di Mario URSINO
La Pinacoteca Tosio Martinengo e la pittura a Brescia tutta da riscoprire
Dopo nove lunghi anni di chiusura per lavori di restauro, il 17 marzo u.s. è stata riaperta al pubblico a Brescia la Pinacoteca Tosio Martinengo, una delle più importanti raccolte d’arte della Lombardia che riunisce forse la maggiore quantità di opere di pittura di autori bresciani e della scuola, di cui, tra i più noti il Romanino, il Moretto, il Moroni e Savoldo, Ceresa e Cavagna, spicca l’artista settecentesco lombardo Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto (Milano 1698-1767) che Roberto Longhi ebbe a definire nel 1953 “genio realistico” nella famosa mostra I Pittori della realtà in Lombardia, tenutasi in quell’anno a Milano a Palazzo Reale. Le origini di codesta pinacoteca, ancora poco nota e non del tutto studiata (è questa una grande opportunità per giovani studiosi di Storia dell’Arte), risale alla collezione del Conte Paolo Tosio (1775-1842), nella quale confluì successivamente anche quella del Conte Leopardo Martinengo da Barca (1805-1884) che donò persino la biblioteca e il suo palazzo, sede attuale del museo civico bresciano [fig. 1].
L’importante riapertura è stata fatta coincidere con l’inaugurazione dell’interessante mostra Tiziano e la
pittura del Cinquecento tra Venezia e Brescia, curata da Francesco Frangi al Museo di Santa Giulia, che sarà visitabile fino al 1° luglio 2018. La mostra si incentra sulla presenza del Vecellio a Brescia con il famoso Polittico Averoldi, 1520-1522 [fig. 2] nella Collegiata dei Santi Nazario e Celso a Brescia, commissionato al Tiziano da Altobello Averoldi, nunzio apostolico presso la Serenissima; inoltre l’artista veneziano realizzò successivamente, negli anni sessanta del Cinquecento per il Salone della Loggia, le Allegorie di Brescia andate distrutte in un incendio nel 1575, di cui se ne conoscono copie [fig. 3] presenti in mostra.
Nel suo complesso la collezione Tosio Martinengo fu aperta al pubblico la prima volta nel 1908; nel corso del tempo si è continuata ad arricchire di ulteriori acquisti, lasciti, depositi e donazioni, quasi tutte a
documentare l’attività di artisti noti e poco noti, e una notevole quantità della pittura di artisti bresciani, o artisti lombardi e veneti che avevano lavorato a Brescia, per una committenza non più dell’alto collezionismo ecclesiastico e aristocratico, come a Venezia, ma per una nuova classe borghese che già con il Ghislandi (Fra’ Galgario), come col Moroni, ci ricorda il Longhi, ritraevano un
“mondo già più affollato, più vario. Nobili e nobilucci bergamaschi, giudici e parrucconi, servitori fedeli; dame di «maneggio»; spiantatissimi letterati […] ecclesiastici di ogni ordine e grado; e fino a artigiani, barbieri…”
Tutto questo si evince da un ponderoso catalogo, Pinacoteca Tosio Martinengo Catalogo delle opere Seicento Settecento, egregiamente curato da Marco Bona Castellotti ed Elena Lucchesi Ragni, con un apparato ricchissimo di schede bibliografiche di circa trecento opere, apparso per il tipi di Marsilio per il Comune di Brescia nel dicembre del 2011.
L’imponente catalogo delle opere del Seicento e Settecento è suddiviso in otto sezioni: Pittura a Brescia, Pittura lombarda e piemontese, Pittura veneta, Pittura genovese, Pittura emiliana e marchigiana, Pittura fiorentina e romana, Pittura napoletana, Pittura dell’Europa centrale e settentrionale, suddivisione che denota di per sé la ricchezza, la vastità e l’importanza della Pinacoteca Tosio Martinengo. In realtà l’intera collezione ammonta a circa novecento dipinti: “le sue raccolte comprendono opere che abbracciano sei secoli, dal Duecento al Settecento, escludendo quelle dell’Ottocento e del Novecento che costituiscono una collezione a sé stante” (cat. p. 13).
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Va ricordato quindi che la collezione può vantare opere più antiche, rinascimentali, per esempio troviamo famosissime opere del giovane Raffaello, il bellissimo Cristo benedicente, 1505-6 [fig. 4], già in collezione Tosio dal 1832, e il delizioso frammento di un angelo [fig. 5], che faceva parte di un grande polittico, Incoronazione di San Nicola da Tolentino, per la Chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello, detto anche Pala Baronci, dal nome del committente che nel 1500 ne aveva incaricato il pittore Evangelista da Pian di Meleto (1460ca-1549) allievo di Giovanni Santi, padre di Raffaello. Nella bottega di Evangelista perciò lavorava il giovanissimo Raffaello, autore di quell’angelo, e forse del disegno, che si trova a Lille [fig. 6], dell’intero progetto iconografico (Longhi, 1955), mentre in
antico era stato attribuito al pittore Timoteo Viti (1469-1523). La Pala Baronci nel 1789 venne gravemente danneggiata da un terremoto; si decise allora di sezionarla, per ritagliare le parti meglio conservate. Fino al 1849 i frammenti vennero tenuti in Vaticano, poi i diversi pezzi andarono dispersi; attualmente, oltre che a Brescia, essi si trovano al Museo di Capodimonte e al Louvre [figg. 7-8]. Il secondo angelo, quello del Louvre, fu rinvenuto negli Anni Ottanta, scoperto dalla studiosa Sylvie Béguin che ricostruì la storia dello smembrato polittico di Città di Castello (in “La revue du Louvre”, n. 2 del 1982).
Secondo Roberto Longhi: “… la partecipazione di Raffaello può ammettersi per il frammento dell’angelo, ora a Brescia, la qualità deteriore dei frammenti di Napoli non può addebitarsi che alla
presenza di Evangelista, documentato collaboratore dell’opera” (in “Paragone”, maggio 1955); dell’angelo del Louvre, Longhi non poteva averne notizia, essendo stato rinvenuto dopo la sua scomparsa).
Altra opera celeberrima della pinacoteca è Il Flautista, 1540ca. [fig. 9] di Giovanni Gerolamo Savoldo (1480-1540), che, come il Moroni, il Moretto e il Lotto “era uno dei pittori che, appena tollerati a Venezia, erano stati invece ricercatissimi a Bergamo, a Brescia, a Milano” (Longhi, 1953), e il bellissimo intenso Ritratto virile del Romanino (1484ca- !566) [fig. 10] artisti di indubbia formazione tizianesca.
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Ora, vale la pena di soffermarci sulla pittura a Brescia, che, come si è detto, è la prima delle otto sezioni dell’imponente catalogo, in cui si descrivono oltre cento opere di autori noti, poco noti, e ancora anonimi; vediamo che la sezione si apre con un dipinto del veneziano Jacopo Negretti, detto Palma il Giovane (1544-1628) con la grande pala Madonna con Bambino in gloria e i Santi Giovanni Battista, Bartolomeo e un Santo Vescovo (Agostino?), 1620-1623ca. “Questa impostazione è ripresa da Palma in quasi tutte le opere bresciane” (cfr. in cat. cit. F. Piazza, scheda n. 1, p. 25). Inoltre il Negretti risulta attivo a Brescia fino al 1627, anno in cui consegnò una tela per il Duomo Nuovo della città.
La sezione continua con opere dal bresciano Francesco Giugno al più noto Giuseppe Nuvolone a Francesco Paglia con le sue quattro allegorie di gusto emiliano, ad Antonio Rasio, con le sue foltissime nature morte arcimboldesche. Troviamo poi diversi dipinti di Pieter Mulier detto il Cavalier Tempesta, alcuni già in collezione Tosio Martinengo; e l’Antonio Cifrondi (1656-1730) con diverse opere
sbalorditive, artista dal “temperamento estroso, bizzarro”; e notevoli esempi, tra quelli citati dal Longhi, sono Il Ciabattino, 1715 [fig. 11] (che aveva già fatto parte della raccolta Sciltian) o Il Mugnaio, 1720ca. [fig. 12] “incantevole, candido (quasi «Pierrot Lunaire»)”; continua il Longhi affermando che il Cifrondi “va prevedendo, o almeno auspicando, l’imminente apparizione del genio realistico di Jacopo Ceruti”.
Di Jacopo Ceruti, detto il Pitocchetto, la pinacoteca annovera ben 11 opere [fig. 13], di cui nove dalla famosa serie di 15 tele dei pitocchi, un tempo al Castello di Padernello (Brescia), e due ritratti, tutte di altissima qualità;
tra le più note della serie di Padernello, come si evince dalla vasta bibliografia riportata nel puntuale testo di Elena Lucchesi Ragni, è Lavandaia, 1720-25, [fig. 14]: “Con una ristretta gamma di colori dai toni smorzati sul fondo grigio-verde spicca il volto pallido, i grandi occhi cerchiati e le mani nodose della lavandaia che punta lo sguardo verso lo spettatore…”, scrive la studiosa. Ed è proprio vero che cattura immediatamente la nostra attenzione. Codesto capolavoro è entrato in pinacoteca nel 1914 per legato del collezionista Teodoro Filippini. Ancora del Ceruti mi piace segnalare Due poveri in un bosco (l’incontro nel bosco), 1730-35
[fig. 15], acquisito per deposito statale nel 1995, proveniente dalla collezione Fenaroli (1820), “Una straordinaria invenzione del Ceruti che non ha precedenti iconografici” (E. L. Ragni). Uno dei due mendicanti, forse storpio, fortemente espressivo, persino un po’ folle, nello spazio ben scandito del bosco, vede apparire stupito una figura di mendicante, una nana o una bambina, coperta di stracci. Una scena, tutto sommato, enigmatica di difficile interpretazione narrativa, dunque misteriosa, in largo anticipo, a mio avviso, sull’opera di un Goya, con i suoi mostri, sebbene il Ceruti non rappresenti mostri, ma coglie al naturale l’attimo in cui i suoi straccioni si volgono verso di noi, come in Due pitocchi, 1730-34ca. [fig. 16] (in Pinacoteca dal 1935, dalla collezione Brognoli), di potenza caravaggesca come qualità espressiva, ma diversamente dal Caravaggio in cui i soggetti non stabiliscono mai un dialogo con lo spettatore. Sempre secondo Longhi, l’opera del Ceruti è ”una sincera ripresa pittorica della vita feriale, non artefatta […] dello strato più misero dell’umanità […] «Ritratti», insomma, di uomini comuni e infelici, senza commento, ma grandi come il vero; grandi com’erano un tempo i quadri d’altare nelle chiese dell’antica religione; e dipinti colla stessa, antica fede (ma per nuovi argomenti)” (cfr. “Paragone”, maggio 1953, pp. 18-36) e Testori aggiunge “ritratti di censo”.
Il Pitocchetto, tuttavia, non dipinge solo straccioni e troviamo qui due splendidi ritratti di grande eleganza e intensità, quali il Ritratto di Marina Cattaneo, 1740-50ca. [fig. 17] e il Ritratto di giovane gentiluomo, 1760ca. [fig. 18], perfetta immagine dello stile raffinato e cortese del Settecento leggiadro, analogo a quello francese al tempo di Luigi XV.
Devo infine notare una speciale qualità del Ceruti rispetto ai molti artisti più sopra citati, presenti in questo importante catalogo, qualità che consiste, a mio avviso, nella euritmia nelle tele dell’artista, laddove prevale con molta chiarezza il senso della scansione spaziale nella quale colloca le sue figure, a grandezza naturale, dei pitocchi, diversamente dal Cifrondi, suo legittimo precedente, con le figure popolari che sono altrettanto espressive, ma occupano tutto lo spazio della tela e non guardano mai verso lo spettatore.
Mario URSINO Brescia aprile 2018