di Nica FIORI
Il Parco archeologico del Colosseo sta portando avanti negli ultimi anni importanti lavori di scavo, restauro e valorizzazione con l’intento di aprire quegli spazi precedentemente chiusi al pubblico.
A pochi mesi dall’apertura delle tabernae sulla via Nova, lo scorso 20 settembre 2023 è stata riaperta la Domus Tiberiana, la grandiosa residenza imperiale che dal colle Palatino si affaccia con le sue caratteristiche arcate sulla valle del Foro Romano. L’evento è di grandissima risonanza perché l’edificio era chiuso da quasi 50 anni, in seguito all’insorgere di gravi problemi statici.
Come ha evidenziato la direttrice del Parco Alfonsina Russo, grazie a questa riapertura viene ripristinata la circolarità dei percorsi tra Foro Romano e Palatino, attraverso la rampa di Domiziano a ovest, che connette direttamente la piazza del Foro (tra la basilica di Santa Maria Antiqua e l’oratorio dei Quaranta Martiri) con la residenza imperiale, e il clivo palatino a est, che porta al palazzo attraversando i giardini degli Horti Farnesiani. Il visitatore, che entra nel palazzo percorrendo la via Tecta (coperta), nota come Clivo della Vittoria, avrà così la percezione dell’antico tragitto percorso dall’imperatore e dalla corte per raggiungere la grandiosa residenza, che dal colle Palatino ha dato origine al moderno significato della parola “palazzo”.
Anche se il suo nome rimanda all’imperatore Tiberio (per via della sua presunta casa natale in quel luogo), le indagini archeologiche hanno dimostrato che le fondamenta del palazzo imperiale risalgono all’epoca di Nerone e precisamente a un momento successivo all’incendio del 64 d.C., ovvero agli stessi anni dell’edificazione della Domus Aurea, che era una villa privata dell’imperatore più che un palazzo pubblico. La scelta del Palatino per il primo imponente palazzo del potere imperiale era dovuta al desiderio di riallacciarsi alle origini di Roma, come già aveva fatto Augusto per la sua dimora, che era tuttavia di dimensioni modeste.
Successivi ampliamenti e trasformazioni della Domus Tiberiana si devono agli imperatori Domiziano e Adriano, e ulteriori restauri risalgono all’età severiana. Il palazzo imperiale ha continuato a vivere in età tardo-antica (divenne sede pontificia con Giovanni VII) e, dopo secoli di abbandono, venne in parte inglobato nelle affascinanti architetture degli Orti Farnesiani, la cui realizzazione, iniziata dal Vignola su incarico del cardinale Alessandro Farnese, risale alla seconda metà del ‘500. Oggetto di scavi ininterrotti e di restauri già a partire dal XIX secolo, la Domus Tiberiana era stata aperta alla pubblica fruizione dall’archeologo Pietro Rosa, che aveva previsto un vero e proprio museo diffuso all’interno dei palazzi imperiali.
Proprio pensando a quelle precedenti esperienze, dopo il suo restauro strutturale, il palazzo è stato arricchito in alcuni suoi ambienti interni con un allestimento espositivo chiamato Imago imperii, a cura di Alfonsina Russo, Maria Grazia Filetici, Martina Almonte e Fulvio Coletti, con l’intento di raccontare la storia del monumento nei secoli.
La prima statua marmorea che ci accoglie è quella di Pan, dio greco dei pascoli e delle selve identificato dai Romani con Silvanus. Verosimilmente doveva far parte dei giardini del palazzo collocati nel livello superiore (proprio come gli Horti rinascimentali voluti dai Farnese), giardini i cui soggetti prediletti erano proprio quelli legati al mondo agreste (fauni, satiri e ninfe) o dionisiaco. La statua frammentaria è costituita dal torso molto accurato, proveniente dai depositi del parco, e dalla testa che, dopo essere stata trafugata, è rientrata dagli USA in Italia grazie all’operato del Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale (TPC).
Proseguendo la visita, ci rendiamo conto che l’esposizione mette in luce anche ciò che risale a epoche precedenti al palazzo, e in particolare al quartiere residenziale di epoca tardo repubblicana e augustea, dando un’idea della vita che si svolgeva nell’area tra il II secolo a.C. e il I d.C. Dalle case sul Velabro (via di San Teodoro) provengono elementi architettonici, vasellame e strumenti domestici, tra cui i pesi inseriti nella ricostruzione di un telaio antico.
Sono pure esposti gli eccezionali resti di statue in terracotta rinvenuti negli scavi del versante settentrionale della Domus Tiberiana. Si tratta di copie di originali greci di età classica o rielaborazioni romane, assegnate a un’unica officina. La straordinaria finezza esecutiva ha suggerito di identificarle con i modelli realizzati dai maestri Pasiteles e Arkesilaos, originari della Magna Grecia e operanti a Roma tra l’età di Cesare e quella di Augusto (I sec. a.C.).
Un settore espositivo molto affascinante è quello dedicato ai culti misterici orientali e in particolare ai reperti relativi al culto di Iside e Serapide, provenienti da scavi del settore nord-est della Domus Tiberiana, per i quali si ipotizza la presenza di un sacello all’interno del palazzo, risalente all’età severiana. Su un timpano marmoreo in mostra è raffigurato su una barca costruita con fasci di papiro il giovane Arpocrate, figlio di Iside e Serapide. Sono esposti frammenti di rilievo con scene egittizzanti, un sistro, una bellissima testa di Serapide in alabastro e una serie di lucerne, tra cui appaiono molto particolari quelle raffiguranti le quattro divinità Iside, Serapide, Demetra ed Ermanubi.
Al culto di Mitra (di origine indo-iranica, ma diffusissimo a Roma e nell’impero romano tra il III e il IV secolo d.C.), fanno riferimento le sculture dei due tedofori Cautes e Cautopates, il primo con la torcia rivolta verso l’alto e l’altro con la torcia abbassata, simboleggianti l’aurora e il tramonto del sole, come pure i due equinozi.
Una tigre e altri reperti sono relativi al culto di Dioniso. Un altorilievo in marmo raffigura una testa di satiro anziano: vi si nota un forellino passante dietro la punta dell’orecchio che doveva probabilmente servire per fissare una corona di edera o di corimbi. Vi è un frammento della statua di un attore vestito da Papposileno (il vecchio satiro che aveva allevato Dioniso) e una grande riproduzione in marmo di una cista dionisiaca che conserva tracce di colore e di foglia d’oro che impreziosiva i bordi (I-II secolo d.C.).
Particolarmente lussuosi appaiono i frammenti di marmi bianchi e colorati (questi ultimi provenienti soprattutto dalle province orientali), tra cui pezzi di colonne, lesene e trabeazioni con fregi e cornici, che permettono di ricostruire il linguaggio decorativo del palazzo, con una particolare attenzione alla fase domizianea (81-96 d.C.). Entriamo, per così dire, nell’atelier del marmorario, maestro del decor e dello splendor, per ammirare il sapiente impiego dei preziosi materiali e i differenti trattamenti delle superfici per ottenere quei giochi di luce che aggiungevano magnificenza alle monumentali architetture. Il risultato finale era lo stupor, ovvero la meraviglia che provocava nei visitatori.
La maggior parte dei reperti in mostra sono collocati entro teche trasparenti che permettono di ammirare le murature degli ambienti, ma in qualche caso sono esposti senza teca in posizione scenografica, come nel caso della statua frammentaria di un giovane satiro in marmo pario collocata contro una delle aperture che si affacciano sul Foro Romano.
Anche due ali, pertinenti a due diverse statue di Vittoria, sono strategicamente appese in alto con sullo sfondo una delle arcate del palazzo, in un ambiente dove, tra una serie di teste marmoree esposte, si fa particolarmente notare la doppia erma raffigurante da un lato Dioniso con tratti arcaizzanti e dall’altro Apollo (II secolo d.C.).
Sul fronte opposto rispetto agli ambienti che si affacciano dal lato del Foro due sale multimediali ospitano un documentario e la ricostruzione olografica del monumento, mentre, attraversando la via Tecta ci imbattiamo nel cosiddetto Ponte di Caligola, in realtà un loggiato di epoca domizianea, che conserva ancora stucchi e pitture.
Nica FIORI Roma 24 Settembre 2023
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