di Giorgia TERRINONI
Lo scorso 7 ottobre si è aperta a Palazzo Strozzi Anish Kapoor. Untrue Unreal, una mostra a cura di Arturo Galansino ideata e realizzata insieme al noto scultore britannico di origine indiana.
Avrei voluto scrivere della mostra immediatamente dopo aver ascoltato la conferenza stampa e averla visitata; tuttavia, un misto d’inedia e vacuità si è impossessato di me e ho procrastinato questo appuntamento. Mi sono poi imposta d’iniziare a scrivere e, mentre cerco di mettere su carta pensieri e riflessioni, continuo a domandarmi a che cosa possono mai servire oggi i lustrini dell’arte contemporanea. Con questa espressione non intendo riferirmi alle code di sirena che riempivano di festa un’erosa New York quale appare già nelle polaroid di Andy Warhol e nei ritratti-testamento di Nan Goldin. Mi riferisco piuttosto a quei festoni carnevaleschi calpestati e inumiditi che insozzano il pavimento alla fine della festa.
Insomma, alla fine, questa è l’immagine che mi resta dopo aver visto la mostra di Kapoor, l’immagine di qualcosa di posticcio. Mi è già capitato di scrivere a proposito di alcune esposizioni allestite a Palazzo Strozzi. Si tratta sempre di mostre che celebrano il lavoro di artisti affermati e storicizzati, artisti la cui ricerca si è già esaurita da tempo e che continuano a replicare successi con poche variazioni sul tema. C’è da dire però che siamo a Firenze, una città dove ci si mette in fila anche solo per guardare un pezzetto di cielo. Quindi, non si dovrebbe nutrire l’aspettativa di trovare in città un’arte che sia oggi di ricerca. Qui si potrebbe aprire una parentesi sull’arte di ricerca oggi, dal momento che anche l’ultima biennale è stata un’esposizione sulla storia dell’arte contemporanea, ma lasciamo stare. Tuttavia, in genere, le mostre di Palazzo Strozzi sono ben confezionate, rivelano un bel prodotto, somigliano alle vetrine dei migliori negozi che s’incontrano passeggiando per la città. Con Kapoor mi sembra invece che qualcosa sia andato storto! Nel senso che ovunque ci si muove sembra d’incappare in una serie numerosa di idee contraddittorie e/o vicoli ciechi.
Si guardi già solo al presunto confronto tra l’opera dello scultore e l’assetto rinascimentale e rigorosissimo del palazzo. A mio avviso il confronto è inesistente, fatta eccezione per un caso del quale si dirà in seguito. Conversando con Galansino l’artista afferma che l’eccesso di ordine distrugge il modo in cui l’opera interagisce con lo spettatore. Possiamo pure prendere per buona questa affermazione, anche se a me lascia perplessa: non so, basta pensare alla ormai lunga tradizione del white cube per capire che in realtà rigore architettonico e arte dialogano piuttosto bene. Tra l’altro Void Pavilion VII (2023), allestito nel cortile, sembra proprio un ingombrante white cube anche se viene definito
«un grande monolite bianco nel quale si entra a est per trovare tre ‘vuoti’ oscurissimi che si aprono nelle pareti».
La percezione che ho avuto io è quella di un brutto contenitore che altera lo spazio del cortile; al suo interno si aprono tre forme buie che, pur chiamando in causa fisica e filosofia, appaiono però come tre forme abbastanza tradizionali.
Un misto tra Malevič e Fontana, passando per Yves Klein. Insomma, di per sé, una superficie nera per quanto profonda non mi pare sufficiente a evocare né un buco nero né il concetto di vuoto.
E così arriviamo al nero e al vuoto, ovvero a Non-Object Black (2015), un lavoro caratterizzato dall’uso del Vantablack, un materiale composto da nanotubi di carbonio la cui peculiarità risiede nel fatto che è in grado di assorbire la luce oltre il 99,9%. Il risultato è che rende invisibili i contorni dell’oggetto. Kapoor ci tiene a sottolineare che il Vantablack non è un pigmento bensì un materiale, questo probabilmente perché egli identifica il suo lavoro come scultura.
Attraverso le opere realizzate con il Vantablack – che io trovo peraltro anche belle – l’artista intende mettere in discussione l’idea stessa di oggetto fisico e tangibile negando illusoriamente la terza dimensione e dando corpo a una serie di forme che si dissolvono al passaggio dello sguardo. Ora, la storia tra Kapoor e il nero più nero di tutti ha avuto anche una certa notorietà pubblica, dal momento che l’artista ne ha avidamente acquisito tutti i diritti scatenando parecchio malcontento nel mondo artistico. E così diverse aziende hanno iniziato a cimentarsi nella messa a punto di un pigmento nero quanto il Vantablack, ma che potesse essere accessibile a tutti. E così è nata Musou Black, la vernice acrilica più scura al mondo, il cui prezzo è estremamente democratico. Poi, un colpo di scena: un gruppo di ricercatori del MIT – addirittura casualmente – ha creato un materiale ancora più nero del Vantablack con il quale nel 2019 l’artista tedesca Diemut Strebe in una mostra allestita alla Borsa di New York ha ricoperto un diamante giallo di oltre 16 carati del valore di 2 milioni di dollari, rendendo il cristallo indistinguibile dallo sfondo.
Non voglio entrare in merito all’azione di Diemut Strebe che comunque trovo velleitaria e inutile, ho raccontato questa serie di aneddoti legati al nero perché anni fa ho approfondito il rapporto che certa arte contemporanea – realizzata tra il 1980 e il 1990 circa – ha intrattenuto con il colore, indipendentemente dalla distinzione tra pigmento e materiale. Penso alle ricerche di David Simpson, Barry X Ball ed Ettore Spalletti, tre artisti che realmente riescono a portare il colore, emancipandolo, oltre i limiti della forma intesa come composizione.
In arte i primi tentativi del colore di rendersi autonomo dalla composizione risalgono all’uso del fondo oro nelle pale d’altare medievali e da allora non si sono mai fermati. L’oro è più che un colore, è un simbolo dal momento che non serve a rappresentare la realtà. Kapoor cita a più riprese Malevič e nella già menzionata conversazione con Galansino afferma che
«il Quadrato nero di Malevič è […] un oggetto quadrimensionale, con tre dimensioni note e una ignota».
Ora Malevič e Mondrian sono probabilmente i due artisti dell’astrattismo la cui opera si libera completamente dalla necessità di descrivere la realtà così come noi la vediamo. Ma io davvero non riesco a capire dove si colloca in tal senso il lavoro di Kapoor, perché lui parla tanto di smaterializzazione, ma la sua ricerca è quasi del tutto schiava del materiale.
Non voglio aprire questioni che poi lascerei inevitabilmente aperte, voglio piuttosto proporre degli spunti di riflessione. Mi sto dilungando, ma vorrei passare brevemente in rassegna ancora una manciata di opere esposte a Palazzo Strozzi, tornando sul fatto che il confronto tra sculture e architettura rimane assolutamente irrisolto, per non dire che è solo calato dall’alto. Parto da Newborn (2019), una grande scultura in acciaio inossidabile ispirata alle sperimentazioni formali di Brâncuși.
Cito liberamente dal pezzo di Galansino che accompagna la mostra. In questo caso siamo in presenza di una scultura basata sull’illusione ottica che sembra addirittura smentire le leggi della fisica, poiché mette in atto un processo di riflessione e deformazione dello spazio circostante che destabilizza la percezione dello spettatore. Ora, finché si parla di percezione mi sembra che leggi della fisica siano più che salve! Un po’ di straniamento c’è, ma non è molto dissimile da quello che si provava di fronte a Sacred Heart di Jeff Koons allestita, un paio di anni fa, nello stesso modo e nello stesso spazio.
Passiamo ancora a Three Days of Mourning (2016) che rimanda all’interesse che da sempre Kapoor – come la maggior parte degli artisti che conosco – nutre nei confronti di ciò che è organico ma anche viscerale. Nel 2017 Mario Codognato curò al MACRO di Roma una mostra proprio su questo nucleo di opere di Kapoor. Si potrebbe quasi dire che il pianterreno del MACRO trasudava i siliconi purpurei di Kapoor e che sia le opere sia l’allestimento evocavano davvero un ammasso di materia molle, sanguinolenta, straziata, irriconoscibile, ma ancora calda. La situazione, complice una luce fredda e spietata, si avvicinava a produrre shock, anche disgusto. Pure, però, le montagne di carne al silicone dell’artista attraevano il tatto più che la vista, veniva voglia di avvicinarsi per tastarne consistenza e tepore. A Firenze non resta nulla di tutto questo e Three Days of Mourning appare solo sgradevole e anche un po’ posticcia, per tornare al termine con il quale ho iniziato. Manca il dialogo tra le altre opere, il dialogo con lo spazio e probabilmente anche un’idea curatoriale alla base del loro allestimento.
L’unico intervento che ho trovato veramente bello e davanti al quale ho avuto voglia di trascorrere più di dieci secondi è stato Svayambhu (2007). Basta guardare alla data di ideazione/realizzazione per capire che non si tratta di un vero site-specific, ma quest’opera sì che forza lo spazio eppure v’inserisce. Quest’opera sì che è allestita e non solo parcheggiata per confezionare una retrospettiva da vendere ai gruppi. Qui c’è davvero la relazione tra vuoto e materia della quale Kapoor spesso parla: Svayambhu è un blocco monumentale di cera rossa e dotata di una sua animazione/automazione e che si muove su rotaie lungo un percorso di quasi venti metri attraverso due sale del palazzo. Lo spazio si apre e un po’ si sventra al passaggio del blocco di cera, mentre la cera si plasma in relazione allo spazio attraversato e, lungo il tragitto, lascia inevitabilmente tracce cariche di un rosso vivido.
Durante la conferenza stampa Anish Kapoor ha citato Paul Valery. Non sono riuscita a rintracciare la poesia, ma in bocca all’artista la citazione suonava più o meno così: una brutta poesia è una poesia che svanisce nel significato. Sostituendo la parola mostra a poesia la citazione suona abbastanza bene per descrivere Untrue Unreal!
Giorgia TERRINONI Roma 22 Ottobnre 2023