di Giuseppe RESCA
Cap. VII
1598 -99. Fillide
Nel biennio che precede la fine del secolo, Caravaggio subisce una mutazione, una delle tante che ritroviamo nel corso del suo processo creativo, che segue di pari passo le vicende della sua vita, soprattutto di quella interiore.
La domanda è la solita: è il processo creativo dell’artista che gli indirizza la vita o la personalità omicida dell’uomo che lo rende artista sui generis?
Ma forse è una domanda oziosa, dato che le due cose sono talmente inestricabili, che si può iniziare tranquillamente dall’una o dall’altra, a seconda che ci guidino le opere o i documenti.
In quel biennio Caravaggio dipinge tre opere capitali, che già agli occhi dei cronisti dell’epoca paiono rompere i canoni del suo stile primigenio: quello dolce e chiaro delle nature morte, dei madrigali, dell’amor casto per Lena.
Esse sono Marta e Maria, Santa Caterina d’Alessandria e Giuditta e Oloferne. Come si vede sono tutti quadri a soggetto donna, e l’unico antecedente era la Maddalena Doria. Non solo: la protagonista è sempre la stessa. Sappiamo oggi che si tratta di Fillide, una prostituta d’alto bordo, all’anagrafe registrata come Fillide Melandroni.
Di lei per fortuna abbiamo molte notizie, perché le cronache dell’epoca sono piene di riferimenti, che la vedono imputata in processi, in risse di strada, in amori carnali ben poco sentimentali. E, soprattutto, in una carriera mondana senza rivali. Ma quello che ci interessa è il modo in cui la ritrae Caravaggio, nelle vesti dei suoi tre personaggi. Che è anche il modo, si presume, che meglio descrive la sua interazione con lei.
O sarebbe più opportuno parlare di relazione? I documenti al proposito non fanno chiarezza: Caravaggio non compare mai nelle cronache che la riguardano. Eppure, tra i due qualcosa di intimo doveva pur esserci, se le stesse cronache la vedono prostituirsi sotto la protezione di un tal Ranuccio Tomassoni di Terni, che guarda caso è la stessa persona che Caravaggio sfiderà in duello, finendo con l’ammazzarlo.
E la vedono anche imputata nel processo intentato a lei e alla complice Tellia Brunora dalla collega Prudenzia Zacchia, che l’accusa di averla voluta sfregiare avendola trovata a letto con lo stesso Ranuccio che, evidentemente, si faceva pagare anche in natura. E il riferimento è importante perché lega il delitto a un quadro di Caravaggio, e non alle cronache della sua vita: la Giuditta che decapita Oloferne, a soggetto Fillide e la complice Abra.
Giuditta e Fillide sono la stessa persona non solo perché interpretano lo stesso personaggio, ma perché incarnano lo stesso delitto: sfregio disonorante, mortale o meno che sia. Le cronache sono impietose al riguardo, comportando fior fiore di testimoni che l’avevano veduta scatenarsi sulla rivale, ferendola alla mano che cercava di difendere il volto.
Ma il quadro stesso è ancora più esplicito riguardo alle pulsioni che Caravaggio nutre per lei: sotto la stupenda camicia che indossa, il bianco vestito nuziale, protrudono i capezzoli eretti del suo seno. E sembrano pulsare all’unisono con i desideri reconditi dello spettatore.
Non vi è scena più trucida, e al contempo perversa, nella storia della pittura. Sarà in seguito imitata da mille seguaci, tutti affascinati dalla sua ferocia, quasi voyeuristi incalliti in forma sado-masochista. Ma nessuno di loro otterrà gli stessi effetti scenici, e lo stesso successo di Caravaggio: lui era lì davvero, al fianco di lei, a guardare, attraverso gli occhi magnetizzati di Abra, il sangue che fiotta. E non si fece mancare nulla, nella sua fantasia omicida: era già allora Ranuccio il nemico giurato?
Ciò significherebbe che Caravaggio ha virato verso un amore perverso. Il tenero sentimento per Elena, la Maddalena di un tempo remoto (1595), era forse svanito già al tempo del Riposo al ritorno dalla Fuga in Egitto (1597): nei due quadri figura la stessa modella, una fanciulla dai capelli rossi, che sogna.
La stessa fa ancora capolino nella figura di Marta, in Marta e Maddalena (1598), in cui fa gesto di convincere (supplicare?) Fillide a cambiare vita (o mestiere?). Ma è personaggio secondario nel quadro, proprio per il viso avvolto nell’ombra, che ne oscura i lineamenti annegati nel ricordo. Ed è surclassata dall’imponente presenza di Fillide, che si erge in piena luce, e ne ha preso il posto proprio nello stesso atelier di Caravaggio (ne fa fede lo specchio convesso, lo stesso che appare nell’elenco dei beni sequestrati al pittore nel 1605).
Se questa passione per Fillide è il nuovo sentimento che alberga nell’animo di Caravaggio, dobbiamo dire che si tratta di amore possessivo, che non è esattamente la forma rispettabile di amore, inteso come un sentimento di appartenenza reciproca. E dobbiamo inferire da ciò che, parallelamente alla gelosia, alla spinta vendicativa e alla perversione, anche la ferocia sia cresciuta nell’animo del pittore, come testimoniano le frequenti esplosioni di atti violenti che si registrano.
Ma al contempo osserviamo che tali pulsioni comportano perlopiù il ricorso a fantasie sadiche, che si materializzano in quadri (la Giuditta su tutti), ma non ancora in azioni omicide. E questo è il percorso che caratterizza normalmente tali forme patologiche di personalità, prima che passino all’atto (e Caravaggio non è diverso sotto questo aspetto umano). Però, nella serie di quadri che vanno dalla Maddalena Doria alla Giuditta Barberini si legge, coerente, il percorso che Amore detta alla sua personalità di uomo.
Ma come si trascrive questo fattore nel suo processo creativo di artista ? Attraverso una serie di soluzioni pittoriche che contraddistinguono, in questi quadri, le novità instauratesi nell’animo di Caravaggio. Novità che furono registrate immediatamente dagli stessi contemporanei, interessati alla tecnica innovativa.
Il Bellori riferisce:
“La prima maniera dolce e pura di colorire fu la megliore…Ma egli trascorse poi nell’altra oscura, tiratovi dal proprio temperamento, come ne’ costumi ancora era torbido e contenzioso”.
Per meglio sottolineare questa maniera oscura, il pittore sostituì alla preparazione chiara della tela un’imprimitura scura, che gli procurava molti vantaggi. Dirà Bellori: “Lasciò in mezze tinte l’imprimitura della tela” procurando l’effetto di dar respiro alle figure, che si stagliano con evidenza dalla mestica del fondo. Inoltre, con tale artifizio egli poteva modificare a suo piacimento le figure, senza l’imbarazzo di dover ridipingere i fondi (semplificazione); e i colori di queste prendevano corpo, nel contrasto delle materie d’uso (alta definizione).
Ma la novità tecnica più rilevante riguardò la luce. Egli impiega un’illuminazione dall’alto, anziché trasversale (come ben si vede nel riflesso della finestra, che scende dall’alto sullo scudo convesso in Marta e Maria), risolvendo in tal modo, in un illusionistico moto ascensionale, la staticità di figure in posa.
Occorreva ora perfezionare il metodo per drammatizzare le sue composizioni, che si facevano via via più spaventose al seguito delle sue pulsioni. Tra queste anche l’Amore, diventato perverso per Caravaggio, come lascia intendere lo sguardo complice di Fillide, che osserva le reazioni del pittore mentre la ritrae nella Santa Caterina. Ella indossa costumi regali e carezza il filo della spada con fare allusivo, come a sottintendere un sottile gioco erotico abituale tra i due.
I critici d’arte sostengono che vestire i personaggi dei quadri con costumi moderni valesse ad attualizzare la Storia Sacra, e a renderla più familiare al pubblico. Concordo, ma non in questo caso. Perché è evidente che i costumi regali che Fillide indossa, il cuscino di rosso broccato su cui si inginocchia e le punte acuminate che la minacciano, non alludono affatto all’intervento divino di spezzare la ruota del martirio, ma al fulmine orgiastico della passione del suo prediletto pittore.
Una passione contagiosa che non lascia scampo, a tutt’oggi, a chiunque si lasci coinvolgere, al sublime spettacolo di queste due eroine che non perdonano, in Amore e Morte.
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Cap. VIII
1600. L’anno dei torbidi
Se non è certo che immutabile sia il destino di un uomo, per Caravaggio il 1600 è comunque un anno fatidico.
Succede di tutto: il Giubileo, l’alluvione del Tevere, le esecuzioni a morte di Beatrice Cenci e Giordano Bruno, la chiamata a dipingere i laterali in San Luigi dei Francesi, prima opera pubblica del pittore.
Ma, soprattutto, la questione del cavalierato: quel titolo di Cavaliere che Caravaggio ambisce per sé. E che invece proprio in quell’anno viene attribuito all’Arpino, suo nemico giurato, che diventa perciò il Cavalier d’Arpino, alla faccia degli invidiosi.
Ma andiamo con ordine. Ciascuno di quegli eventi influenza la psiche del pittore, e ciascuno induce mutamenti nel suo processo creativo. Se ne è già parlato diffusamente in Caravaggio profiling, ma è giusto qui ricordare almeno uno di essi. Le rappresentazioni giubilari della Passione di Cristo, che avvengono in notturna, insegnano a Caravaggio quale prodigioso effetto drammatico producano nello spettatore la notte, la luce, il teatro vivente, ma, soprattutto, la folla: quel corpo mutevole che si aggrega o dilata come uno stormo di storni, guidato dall’impercettibile caso.
La scoperta gli serve molto al momento. Fino ad allora aveva dipinto solo un massimo di quattro figure per quadro, e la rappresentazione del movimento non era certo il suo forte.
Ma il Cardinal Del Monte conosce bene la straordinaria capacità del pittore di adattarsi al contesto: non aveva dipinto per lui addirittura il suono dei madrigali? Per questo gli fa ottenere la commissione in San Luigi dei Francesi; anche perché lui abita proprio lì di fronte, in Palazzo Madama.
Ma oltre al fatto che Caravaggio è del tutto impreparato, anche la commissione appare impossibile: erano passati già quarant’anni senza che nessuno fosse riuscito non solo a portarla a termine, ma quasi a metterci mano. Le direttive per l’esecuzione erano state fissate inderogabilmente dal Cardinal Mathieu Cointrel, Matteo Contarelli appunto, nel lontano 1565, che aveva stanziato una somma enorme per comprare e decorare la Cappella in cui sarebbe stato sepolto. Somma che in parte ogni anno veniva devoluta ai titolari della Chiesa, col compito di portare a buon fine l’impresa.
La prima difficoltà per Caravaggio è che non sapeva dipingere a fresco: e a Roma si usava così. Risolse il problema comprando due tele di enormi dimensioni, e preparandole nel modo corretto.
Ma la seconda poneva problemi formali inestricabili. Contarelli aveva concepito la maniera esatta in cui dovevano essere dipinte le scene, ambientazione e figure comprese. E lo aveva messo per iscritto, in un contratto esattamente dettagliato. Che figura avrebbe fatto il pittore se gli fosse stato contestato qualcosa? Il discredito pubblico, e la multa connessa, avrebbero mandato in rovina lui e la sua carriera.
È questa la vera ragione per cui portò alle lunghe l’impresa: dovette dipingere e ridipingere il Martirio più volte, cercando di essere fedele ai dettami del contratto, e cancellare ogni volta l’abbozzo con uno strato di nero. Le radiografie ci mostrano bene quali furono quei tentativi: le figure erano piccole, e i carnefici tre. Ma, soprattutto, la tecnica implicava l’uso di manichini per le figure, con un risultato di immobilità, inguardabile.
Nei mesi che trascorreva a ruminare soluzioni, Giuseppe Cesari, suo eterno rivale (esautorato oltretutto dalla decorazione della Cappella per inadempienza, e sostituito appunto da Caravaggio), aveva finito in un batter d’occhio l’Ascensione di Cristo nell’abside di Santa Maria Maggiore, dipinto ad affresco, e aveva ottenuto con ciò il titolo di Cavalier d’Arpino, di cui si fregiò da quell’anno col sussiego e l’alterigia che ci fanno intuire i suoi autoritratti.
Caravaggio, certamente rabbioso, si mise a dipingere accanitamente, senza più freni inibitori, facendo mascherare i lavori da teloni che ne celavano la progressione al pubblico. Ma quando furono scoperti, a lavoro finito, non ci fu sorpresa più grande, persino per chi abitava in quella Roma traboccante di meraviglie e bruttezze incomparabili. Caravaggio aveva trovato soluzioni ingegnose, pur restando fedele allo spirito del Vangelo, e persino al testo del Cardinale.
Costui intendeva commemorare il Santo che gli aveva dato il nome di battesimo, l’apostolo Matteo, tramite due quadri che ne proclamavano i due atti primari della sua vita: l’incontro con Cristo e il martirio.
Per quel che concerne il Martirio, aveva scritto:
“…nel quale (quadro) sia depinto un luogo lungo et largo quasi in forma di tempio et nella parte di sopra un altare in isola elevato con tre o quattro cinque più o meno gradi: ove San Matteo celebrando la Messa vestito in quel modo che poi si dirà da intendere sia ammazzato da una mano di soldati et si crede sarà più secondo l’arte farlo nell’atto dell’ammazzare pero che abbi ricevuta qualche ferita et già sia cascato o in atto di cadere ma non ancora morto et nel detto tempo sia moltitudine d’huomini et donne giovani vecchi putti et d’ogni altra sorte in oratione per la maggior parte et seconda le qualità loro et nobilta vestiti et sopra banche et tappeti et altri apparati, e per il più spaventati dal caso mostrando in altri sdegno in altri compassione.”
La straordinaria immaginazione di Caravaggio lo porta alla soluzione incontestabile. Nella prima composizione abortita, il santo martire è ucciso da una torma di soldati mentre recita messa, e l’ambiente è una chiesa, con altare e gradini.
Ma la prerogativa del santo è convertire i pagani: e molti l’hanno seguito nella fede, a partire dal Re e dalla figlia. Perciò ritiene legittimo rappresentarlo proprio mentre battezza; e il battesimo di rito Ambrosiano avviene per immersione. I personaggi nudi del primo piano sono evidentemente dei battezzandi, seduti sopra i gradoni della vasca battesimale. E lo stesso carnefice (ne basta uno, che si è nascosto tra gli altri) è nudo, perché deve sostenere la sua mimetizzazione di battezzando. L’interno di chiesa e l’altare sono sostituibili con il battistero. Tutto il resto procede come prescritto dal Cardinale: la folla, la ressa, quelli che scappano e quelli che mostrano rimostranza; il santo ferito (la pianeta sporca di sangue) riverso a terra ad attendere il colpo mortale; il gigante pagano che non si perita di dargli il colpo di grazia.
Tra quelli che fuggono appare il volto di Caravaggio, che, turbato, riguarda la scena. E questo è il primo degli autoritratti che puntualmente il pittore inserirà nelle scene di storia che dipingerà d’ora in poi. Con una caratteristica comune: tutti quanti avranno a soggetto la testa di Caravaggio o il suo volto, ma mai lui a mezza figura (come nel Bacchino malato).
La cosa non è sorprendente, considerando il suo processo creativo: Caravaggio non dipinge più le cose che vede, ma vede solo ciò che intuisce. E dove risiede l’intuizione, se non nella testa?
Il Martirio è dunque il primo quadro in cui Caravaggio dipinge quello che pensa, oltrepassando quello che osserva. E da questo momento comincia una seconda fase del suo processo creativo, in una con la svolta omicida della sua personalità.
Giuseppe RESCA Roma Maggio 2023