di Nica FIORI
Un aneddoto sul filosofo cinico Diogene racconta che una mattina egli si recò al mercato con una lanterna accesa. A chi gli chiese a cosa gli servisse quella lanterna accesa in pieno giorno, egli rispose: “Cerco l’uomo”.
Friedrich Nietzsche, riferendosi a quella celebre risposta, affermò a sua volta: “Prima di cercare l’uomo, bisogna aver trovato la lanterna”. Ed è proprio questa affermazione ad essere stata scelta come motto della mostra “Nuova luce da Pompei a Roma”, che ha avuto una prima sede espositiva a Monaco di Baviera ed è ora ospitata a Villa Caffarelli (Musei Capitolini), fino all’8 ottobre 2023.
Si tratta di un evento espositivo indubbiamente affascinante, che ci informa sul modo in cui gli antichi utilizzavano la luce artificiale e in parte ci restituisce le atmosfere delle case pompeiane, offrendo così una nuova prospettiva per la comprensione di tutti quegli ambiti di vita sociale e privata che non potevano fare a meno dell’illuminazione, quali conviti, feste, religione, erotismo.
La mostra, curata da Ruth Bielfeldt e Johannes Eber, porta a Roma ben 150 reperti originali in bronzo ritrovati nelle città vesuviane e custoditi presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) e il Parco Archeologico di Pompei (PAP): lucerne ad olio, candelabri, portalucerne nonché supporti per lucerne, torce, statue di lampadofori. Del resto nessuna città del mondo greco-romano ha conservato in così grande quantità manufatti legati all’illuminazione, sia in terracotta sia in bronzo (7-10 % del totale), materiale questo particolarmente prezioso e lavorato con grande sapienza artistica.
A questi reperti di lusso si aggiungono ora nell’ultima sala 30 oggetti, pure bronzei, provenienti dai magazzini comunali di Roma tra i quali, come ha evidenziato il Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali Claudio Parisi Presicce, sono particolarmente significativi una pompa idraulica e una fiaccola ritrovati nell’Excubitorium (posto di guardia) della VII coorte dei Vigiles a Trastevere. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’illuminazione e il fuoco (necessario per cucinare gli alimenti e per il riscaldamento) provocavano non di rado pericolosi incendi in ambienti dove il legno era largamente diffuso e, pertanto, la città aveva un suo corpo di vigilanza notturna con funzione antincendio, istituito da Augusto.
Nel corso della presentazione, l’ideatrice e curatrice della mostra Ruth Bielfeldt, docente di Archeologia classica alla Ludwig-Maximilian Universität di Monaco di Baviera, ha spiegato che ciò che vediamo è il risultato di un progetto di ricerca multidisciplinare, iniziato 7 anni fa, che affronta in maniera sistematica non solo l’estetica e la tecnologia, ma anche l’atmosfera della luce artificiale.
Gli oggetti in mostra, in quanto strumenti di vita quotidiana, hanno avuto per decenni, o anche secoli, poca visibilità, divenendo “un tesoro dimenticato nei magazzini” (tranne alcune eccezioni), mentre sono in realtà una fonte d’informazione ricchissima per ricostruire modi di vivere, ambienti, pensieri e immaginario di persone vissute in un lontano passato.
Pertanto, come ha sottolineato la Bielfeldt, sono stati al centro di una ricerca archeologica, di un’analisi metallurgica, di uno studio archivistico, di una ricostruzione architettonica e di una simulazione digitale, oltre che di tecniche scientifiche per studiare e misurare l’intensità della luce e la luminanza. L’obiettivo era quello di “trascendere il divario tra archeologia, storia delle idee e scienze naturali e digitali”.
Secondo la studiosa è assolutamente “nuova” la prospettiva concentrata sulla materialità della luce, tanto che
“invece di luce artificiale parliamo volentieri di arte della luce e di arte di plasmare la luce. Le lampade romane sperimentano con la luce, modulandola con le loro forme plastiche e le superfici metalliche. La luce così diventa materia visibile e articola immagini: i nostri esperimenti hanno mostrato lo spettacolare effetto scenografico delle lucerne figurate che danno vita a giochi di luce e ombra”.
Nella mostra possiamo anche entrare in una sala vuota, dove con un visore 3D possiamo percepire l’oscurità di un triclinio pompeiano (quello della casa di Giulio Polibio), ricostruito digitalmente, e accendere virtualmente delle lucerne che illuminano le pareti affrescate.
Del resto, come si capisce dal bel plastico della cosiddetta Casa del Poeta tragico, le domus pompeiane erano piuttosto buie. L’unica fonte di luce naturale era l’apertura nel soffitto dell’atrio (il compluvium, che convogliava l’acqua piovana nella vasca centrale, detta impluvium), che illuminava di riflesso solo gli ambienti comunicanti con l’atrio, mentre le stanze più esterne della casa (come i cubicula, ovvero le camere da letto) erano assolutamente buie anche in pieno giorno, essendo del tutto prive di finestre per garantire la privacy di chi ci viveva.
Per illuminare un ambiente come il triclinio, deputato alla cena conviviale, si arrivava ad avere un discreto numero di lucerne. Nella casa di Giulio Polibio ne sono state trovate 69, ma la maggior parte di esse erano in terracotta. Dagli studi archeologici è risultato che il combustibile usato a Pompei era l’olio d’oliva, mentre lo stoppino era costituito da fibre vegetali di piante mediterranee, come il lino, la canapa, il papiro.
Le lucerne consumavano olio in gran quantità: una lucerna a una sola fiamma consumava in un’ora tra i 9 e i 13 millilitri di olio d’oliva. La fiamma, a seconda della lunghezza e dello spessore dello stoppino, poteva arrivare a produrre al massimo 70 lumen. Molto poco, considerato che una lampadina elettrica da 60W ne produce ben 750. Oltretutto, mentre la lampadina illumina tutto lo spazio circostante, una fiamma emana luce soprattutto lateralmente, meno verso l’alto e quasi per nulla verso il basso. Per questo motivo, per poter svolgere alcune attività, gli antichi romani dovevano trovare la posizione e l’orientamento della lampada più idonei al loro scopo.
Sempre in funzione al tipo di luce che illuminava gli ambienti, a Pompei le pareti venivano affrescate utilizzando soprattutto forti tonalità di giallo e di rosso, che armonizzavano con la temperatura di colore della luce delle lucerne. Ed è per questo che nella mostra si è scelto il giallo come colore di fondo, certo ora più luminoso di come lo avrebbero percepito i pompeiani.
Alcuni reperti sono stati restaurati appositamente per la mostra e altri sono stati riprodotti dalla Fonderia d’arte San Gallo in scala 1:1, insieme a lastre di diverse leghe che si prestano a esperimenti tattili, per percepire le differenze nella levigatezza, oltre che nel colore. Particolarmente suggestiva è la lampada (ritrovata a Stabia nella Villa di Arianna nel 1761) con il suo supporto riflettente a forma di pipistrello, pure riprodotta dalla fonderia.
Peccato che accanto a queste riproduzioni non sia stato previsto un testo in Braille per i ciechi, che di norma si accompagna alle mostre di ultima generazione nei musei romani. E qui voglio ricordare la mostra Imago Augusti nei Mercati di Traiano, presentata dallo stesso Claudio Parisi Presicce qualche giorno fa, che prevede sia la lingua italiana dei segni (LIS) per i sordi, sia la scrittura in Braille per i non vedenti.
Ho trovato nel complesso interessanti i testi scritti che illustrano le varie sezioni (distribuite in 9 sale espositive), evidenziando il rapporto degli oggetti archeologici con alcune opere letterarie. Nella sezione Lucernae vivae, viene ricordato, in particolare, Aristofane, che nel Prologo della commedia Ecclesiazuse, si rivolge alla lucerna (Lychnos) paragonandola a un occhio fulgente. Del resto nell’antichità le lucerne venivano considerate oggetti dotati di vita propria e Aristofane caratterizza lo strumento di illuminazione come una divinità, un organismo, un animale e, soprattutto, come un fedele servitore che assiste l’uomo durante l’igiene personale, gli incontri erotici e altre faccende private.
Come spiegato nel pannello didattico, la lucerna veniva immaginata come antropomorfa o zoomorfa, con tanto di occhi e becco; tra gli animali troviamo delfini, oche, teste di gallo e il già citato pipistrello, utilizzato probabilmente per scandire il tempo notturno.
A portare in vita la lucerna provvedeva il fuoco, elemento che ha in sé qualcosa di animato, e infatti si muove continuamente, ha bisogno di nutrimento ed emette un suo suono.
Con la luce del fuoco, la lucerna ottiene metaforicamente anche il dono della vista. E la metafora occhio-luce caratterizzava all’epoca sia il linguaggio poetico, sia quello quotidiano.
Un altro testo letterario che è stato ricordato dalla curatrice è quello di Luciano di Samosata (II secolo d.C.) relativo alla città fantascientifica Lychnopolis, popolata da lampade, che si comportano come umani, giungendo a imporre una sorta di dittatura.
La fiamma possiede un potere magico e rituale e per questo era immancabile nelle feste religiose, che prevedevano fiaccolate, nei templi e nei larari domestici (i tempietti in onore dei protettori della casa), come nel caso del larario della Casa della Fortuna, dove troviamo, oltre ai Lari e alla dea titolare in bronzo, anche una lampada a forma di piede. Il corredo di statuette bronzee di questo larario è esposto per la prima volta nella sua integrità.
Una vetrina è dedicata ai tintinnabula, (sonagli) a forma di membro maschile eretto, che erano diffusi nelle tabernae per il loro presunto potere apotropaico e non di rado funzionavano anche come lampade.
Lucerne magiche, dionisiache ed erotiche evocano la sensualità della luce nelle cauponae (trattorie) e nei lupanari.
Oltre al noto Efebo a grandezza naturale della Casa dell’Efebo di Pompei, è in mostra una statuina portafiaccola di un fanciullo nudo con un berretto frigio, finora inedita, nonostante fosse stata scoperta nel 1818 nella casa-clinica del medico-ginecologo Pumponius Magonianus.
Molte altre lucerne ci incuriosiscono, tra cui quelle raffiguranti scimmie vestite come gladiatori e quella con un volto di africano (presumibilmente uno schiavo) che accompagnava due pompeiani in fuga.
Alcuni reperti sono definiti Capricci, perché mescolano elementi vegetali ad altri animali. Un “candelabro con sorpresa” è quello che presenta delle zampe di leone sostenute da ranocchi che gracidano a bocca aperta. Evidentemente era diffuso il gusto per il paradosso.
Grande spazio viene dedicato al convivio (parola che letteralmente indica il vivere insieme), ovvero il banchetto serale, che prevedeva nove convitati su tre letti, disposti in base allo status sociale. Un mosaico con la raffigurazione dei cibi che cadevano sul pavimento è stato associato a delle lucerne pure in forma di cibi. Queste lucerne venivano realizzate appositamente per divertire gli invitati in queste occasioni, accompagnavano le pietanze servite sui vassoi e venivano alla fine regalate agli ospiti. La lucerna a forma di mandorla è l’oggetto più piccolo presentato in questa mostra. Altre sono a forma di pollo arrosto e di chiocciola (helix pomatia), sia come corpo della lumaca sia come guscio.
Finita la festa, i topi si fiondavano sugli avanzi della cena, come pure sull’olio rancido delle lucerne. In alcune lucerne in bronzo è raffigurato un topolino che protende il musetto verso il becco. È bramoso di gustare l’olio, ma indietreggia spaventato alla vista del fuoco. In altre lucerne i topi se ne stanno, invece, sul coperchio. Per l’abbondante consumo di olio, anche le lucerne apparivano nell’immaginario collettivo come “ingorde”e “ubriacone”.
Per portare il chiarore delle lucerne ad altezza d’uomo si usavano i candelieri che, con i loro sostegni bronzei, arrivavano a misurare 120 – 150 centimetri, che corrispondevano all’incirca al livello dello sguardo di un romano medio.
Un candelabro tardo ellenistico, realizzato in bronzo policromo (aes corinthium) testimonia il particolare apprezzamento per questo materiale nel periodo tardo repubblicano in seguito alla conquista della Grecia. I romani facoltosi, come racconta Plinio nella sua Storia Naturale, con l’intento di mettere in guardia contro l’effetto disastroso dei beni di lusso importati dalla Grecia:
“non si vergognavano a comprare i candelabri anche per cifre pari al salario di un tribuno militare. A complemento di uno di questi preziosi candelieri, fu offerto a un’asta anche il deforme Clesippo; la matrona romana Gegania comperò il candeliere per 50.000 sesterzi. Ella mostrò il suo acquisto durante una cena e, quando il povero Clesippo fu costretto a denudarsi per far ridere la brigata, Gegania, in preda alla lussuria, se lo tirò nel letto e ben presto lo inserì nel suo testamento. […]. Quello però, essendo divenuto ricco, venerava quel candeliere come cosa divina.”
Se Clesippo era brutto, erano decisamente belli i giovani servi dalle fattezze apollinee raffigurati come portavivande, o portalampade, in un’inversione sociale che si addiceva indubbiamente all’aspetto ludico e artistico del convivio. Del resto la schiavitù non era certo definitiva e non di rado gli schiavi si facevano benvolere dai loro padroni e acquistavano la libertà. Il rapporto tra luce artificiale e servitù è espresso in mostra attraverso il cosiddetto “Apollo della Casa di Giulio Polibio”, una scultura di alta qualità della prima età imperiale, in stile arcaico, che assume la funzione di portavassoio. L’estetica, la funzione e la storia del ritrovamento di questa figura e degli altri reperti trovati a Pompei sono spiegati in una postazione multimediale con contenuti digitali interattivi.
Unsettore espositivo è dedicato alla riscoperta di utensili in bronzo pompeiani nel XVIII e XIX secolo. La sala offre sorprendenti risultati e spunti di riflessione sulla pratica del restauro creativo da parte della Fonderia Borbonica prima della musealizzazione dei reperti archeologici fra il 1750 e il 1820. È presentato, in particolare, un insieme di elementi ricomposto arbitrariamente, noto come Pasticcio di Winckelmann (in quanto descritto dal celebre archeologo nel 1761), che è stato recentemente restaurato.
Per mettere in relazione la creatività del passato con quella contemporanea sono state inserite all’interno del percorso espositivo alcune lampade disegnate dal light designer monacense Ingo Maurer (1932–2019). Le sue creazioni sono state definite poetiche, ludiche, bizzarre, e perfino kitsch, e testimoniano la vitalità di oggetti creati per fornire quella luce artificiale indispensabile nelle nostre case.
Nica FIORI Roma 9 Luglio 2023
“Nuova luce da Pompei a Roma”
Musei Capitolini – Villa Caffarelli, via di Villa Caffarelli, Roma
5 luglio-8 ottobre 2023
Orario: tutti i giorni ore 9,30-19,30
Info: tel. 060608, www.museicapitolini.org