a Gaspare Celio, amico personale dell’autore e acerrimo rivale di Borgianni: una rete di rapporti eterogenea e in parte contraddittoria che ben riflette la complessità del panorama culturale romano dell’epoca.
Il nome di Guidotti, inoltre, figura accanto a quelli di Borgianni, Saraceni e Baglione nella lista dei «pittori che [favorirono] il Cavalier Marino nella sua Galeria», rubricata nell’edizione del 1628 delle lettere del poeta, quasi a voler suggellare questa compagine di uomini “liberi” distinta da una forte volontà di sperimentazione dal punto di vista artistico e inevitabilmente segnata dall’incalzare di aspri conflitti, accanite competizioni e accese rivalità sul piano professionale e personale. Converrà pensare a una precisa scelta di campo nella quale l’avvicinamento al caravaggismo, l’agognato rapporto con la cultura “alta” e la trasgressione di certe convenzioni sociali rappresentassero un fertile terreno di confronto, quel fattor comune capace di affratellare personalità fra loro diverse in un condiviso territorio culturale anti-manierista, nelle pieghe d’ombra di un naturalismo che, per dirla con Luigi Salerno, si potrebbe già definire del “dissenso”.
L’occasione di questa presentazione è utile per ulteriori precisazioni e aggiunte al catalogo di Paolo Guidotti. Alla maturità dell’artista può infatti essere ricondotta un’allucinata Deposizione transitata di recente sul mercato inglese[15] (fig. 7).
Presentata all’incanto più volte con un generico riferimento ad anonimo romano di inizio Seicento, l’opera costituisce una fusione geniale – e sgangherata al tempo stesso – di illustri modelli del manierismo toscano con suggestioni più moderne derivate dal variegato universo caravaggesco romano. Le figure dichiarano più di un punto di contatto con i personaggi dell’appena citata pala lucchese; le loro caricate fisionomie rimandano all’immaginario stralunato e stregonesco del pittore, coerentemente con gli espressionismi dei personaggi della più tarda Crocifissione di San Crisogono a Roma, commissionatagli nel 1624 dal cardinale Scipione Borghese[16] (fig. 8).
Nella generale difficoltà di stabilire una serrata successione cronologica delle opere del lucchese, gioca un ruolo importante una Crocifissione che l’artista dipinse nel 1621 su una tavola di noce per il palazzo alle Quattro Fontane della famiglia Barberini[17] (fig. 9).
L’opera, studiata da chi scrive in occasione del Tefaf 2022, fu pubblicata per la prima volta nel 1957 da Italo Faldi,[18] pioniere degli studi sul pittore, nello stesso articolo in cui veniva reso noto il capolavoro del lucchese: la volta dipinta a fresco nella sala dell’Eterna Felicità (fig. 10) del palazzo del marchese Vincenzo Giustiniani a Bassano Romano (1610), memorabile cantiere decorativo che vide Paolo attivo assieme a importanti maestri del calibro di Bernardo Castello, Domenichino, Francesco Albani e Antonio Tempesta[19].
La tavola Barberini, degna della miglior vena del “maitre fou” stigmatizzato da Mariette, dà voce a un espressionismo altrettanto visionario, «angosciosissimo e tetro come un’apparizione allucinatoria» (Faldi). L’artista, ancora legato a stilemi tardomanieristici, si avvale nuovamente di contrasti luministici d’impronta caravaggesca con una rappresentazione tutta giocata in primo piano, col Cristo che schiaccia la morte, il diavolo e il peccato dei progenitori. La ricercata iconografia – di derivazione ligozziana e forse frutto di una precisa richiesta dei Barberini – indusse l’artista ad apporre una solenne firma sul retro dell’opera (fig. 11), di recente acquisita dal museo di Minneapolis: in essa si fa riferimento all’anno 1621 e alla prestigiosa onorificenza equestre del pittore risalente al 1608, al tempo di Paolo V Borghese, quando il cardinal Scipione gli aveva persino concesso di usare il proprio cognome.
Yuri PRIMAROSA Maggio 2023
NOTE