di Chiara GRAZIANI
Prima fu ordinata la Corona, solo anni dopo arrivò anche il regno.
Nel 1732, anno in cui per Carlos de Borbon Y Farnesio, figlio della regina italiana di Spagna, si preparava al massimo un futuro da Granduca di Toscana grazie agli intrighi materni e al peso del trono di Madrid, i migliori tagliatori di diamanti di Firenze ebbero la commissione di un diadema regale che era una profezia. Carlo sarà re.
L’aveva scritto in ogni dettaglio, la corona commissionata ad un orafo francese perchè fosse la più bella d’Europa; lo diceva la scelta dei simboli dinastici e di quelli dell’investitura divina, lo proclamava la sovrumana ricchezza esibita in una costellazione di diamanti bianchi, trecentosessantuno, con al centro un sole viola da 42 carati, proveniente dalle miniere fluviali indiane di Golgonda; uno dei diamanti più grandi dell’epoca. Neppure una perla od un rubino furono adoperati per completare, avvilendola, l’impalcatura d’oro a sei bracci dove solo la superbia del diamante doveva regnare.
Alla fine la corona annunciava, e le corti europee ne capivano fin troppo bene il linguaggio, il diritto di Carlo al trono. Diritto di sangue, diritto divino, diritto della forza. Carlo sarà re.
Il fatto che il giovane Borbone, infante di Spagna ma figlio di seconda moglie, fra il 1731 ed il 1732 fosse solo un cadetto destinato alla Toscana o a Parma – sempre fosse riuscito a far valere il diritto materno di Elisabetta Farnese che nella linea di successione spagnola l’aveva partorito appena terzo – non sembrava preso in considerazione.
Un milione e duecentomila pezze fiorentine, tanto la corona costò ad Elisabetta Farnese che la volle e la pagò con le sue vastissime risorse personali.
Una cifra colossale che non rende ancora l’idea dello sforzo della regina italiana (per tacere di quello della duchessa Sofia Dorotea, nonna di Carlo) perchè la corona diventasse il talismano per il potere del suo primogenito. Non bastarono i 361 diamanti che alla fine, furono selezionati e tagliati in proporzione, occorreva infatti poter scegliere fra più gemme ed i maestri tagliatori fiorentini ne valutarono, scartando e scegliendo, migliaia di grezze per migliaia di carati complessivi. L’impalcatura del diadema richiese alla fine, un totale di 780 carati di diamanti bianchi a taglio Mazzarino, scelti fior da fiore. Uno sciupìo regale. A Livorno, nel frattempo, si studiava anche il taglio per un gigantesco diamante grezzo che apparteneva da due generazioni ai Farnese. Taglio a faccette, scenografico ma esigente nel sacrificio di materia grezza, oppure taglio quadrato, meno teatrale ma alla fine più imponente. Da Livorno il gioiellere Duggot, curatore del tesoro italiano ereditato dalla sovrana – fra la più ricche collezioni di gemme in Europa – aggiornava Elisabetta con modelli in gesso su proporzioni ed impatto della pietra a seconda di come sarebbe stata lavorata. Oggi si direbbe i rendering, la proiezione del lavoro finito.
Ed Elisabetta scelse, alla fine, (era il mese di aprile del 1732) il taglio quadrato, per preservare le dimensioni della pietra; e, avendola scoperta rosa una volta uscita dalle mani dei maestri veneziani, (siamo all’11 luglio) volle anche che ne fosse modificato il colore, con le tecniche che a Firenze aveva inventato e insegnato il Cellini. Da rosa la pietra, portata nel frattempo a Firenze, divenne così viola, per farla sorgere – ipnotica per contrasto – al centro dei 361 satelliti bianchi. Nel baricentro della mappa dei simboli regali – il giglio di Francia, il globo della terra sormontato dalla Croce di brillanti – il grande Viola (“viola perfetto” disse l‘Imbert) era un messaggio nel messaggio: “Noi siamo i Farnese”.
Il potere ha una storia, come tutti i fenomeni umani in evoluzione. Scoprire di che materia psicologica e spirituale siano fatti i suoi simboli, aiuta gli uomini a tenere gli occhi aperti davanti al loro potere ipnotico.
La Corona di Carlo (che inanellò alla fine non uno o due, ma tre troni, con Indie e Gerusalemme per soprannumero) racconta un pezzetto nascosto di quella storia, riemersa oggi da un documento rinvenuto cinque anni fa nell’archivio di Stato di Napoli. Si tratta dei disegni della Corona, firmata Claudio Imbert, l’orafo che, con un discreto egoismo, si attribuisce la fattura dell’opera intera che richiese, al contrario, talenti vari e manodopera come una piccola fabbrica del Duomo.
E’ stato il riemergere di un’araba fenice. La corona, infatti, era scomparsa, durante (o dopo, non si sa) la tragica fuga da Napoli di Ferdinando, figlio di Carlo, incalzato a nord dalla calata dei francesi, scortato verso sud nella fuga via mare dagli inglesi che, di fatto, ebbero in balìa per giorni lui, la sua famiglia, e le sostanze che era riuscito (o credeva essere riuscito) a portare con sé a Palermo.
Dopo quel tragico viaggio – dal 21 al 26 dicembre 1798 – al quale non sopravvisse il principino Alberto, sei anni, colto dalle convulsioni in mezzo ad una tempesta che costò anche l’albero maestro della britannica Vanguard, della corona profetica non si seppe più nulla. E, apparentemente, nessuno si curò di reclamarla o di contestarne la mancanza a chi se n’era occupato. Come se avesse servito un solo re, quello per il quale era stata progettata, e poi si fosse eclissata. Eppure, si è visto, non era un oggetto da poco, la corona delle Due Sicilie. Scomparve e, quel che sembra incredibile, non fu neppure cercata. La voce di un naufragio di una nave inglese, nella flotta di Nelson che scortava il re, non è suffragata da nessuna notizia storica affidabile.
L’eclissi della corona è rimasta un enigma. La carta dell’archivio di Stato di Napoli l’ha risvegliato. Ed ha ispirato l’impresa di ricostruire l’oggetto con tecniche antiche e moderne (come il computer) per vedere, davvero, come fosse fatto. Una seconda nascita della corona che, vedremo, ha evocato per giornalisti ed esperti accorsi al suo nuovo debutto in società il 12 maggio a Napoli al grande Archivio, uno scenario storico, quello dell’avvento dei Borbone di Napoli, che ha ancora tanto da rivelare.
Della corona scomparsa non c’era una rappresentazione precisa (a parte le raffigurazioni simboliche in alcuni quadri come il ritratto di Maria Amalia di Sassonia, opera di Giuseppe Bonito, conservato al Prado di Madrid e la riproduzione sopra l’arco scenico del San Carlo);
si sapeva che Carlo l’aveva cinta a Palermo, in cattedrale dopo aver “virilmente” sciabolato l’aria con la spada tempestata di brillanti appartenuta al bisnonno Luigi XIV. Si sapeva che se n’erano perse le tracce dall’avventurosa fuga da Napoli. Se ne sottovalutava il ruolo, da protagonista verrebbe da dire, dell’ascesa di Carlo. Ruolo che l’oggetto ricostruito e presentato alla stampa racconta con la vivezza di un documento di prima mano. Il racconto di come si costruiscano un re e la sua legittimità “naturale”.
Oggi possiamo dire, con discreta certezza, che la Corona delle Due Sicilie fu pensata e commissionata molto prima che il giovane rampollo Borbone Farnese ne avesse bisogno per qualsivoglia cerimonia ipotizzabile. Indicando, dunque, o la sfacciata determinazione della regina di Spagna di trascinare il figlio verso l’alto oppure l’esistenza di una diplomazia segreta che, nello scenario della redistribuzione dei poteri in corso in Europa, aveva sancito qualche accordo da onorare. O, magari, testimonia di tutte e due le cose. Facendo di quella corona una profezia ma soprattutto un promemoria per chi ne intendeva il linguaggio. Carlo sarà re, i Farnese avranno un trono.
La precocità della commissione, a ben vedere, indica che le ambizioni materne di Elisabetta passavano, sì, da Napoli ma puntavano da subito fino alla Sicilia. Il 10 maggio 1734, infatti, quando Carlo entrò a Napoli da porta Capuana, divenne Rex Neapolis previa visita, ed approvazione prodigiosa, di San Gennaro e del suo popolo in Duomo. Notoriamente non c’era bisogno di una corona per l’intronizzazione a Napoli. Bastava il levarsi di un drappo il “levantamiento”.
E viene alla mente quanto accade ancora oggi quando il presidente della deputazione di San Gennaro annuncia il ripetersi del prodigio del sangue levando per il popolo una lunga, appariscente, sciarpa bianca. Fu San Gennaro in Duomo a dire sì a Carlo, al quale la madre – ancora lei – aveva fornito una meravigliosa croce di rubini e brillanti che l’aspirante re, con reverenza, offrì umilmente al Patrono suscitando l’approvazione degli astanti (ed il ripetersi del prodigio della liquefazione). La corona delle Due Sicilie, invece, mentre l’esercito spagnolo dilagava a sud, attese ancora un anno per entrare in scena. Palermo non ha San Gennaro a rappresentarla davanti a Dio senza neppure l’intermediazione della Chiesa (unico caso di Santo in rapporto diretto con il popolo che l’ha scelto come Patrono ed avvocato con un vero e proprio contratto notarile).
La corona doveva dimostrare il diritto naturale di Carlo e, dunque, prese parte ad una complessa coreografia ipnotica, precedendo il futuro re nella “cavalcata reale” che attraversò Palermo il 3 luglio del 1735 , all’esito di tre giorni di festa insonne, luminarie e ossessiva presenza, grazie anche a macchine piramidali sparse per ogni dove, dei ritratti dei 18 sovrani che avevano preceduto il nuovo arrivato. Anche la cattedrale dove approdò la “cavalcata”, era adornata da quei ritratti, “come vivi”, scrissero i cronisti dell’epoca. “Vivi”, testimoni, e lì a legittimare il Borbone.
Il corteo che lo scortava alla cattedrale, dopo una compagnia di alabardieri, era aperto dalla carrozza del principe di Butera Michele Branciforte, al quale spettava il compito di portare la corona. Una vera e propria ostensione. Il conte Filangieri seguiva in una seconda carrozza, portando la spada reale appartenuta a Luigi XIV. Una terza carrozza, “di rispetto”, con un tiro ad otto avanzava vuota introducendo il corteggio dei nobili. E dopo la guardia del corpo, infine, il re di Napoli, Carlo. Se a Napoli il padrone di casa era Gennaro, qui la vicenda fu più complessa: il Borbone fu accolto da ben tre vescovi, pubblicamente spogliato e rivestito di paramenti regali, rispogliato per l’unzione sul braccio e fra le spalle, cinto della spada reale (che vibrò “virilmente”) e, alla fine incoronato al canto del Te Deum, con i cannoni che sparavano tutti insieme alle nubi ad ogni passaggio saliente della cerimonia descritta. Una rappresentazione che, si direbbe a Napoli, lasciò tutti carichi di meraviglia e certi del diritto naturale al dominio sugli uomini rappresentato dalla corona, da quel momento delle Due Sicilie.
La Corona aveva fatto il suo dovere. Gli eserciti aprivano la strada nel sangue, la Corona la percorreva come prova che non di conquista violenta si trattava ma di un diritto che si ristabiliva. Il fatto che dovesse essere bellissima e ricchissima, come torna a mostrarcisi oggi, ricostruita in argento dorato, zirconi ed una grande ametista, era una necessità di scena. Pesava circa mezzo chilo (538 grammi), per consentire a Carlo di indossarla tutto il tempo che sarebbe stato necessario alla rappresentazione. In fondo di un accessorio teatrale, per quanto prezioso, si trattava. Il primattore, che recitava per il popolo, per la Chiesa, per le corti d’Europa, doveva arrivare fino al calar del sipario in disinvoltura. Sipario che da lì a 60 anni circa, calò anche sull’accessorio di scena. E sul favoloso diamante cemtrale che, per sua natura indistruttibile, oggi riposa probabilmente in adeguato e riservato caveau. O, meno probabilmente, in fondo al mare.
Immagini che tornano ricostruite, più complete, vivissime, grazie alle indagini nell’archivio di Stato di Napoli, diretto da Candida Carrino, grazie alla curiosità ed all’immaginazione di un grande esperto di gemme storiche, Ciro Paolillo professore di gemmologia investigativa alla Sapienza, grazie a anni di lavoro di un team di esperti informatici e di maestri orefici che hanno usato i disegni, estremamente precisi, per ricostruire con rigore una cosa il cui significato ci si rivela anche nel poter vedere, di nuovo, la cosa stessa.
Un’avventura che è ripercorsa nel libro “L’Enigma della Corona” che è un racconto corale guidato e curato dalla giornalista Anna Maria Barbato Ricci, con i contributi di Ugo Furia, esperto di storia dell’arte del Mezzogiorno, di Lorenzo Terzi, funzionario archivista dell’Archivio di Stato di Napoli, e – ovviamente – di Candida Carrino e Ciro Paolillo. (Gangemi editore).
Domani 19 giugno lo scrigno di velluto tornerà ad aprirsi per un pubblico di esperti, giornalisti e cultori della materia, al circolo canottieri Aniene di Roma, presenti i protagonisti dell’originale operazione storica ed il regista Enrico Vanzina. E si parlerà, ancora una volta, di un scenario storico settecentesco, italiano ed internazionale che ha molto da suggerire alla comprensione della contemporaneità. Il potere è (anche) scena, le sue armi sono i simboli, ai simboli si demanda il lavoro di rendere “naturale” quel che la forza espugna con la guerra e che costa sangue. Accadeva nel secolo decimo ottavo, ai tempi in cui una corona poteva creare un re.
Chiara GRAZIANI Roma 18 Giugno 2023