di Sergio ROSSI
Non credo di esagerare scrivendo che per pochi testi l’aggettivo imprescindibile calzi a pennello come per il volume di Stefania Macioce Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1883. III edizione aggiornata, da poco uscita pei tipi dell’editore romano Ugo Bozzi.
E infatti chiunque voglia oggi scrivere qualcosa su Caravaggio (ma questo valeva già per la I^ edizione del 2003) non può assolutamente prescindere, appunto, da questo enorme regesto. Basti qualche numero: 746 pagine; 1100 documenti; un utilissimo riepilogo delle fonti dal van Mander del 1600-01 al Ticozzi del 1830; un non meno utile regesto dei principali inventari, dagli Aldobrandini, ai Vittrice ai Mattei, solo per citarne alcuni; circa 200 pagine di bibliografia aggiornatissima al 2021. Ma naturalmente non è solo una questione, pur importante, di semplici cifre. Quello che si fa apprezzare in questo compendio di oltre venti anni di dedizione e fatica sono anche l’equilibrio, la pacatezza, la sobrietà dell’autrice, direi anche la sua gentilezza, tutte qualità che chi conosce la Macioce sa essere peculiari anche della persona, non solo della studiosa.
Ecco, scrivere su Caravaggio con pacatezza e gentilezza, visto le passioni spesso incontrollate, gli scontri che sfiorano le risse, i partiti presi a prescindere, le faide accademiche che caratterizzano troppi studi, anche pregevoli, sul Merisi è quasi un miracolo che alla Macioce è perfettamente riuscito. Naturalmente non è che la studiosa non prenda posizione sulle questioni più controverse, ma lo fa appunto con equilibrio, tenendo conto di tutte le opinioni, non attribuendosi mai primogeniture che spettano ad altri, anzi forse a volte lasciando che altri si attribuiscano primogeniture che spetterebbero a lei.
Tanto per fare un esempio, che il primo documento attestante la presenza di Caravaggio a Roma risalga al 1597, anche sulla scorta delle fondamentali ricerche al riguardo di don Sandro Corradini e Maurizio Marini, puntualmente citati nel nostro libro, la Macioce lo aveva già pubblicato nel 2003 senza da questo trarre avventate conclusioni sull’effettiva data di arrivo del pittore nell’Urbe. Mi riferisco ad una istruttoria giudiziaria dell’11 luglio del 1597 in cui un certo Marco barbiere testimonia che un suo garzone di nome Pietro Paolo, in quel momento in prigione, gli aveva detto di aver ricevuto un ferraiolo (mantello a ruota) da un pittore di cui ora egli sostiene di non ricordare il nome ma che così puntualmente descrive:
«un giovinaccio grande di vinti o vinticinque con poco di barba negra grassotto con ciglia grosse et occhio negro non troppo bene in ordine che portava un paro di calzette negre un poco stracciate che porta li capelli grandi occhi dinanzi».
Anche se il barbiere finge per convenienza o omertà di non conoscere il nome del pittore in questione è evidente che si tratti di Caravaggio ed è dunque questa la prima volta che se ne conosce la descrizione precisa che poi corrisponde alla lettera a quella che sempre nella stessa data il summenzionato Pietropaolo fa del Merisi, che viene effettivamente chiamato col suo nome Michelangelo da Caravaggio e vien descritto
“di statura piccola de poca barbetta negra d’età de 25 o 28 anni…che al parlare tengo sia milanese, mettete lombardo, perché lui parla alla lombarda”;
interrogatorio pubblicato per la prima volta per intero nel volume Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, a cura di E. Lo Sardo, M. Di Sivio, O. Verdi, Roma 2011) che integra, ma non ribalta assolutamente, quello già reso noto dalla Macioce vent’anni prima.
Senza voler minimamente sminuire l’importanza di questo ritrovamento e di tutto il volume prima citato, che indubbiamente ricostruisce particolari e aspetti della vita del Merisi prima avvolti nella nebbia, faccio ancora fatica a comprendere, non l’entusiasmo del tutto lecito degli autori di questa scoperta, quanto la frettolosa accettazione di una gran parte della critica degli assunti che da questo documento si sono fatti derivare e cioè che esso comprovava che la data dell’arrivo a Roma del Caravaggio dovesse essere spostata al 1596. Infatti dall’interrogatorio di Pietropaolo si desume solo ciò che tutti già sapevamo e cioè che il Merisi fosse già a Roma nella data su indicata, ma non si desume assolutamente che egli non vi si trovasse già prima.
Del resto la stessa Macioce, molto più prudentemente e secondo me opportunamente, parlando degli esordi del nostro pittore osserva:
«Dei primi anni romani di Caravaggio si hanno notizie frammentarie, che gli studi recenti hanno riletto in modo più circostanziato. Si sa che abitò per un breve periodo in casa di monsignor Pandolfo Pucci ed è probabile che in altri momenti abbia preso alloggio in qualche locanda, ma soprattutto l’artista frequentava le botteghe dei pittori, dove non mancavano posizioni di forte antagonismo. L’ingresso nel prestigioso atelier del Cavalier d’Arpino può essere avvenuto nel corso del 1595 e, come rivelato da Zuccari, Merisi deve aver raggiunto un’indipendenza lavorativa già nel 1596».
Ora se, come attesta Giulio Mancini, il soggiorno presso Pandolfo Pucci durò “alcuni mesi” e se prima di entrare nell’atelier del Cavalier d’Arpino il Merisi può avere anche frequentato altre botteghe, cui accennano le fonti per altro spesso in contraddizione tra loro, allora spostare il suo arrivo definitivo nell’Urbe al 1594 mi pare del tutto plausibile. E anche la scoperta che la presenza di Caravaggio presso l’Accademia di S. Luca durante la cosiddetta “Cerimonia delle 48 ore” sia avvenuta nel 1597 e non nel 1594 o ’95, pubblicata da Antonella Pampalone in Una vita dal vero in realtà non dimostra assolutamente che il nostro non possa già aver frequentato la stessa Accademia negli anni precedenti.
Anzi, come scritto da Isabella Salvagni
«Il passaggio di Michelangelo Merisi in Accademia è forse labilmente rintracciabile nell’annotazione dell’introito dovuto, ma che non risulta essere stato pagato, nel relativo registro, riferito a una data imprecisata (forse compresa fra il 1581 e il 1604) e a un “Michele Milanese” nome che non sembra altrimenti corrispondere ad altri membri nelle congregazioni e nella documentazione superstite intorno a quella data».[1]
Peccato però che la studiosa omette di dire che tale presenza era già stata da me pubblicata più di dieci anni prima, attribuendosi quindi una scoperta, per quanto “labile”, che assolutamente non le compete. Ecco comunque il mio testo del 1996, per altro pubblicato in un volume sempre a cura della Macioce ed universalmente noto a tutti gli studiosi caravaggeschi[2], che non lascia dubbi in proposito: «Nel Libro degli introiti dell’Accademia di San Luca, dove venivano registrati i nomi di tutti i pittori che si erano immatricolati a Roma a partire dal 1554, ai fogli 97 e 98 recto si legge:
“Michele Milanese deve per il suo introito”; purtroppo manca poi però la data esatta di iscrizione e la somma da versare cosicché il Michele suddetto rimane per il momento uno dei tanti “pittori senza volta senza volto” della nostra storia artistica. Ciò non deve comunque stupire, perché in tutta questa sua ultima parte il volume accademico è particolarmente confuso, con oscillazioni e accavallamenti di date che vanno addirittura dal 1581 al 1604».
Come si vede quasi le stesse identiche parole.
Ma non è questo il punto. “Il Michele Milanese” che io per primo ho accostato, sia pure con tutti i dubbi del caso e in via solo ipotetica al Caravaggio, è poi completamente scomparso dalla storiografia successiva, con le sole eccezioni della Salvagni, che per altro mi copia alla lettera senza citarmi, e del già citato testo della Pampalone che invece sostiene che il “Michele milanese” debba essere identificato con un tale Michele Angelo Ringhieri artista sconosciuto ai repertori e forse originario dell’Italia settentrionale, membro di S. Luca, citato nella seduta del 31 ottobre 1593 e in quella del 26 dicembre 1594[3]. Però la Pampalone non adduce in effetti nessuna prova che tale Michele Angelo Ringhieri “forse di origine settentrionale” citato nel 1593 e ’94 possa essere lo stesso Michele Milanese individuato da me molti anni prima, per cui il dubbio, sia pure molto ipotetico, che quest’ultimo possa invece essere Caravaggio rimane, tanto più che sempre nell’interrogatorio di Pietro Paolo cui facevo prima riferimento, il garzone dice che
“questo pittore che me dette il ferraiolo si dimanda Michelangelo, che al parlare tengo sia milanese…mettete lombardo, perché parla alla lombarda”.
Come si vede “milanese” e “lombardo” nella Roma di quel tempo erano praticamente sinonimi.
Ma tutto il regesto della Macioce, specie nella parte relativa alla cronaca giudiziaria del tempo, che vede Caravaggio coinvolto, si potrebbe dire, un giorno sì e l’altro pure, si legge come un appassionante romanzo noir il cui protagonista, pervaso da un ego smisurato e mosso da impulsi che riusciva sempre meno a frenare, è costretto alla fine ad abbandonare quella Roma divenuta ormai più un palcoscenico delle sue bravate che il luogo dei suoi successi artistici in seguito ad un omicidio, quello del Tomassoni, che a posteriori risulta quasi come la conclusione inevitabile della sua “vita violenta”. E non è che poi in quello spasmodico peregrinare da Paliano a Napoli, da qui a Malta e poi alla Sicilia e ancora a Napoli le cose andranno molto meglio, fino all’epilogo definitivo in quel di Porto Ercole, dove, come registrerà il suo implacabile nemico Baglione, “morì malamente così come male aveva vissuto”.
Del resto l’ambiente che frequentava Caravaggio era quello proprio di tutti gli artisti del tempo, fatto di botteghe, osterie, cortigiane, garzoni compiacenti, ma era paradossalmente lo stesso ambiente frequentato da principi e cardinali, in un intreccio tra risse, contratti di prestigio, arresti, luoghi malfamati e residenze sontuose che forse solo la Roma di quegli anni sapeva offrire e dove la pittura del Merisi si è subito diffusa tra i giovani artisti, spesso provenienti dalle Fiandre, come “un veleno perniciosissimo” tanto per usare le parole del Bellori. Ed è probabilmente questo successo improvviso, oltre al carattere insopportabile, ad aver accelerato la fine tragica del nostro pittore. Era questa la Roma dove addirittura la congregazione di Propaganda Fide doveva raccomandare che durante i Giubilei del Seicento “i nobili peregrini” non venissero scandalizzati “dalle donne maritate che fanno le puttane, le meretrici che fanno l’amore in certe chiese come in S. Carlo al Corso, San Lorenzo in Lucina, Sant’Andrea delle Fratte e Madonna del Popolo”, proprio lo spicchio di città frequentato dal Nostro.
E a proposito del variegato mondo di cortigiane di lusso e meretrici di strada che spesso, e questo non sempre viene tenuto nella giusta considerazione, passavano da una condizione a un’altra con una velocità sorprendente, il testo della Macioce ci offre spunti di grande interesse. Partiamo da Fillide Melandroni, uno dei casi emblematici al riguardo, supposta amante del nostro pittore e sicuramente legata a Ranuccio Tomassoni, tanto da non poter escludere che sia stata lei, e non una semplice lite per un punto a pallacorda, il vero motivo del fatale duello del 1606. Ebbene la ragazza, nota alle cronache giudiziarie per il suo carattere violento fino alle aggressioni a mano armata alle rivali, il suo linguaggio non proprio oxfordiano (buggiarona, baldracca, puttana, alcune delle sue espressioni più gentili riportate dai documenti) viene accostata al nome del Caravaggio solo per il famoso ritratto fattole dall’artista e ora andato distrutto che lei risulta possedere ancora alla sua morte nel 1618: “Item dixit et declaravit se habere in eius domo unum quadrum seu retractum manu Michaelis Angeli de Caravagio quod spectat et pertinet ad ill. d. Iulium Strozzium propterea voluit illud eidem ill.re d. Iulio restitui et consignari”.
Dunque i due sicuramente si conoscevano, probabilmente avranno avuto anche una relazione al momento del ritratto o anche prima o dopo, ma in nessuno dei documenti pubblicati nel regesto di cui ci stiamo occupando vengono esplicitamente indicati come amanti. Cosa che invece accade in maniera inequivocabile alla famosa “Lena donna del Caravaggio che sta in piedi a piazza Navona”. Espressione che sappiamo ora, sempre grazie alla Macioce, che non significa che si prostituisse in piedi a piazza Navona ma che abitava ai piedi della piazza stessa.
Mi riferisco naturalmente alla oramai celeberrima denuncia presentata la sera del 29 luglio contro il pittore dal notaio Mariano Pasqualone, che asserisce di avere ricevuto una violenta botta alla testa “dalla banda di dietro”, “che credo sia stato un colpo di spada” che ancora provocava al denunciante fuoruscita di sangue. Pasqualone dice di non aver visto l’aggressore «ma io non ho da fare con altri che con detto Michelangelo, perché a queste sere passate havessimo parole sul Corso lui et io per causa d’una donna chiamata Lena che sta in piedi a piazza Navona passato il palazzo ovvero il portone del palazzo del signor Teofilo, che è donna di Michelangelo». Denuncia confermata dal funzionario apostolico Galeazzo Roccasecca che accompagnava quella sera il Pasqualone.
Ora se è evidente che questa Lena non era una giovane che si prostituiva per strada, è altrettanto evidente che non era nemmeno la “giovane onorata e di buona famiglia” che quel tipaccio del Merisi cerca invano di corrompere di cui favoleggia il Pascoli. Il termine “donna del Caravaggio” non lascia dubbio ad equivoci e significa nel linguaggio del tempo una cosa sola, cioè “amante”, che il pittore ha altrettanto indubitatamente usato come modella per la Madonna dei Pellegrini e per quella dei Palafrenieri. Ovviamente la reale identità di questa “donna” resta ancora da chiarire ed anche la sua identificazione con una certa Maddalena Antognetti resta ancora da comprovare, anche se non si la può escludere a priori per partito preso o per una incomprensibile pruderie, così come mi appare chiaro che lo scontro col Pasqualone sia avvenuto per gelosia e non per chissà quali altri improbabili motivi. E dunque aggiungiamo anche Lena oltre a Fillide tra le possibili concause del famoso duello col Tomassoni.
Ma il successo fulmineo di Caravaggio ed anche l’invidia da lui suscitata negli altri artisti non si potrebbe spiegare se il Merisi, non ostante il suo terribile carattere, non fosse stato protetto da alcuni dei personaggi più influenti del tempo, dal cardinale del Monte a Vittoria Colonna, marchesa di Caravaggio, di cui la Macioce ricostruisce con scrupolo e precisione tutti i rapporti da loro intrattenuti col nostro pittore. Così come molte notizie interessanti si desumono dal carteggio che Giulio Mancini, uno dei suoi primi biografi, intrattiene col fratello Deifobo, anche in relazione alle quotazioni altissime raggiunte ben presto dai quadri caravaggeschi. Questo per dire che lo scandaglio della Macioce risulta veramente a 360 gradi e non si esaurisce certo con la fuga del Merisi da Roma. Così come non si esauriscono i guai giudiziari del pittore fino al famoso arresto, con susseguente rocambolesca fuga, nell’isola di Malta e il suo sbarco in Sicilia.
A questo proposito la Macioce definisce fantasiosa l’ipotesi di un inseguimento del pittore da parte dei Cavalieri di Malta «poiché il pittore, ormai radiato dall’Ordine, non è più oggetto di alcun interesse. Le costituzioni dell’Ordine non prevedevano infatti la riammissione di un cavaliere affiliato, quando processato per alto tradimento. Inoltre in Sicilia Caravaggio continua a fregiarsi con orgoglio dell’ormai inesistente titolo di cavaliere, senza tuttavia incorrere in alcuna penalità o arresto in un territorio dove le rappresentanze dei cavalieri erano molte».
E siamo così giunti agli ultimi drammatici giorni di vita del Merisi, puntualmente ricostruiti dalla studiosa: «Una volta sbarcato a Palo, il pittore viene arrestato dal posto di guardia e poi rilasciato dietro cauzione…Da Palo, forse a piedi, Caravaggio raggiunge Porto Ercole dove lo coglie la morte. Non sappiamo quali fossero le vere intenzioni dell’artista, ma sono state avanzate alcune ipotesi. La più accreditata è che egli intendesse rientrare a Roma informato del prossimo accoglimento della domanda di grazia…Palo era un territorio al di fuori dallo Stato pontificio in quanto appartenente al ducato di Bracciano con una propria giurisdizione, governato verosimilmente da Virginio Orsini legato da rapporti di parentela con la marchesa di Caravaggio. A tale riguardo è stata avanzata l’ipotesi che lo scalo laziale non fu per Caravaggio una scelta occasionale in quanto l’Orsini avrebbe indubbiamente concesso protezione al pittore. Nel dicembre del 1609, infatti, Giulio Mancini scrive al fratello Deifobo riferendo di un rientro dell’artista a Roma “sicurtato (ovvero in sicurezza) qui vicino. La causa della cattura potrebbe dunque non essere posta in relazione con il delitto commesso da Merisi a Roma, ma con un reato riconducibile alla resistenza a pubblico ufficiale o a un’ingiuria gratuita a una delle guardie portuali che impedirono il contatto dell’artista con Virginio Orsini, allora gravemente malato».
Come si vede Caravaggio non si smentisce nemmeno quasi al termine della sua vita, a testimonianza di un carattere ormai quasi fuori controllo ma che comunque non gli ha impedito di produrre fino all’ultimo istante sublimi capolavori. Egli ci ha lasciato così, attraverso i suoi quadri, una delle testimonianze più alte del suo essere contemporaneamente cattolico e peccatore, anzi per la precisione un peccatore alla continua ricerca della “grazia”, quella divina e quella umana[4]. E quest’ultima alla fine dal Pontefice gli era stata anche concessa, ma lo ha raggiunto insieme alla morte, come la Macioce ben ricostruisce nel suo volume.
Sergio ROSSI Roma 30 Luglio 2023
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