“Il Contemporaneo di Andrea Emiliani”. Fino al 31 Ottobre (Sala delle Colonne Emil Banca via Mazzini, 152. BO)

di Beatrice BUSCAROLI

Andrea Emiliani. Lo sguardo dello storico sui turbamenti dell’arte contemporanea

«L’arte non cresce soltanto sull’arte; se non fosse anche incontro con la vita, come è sempre nei più veri artisti, essa ci consolerebbe ben poco, sarebbe infatti viziata evasione»

F.Arcangeli, 1966

Francesco Arcangeli è, con Cesare Gnudi, il maestro di Andrea Emiliani: la storia dell’arte, da una parte, e l’organizzazione di questa storia – culturale e civile – attraverso le esposizioni e l’“architettura” dei musei. Un modo, estremamente complesso, ma necessario e affascinante, per “salvare dal crollo del tempo” (sono parole di Arcangeli) e conferire alle cose della vita “il sigillo della durata”.

La storia dell’arte e la sua ordinata, culturalmente motivata e necessaria, esibizione, costituiscono i cardini capaci di sorreggere la formazione della nostra coscienza civile. In questo senso l’arte, quella autentica, capace di resistere alle sirene del facile consumo, è un confronto, uno scambio ininterrotto con la vita, con la storia che ci vuole protagonisti attivi e consapevoli.

Incontro che investe non solo le classificazioni disciplinari (Theodor Mommsen sottolineava che non sussistono discipline, ma problemi da risolvere), arti “pure” e arti “applicate”, arte antica e arte moderna, luoghi alti della conservazione e giacimenti “spontanei” o “disordinati”.

L’esercizio dello storico, in qualche misura, in Andrea Emiliani prevale su quello dello “storico dell’arte”. Le grandi rassegne bolognesi su Correggio e i Carracci, gli studi su Federico Barocci, Guido Reni, Simone Cantarini, convivono con i progetti di recupero cui ha rivolto passione ed esperienza (da Palazzo Milzetti a Faenza fino al complesso di San Domenico a Forlì); l’insegnamento al DAMS con le grandi campagne di rilevamento fotografico (con la raffinata collaborazione di Paolo Monti) del territorio che saranno alla base della definizione di un nuovo concetto di tutela dei beni artistici e architettonici; l’attenzione per il restauro, coadiuvato dalla sensibilità di Ottorino Nonfarmale, con l’istituzione nel 1974 di quel grande progetto civile – di ricerca, ma soprattutto operativo – che sarà l’Istituto dei Beni Culturali.

Insomma, “Vivere l’opera d’arte del passato nell’osservazione critica dell’attualità”. Come Tomaso Montanari ha sottolineato commemorandolo dopo la scomparsa:

«La conoscenza capillare del territorio dell’Emilia-Romagna lo aveva spinto a cogliere sempre quella che chiamava “la forte simultaneità di apparizione” del patrimonio. Non, dunque, la lettura della successione temporale degli stili, come in un manuale ordinato, ma la concretizzazione, e dunque la stratificazione, della storia in una porzione di territorio. La geografia come storia, potremmo dire: lo spazio al posto del tempo».

Tuttavia, la passione per la “vita delle forme” in Emiliani non è disgiunta dalla curiositas nei confronti dei turbamenti che nel presente della ricerca artistica si manifestano; in modo particolare in una Bologna che, sul finire degli anni Cinquanta, si dimostra essere un laboratorio quanto mai ricco di suggestioni e di stimoli.

In questo contesto, un ruolo decisivo lo ha avuto indubbiamente Francesco Arcangeli, direttore della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, tra il 1958 e il 1968, estensore in quegli anni di innumerevoli testi dedicati all’arte contemporanea, a corredo dell’intuizione maturata nel 1954 sull’ “ultimo naturalismo”. Assieme ad Arcangeli, nel clima decisamente rutilante e scontroso di Bologna, Emiliani è accompagnato da un compagno fedele e rigoroso, Luciano De Vita, giovane allievo di Giorgio Morandi.

Francesco Arcangeli, Giuseppe Raimondi e Andrea Emiliani in una foto del 1968

Emiliani sembra ordinare il proprio pensiero critico sul solco traccia da Arcangeli: l’“informale” italiano ha caratteristiche del tutto particolari; al centro di quell’esperienza non c’è tanto una volontà che si rivolge all’astrazione, ma piuttosto un sentimento esistenziale al centro del quale evolve un rapporto originale tra artista e natura. L’artista celebra la relazione con l’universo naturale attraverso un linguaggio indiretto, attraverso procedure compositive allusive.

Eppure, per Emiliani quel confronto delinea una ricerca che ha come cardini ineludibili due veicoli del processo di figurazione sui quali si concentra anche la sua investigazione sui grandi momenti dell’arte moderna: la figura e il paesaggio.

La crisi del clima “informale”, ma anche quello dell’“ultimo naturalismo”, definisce nuove procedure, nuove interrogazioni, che conferiscono alla figura e al paesaggio esiti a dir poco sconcertanti. E questo è possibile verificarlo fin dai primi saggi che Emiliani dedica a quei tre artisti, tra loro diversissimi, per i quali dimostrerà sempre un’attenzione profonda: Vasco Bendini, Germano Sartelli e Luciano De Vita.

A Bendini, allievo di Virgilio Guidi, Emiliani dedica nel 1960 uno scritto decisivo. In esso si sottolinea la capacità dell’artista di investigare la qualità della materia pittorica attraverso la quale appaiono soggetti diafani, presenze-assenze che si sottraggono ad ogni fissità e sembrano muoversi in uno spazio diffuso, incerto.

In De Vita invece Emiliani rileva la manifestazione di cupe metamorfosi, dove le membra dei soggetti sono colte in momenti di mutazione o di sfaldamento, trattenute da bendaggi intrisi di materia, in battaglie inesauste tra segno e forma.

In Sartelli, infine, è l’occhio dell’artista che seleziona, riordina, conferisce vita allo stesso confronto e scambio dell’uomo con l’ambiente naturale: la natura viene “presentata” nella sua infinita varietà di forme.

L’orizzonte che Emiliani sta osservando e riconoscendo in tutte le ambivalenze che la pratica artistica viene manifestando è quello di una crisi, di una crisi profonda che, forse, a Bologna si manifesta in modo più acuto che in altri centri della ricerca italiana e acquisisce tratti assolutamente originali, imprevedibili. È la crisi dell’“informale” che lentamente pare mettere in crisi lo stesso impianto dei “tramandi” cari ad Arcangeli, vale a dire di quel tentativo di rendere operativo uno storicismo – romantico per certi versi – di indicare una continuità nelle forme dell’espressione che non è tanto di natura stilistica, dai tratti consapevoli, quanto frutto di una memoria profonda che si esercita su un luogo. Se quell’idea sulla quale si esercita la realtà concreta di un’idea di natura, di paesaggio, frutto di uno scambio incessante con l’azione dell’uomo, poteva chiarire quanto la contrapposizione tra realismo e astrattismo fosse incongrua una volta che si fossero esperite le movenze della migrazione (il “tramando”) “dei corpi e degli spazi”.

Ma ora la situazione è mutata, la “consanguineità” delle poetiche si fa incerta: oltre l’“informale” si stanno definendo nuove geografie, o, forse, si stanno scoprendo nuove terre d’approdo. Emiliani sembra accorgersi di tutto questo, della gravità del processo che i suoi primi autori sottoposti a “verifica” (Bendini, De Vita, Sartelli) stanno inaugurando: la ricerca di tracce, di fruscii, della presenza umana e dei suoi oggetti. Lo spazio è abitato e in esso soggetti e oggetti convivono, ma la loro relazione non è stabile, definitiva. Lo spazio è una materia incerta, frutto di rapporti problematici per i quali il senso stesso della realtà può registrare torsioni impreviste che solo l’incantamento dell’immagine può registrare. Decostruire e accertare, questo sembra il compito imposto alla “creazione” dell’immagine.

Emiliani registra queste singolari frequenze: da Concetto Pozzati a Pirro Cuniberti, Bruno Pulga a Mattia Moreni, da Mario Nanni a Carlo Zauli, dalle inquietudini di Pompilio Mandelli e di Sergio Romiti, fino a Maurizio Bottarelli, Pietro Lenzini, Massimo Arrighi.

Come dire: le “radici informali” stanno diventando una camicia di Nesso troppo angusta, incapace di giustificare espiazioni, né di redimere da alcun tradimento. Se Pozzati passa dalle proiezioni psichiche degli anni Cinquanta al transfert, al “furto del linguaggio” della comunicazione, al ricorso al repertorio cosmetico cui sono sottoposti i beni di consumo, dalla libera affermazione dell’organico alla “costrizione in vista dell’efficienza sociale” (Filiberto Menna), Cuniberti crea una digressione favolistica che esorcizza la forma: progetti, mappe, paesaggi di nature morte e di nature risorte. Un “cacciatore di segni” (Claudio Cerritelli) capace di seminare la memoria su minime variazioni della materia.

Nella crisi ambigua dell’“ultimo naturalismo” emergono dunque sottili tracciati che, attraverso le apparenze della figura e del paesaggio, dispiegano nuovi ordini possibili per l’arte visiva. Dai tentativi di generare nuove fusioni delle figure nello spazio di Pompilio Mandelli, all’indagine mai vittimistica delle relazioni tra decadimento, dissipazione e splendore che investono la decadenza del tempo che viviamo di Mattia Moreni. Dalle riduzioni della natura al proprio fantasma, al segno intimo delle sue luci e delle sue forme di Bruno Pulga, alle stratificazioni e alle dissolvenze della forma che animano il “flusso di coscienza” di Sergio Romiti. Dai palpiti della terra delle sfere e delle geometre modulate di Carlo Zauli, ai ritmi che, specie nella scultura, cerca di imporre alla materia Mario Nanni. Dall’indagine “geologica” sulla materialità della luce di Massimo Arrighi, all’immagine vissuta come metafora antropologica del conflitto tra individuo e mondo di Maurizio Bottarelli, alle tensioni visionarie, neobarocche, del “sentire” di Pietro Lenzini.

All’inizio degli anni Settanta, invitato da Adriano Baccilieri a tenere una prolusione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Francesco Arcangeli esordisce affermando: “Io non sono né per Apollo, né per Dioniso”.

Lo stesso può dirsi anche per l’antico allievo Andrea Emiliani. Ed Emiliani avrebbe comunque sottoscritto anche un pensiero che Arcangeli esprimeva in riferimento a cattive interpretazioni sull’hegeliana “fine dell’arte”:

«se l’arte morirà noi crediamo che non lo deciderà per fortuna né Hegel né chi più o meno malamente si rifà al suo poco umano prevedere. Noi, intanto, ci battiamo perché l’arte esista: perché sopravviva, con i tramandi della sua secolare inerenza alla storia umana, a rendere l’uomo meno disperato e inconsapevole».

Beatrice BUSCAROLI  Bologna 8 Ottobre 2023

a cura di
Beatrice Buscaroli Bruno Bandini
Sala delle Colonne
Emil Banca
via Mazzini, 152
Bologna
Inaugurazione:
martedì 10 ottobre
ore 17:30
Visitabile fino al 31
ottobre nei giorni feriali dalle ore 9:00 alle 17:00
Info: tel. 051 39 69 11