La fabbrica palermitana di maioliche di Santa Lucia al Borgo.

di Rosario DAIDONE

Dopo la chiusura nel 1756 della Real fabbrica “San Carlo” di Caserta (aperta nel 1753) per ordine del ministro Tanucci, che la riteneva assolutamente improduttiva, nel Regno di Napoli il lavoro per gli addetti al settore della maiolica doveva fortemente scarseggiare per un periodo di tempo troppo lungo se diverse maestranze di non poco valore artistico, informate della vivacità commerciale che le città portuali siciliane in quel periodo attraversavano, decisero di prendere il mare in cerca di occupazione.

Tra i numerosi maestri arrivati a Palermo che si trovano citati nei documenti è presente il decoratore Gennaro Del Vecchio, appartenente alla famosa famiglia di figuli partenopei, che dal 1754 aveva lavorato, col fratello Nicola, nella Real Fabbrica di Caserta. Si impegnava in città ad organizzare la produzione della nascente fornace che prendeva il nome dalla vicina Chiesa di Santa Lucia extra moenia, (demolita in seguito ai danni subiti dai bombardamenti del 1943) situata nel Borgo, zona vicina al mare (Fig.1) oggi conosciuta col nome di Borgo Vecchio, affollata, sin dal XVI secolo, da centinaia di botteghe e magazzini, soprattutto di vino, gestiti per la maggior parte dei casi da commercianti provenienti dalla Lombardia da dove, tenendo conto del cognome, doveva essere originario Michele Brambilla che nell’incarico palermitano si associava a Gennaro Del Vecchio a partire dal novembre del 1765.

Fig. 1 Particolare della pianta della città di Palermo. In evidenza la chiesa di Santa. Lucia al Borgo (da G. Braun, F. Hogenberg, Civitates orbis terrarum, Colonia 1572-1618).

Le vicende della fabbrica si conoscono, per accidente giudiziario, attraverso due singolari documenti d’archivio: la supplica presentata al Vicerè il 5 gennaio del 1766, da Gennaro Del Vecchio e Michele Brambilla da pochi mesi incaricati di organizzare il lavoro a Santa Lucia e la risposta fornita da Don Vincenzo Giovenco, amministratore per conto della “Compagnia di nobili e mercatanti”, di cui faceva parte anche il Principe di Scordia, che del progetto, aveva ottenuto dall’ufficio viceregnale una “privativa” consistente nel divieto per la durata di dieci anni prorogabili di aprire in Sicilia un’impresa concorrente e

l’affrancazione di dogana o gabella per l’immissione dei generi materiali bisognevoli e l’estrazione di tutti i lavori di essa”.

Privilegi imprenditoriali dei quali occorreva approfittare data la crescente richiesta da parte della rinvigorita classe borghese del Regno e la carenza di prodotti disponibili sul mercato in conseguenza della crisi che attanagliava il settore figulino partenopeo.

Nel primo documento (1) Del Vecchio e Brambilla dichiaravano che, come “regolatori” della fabbrica di maioliche, incaricati cioè di stabilire, modificare e disciplinare le condizioni e lo svolgimento del lavoro in base a determinate esigenze di mercato, tutta la maiolica dell’ultima fornace fatta per conto di Don Vincenzo Giovenco era stata venduta con relativo guadagno. Ciò nonostante affermavano non senza evidente vittimismo, che il Giovenco, pur avendo promesso sin dal mese di ottobre del 1765 di volere ingabellare (2) loro la fornace col godimento di tutti i privilegi di privativa ottenuti, li aveva abbandonati e addirittura minacciati di licenziamento pur essendosi insieme messi pesantemente al lavoro sin dal mese di novembre.

In sostanza essi lamentandosi chiedevano che, se fosse stato deciso il loro allontanamento, venissero almeno ricompensati dalle fatiche prestate e fosse nominata una persona a cui consegnare lo stiglio e il materiale esistente nella fabbrica.

La risposta del Giovenco non si fece attendere. Per pronto accomodo egli affermava di aver dovuto tanto contrastare con Del Vecchio e Brambilla che avevano avuto l’abilità di consumare alla società la somma di 3000 scudi “senza verun profitto” e aggiungeva di essere stato sempre il loro protettore anche quando meritavano di essere arrestati per le frodi commesse. E per tanto si stupiva che, pur avendoli sostenuti anche con denaro di tasca sua, essi per “mala inclinazione”, si sentissero abbandonati e avessero avuto l’ardire di presentare ricorso.

Più dettagliatamente il Giovenco, in risposta alla supplica dei due lavoranti sollecitata dal Viceré con lettera del 30 Dicembre 1765, arrivata a causa delle festività nelle sue mani il 4 gennaio del 1766, chiariva che l’intenzione della “Società dei nobili e mercanti” era stata quella di introdurre, sotto la sua amministrazione, approvata dal viceré, una fabbrica utile e vantaggiosa al pubblico, di cui egli non aveva avuto mira di trarre alcun profitto economico e ribadiva che Del Vecchio e Brambilla avevano consumato in maniera disonesta la somma dei 3000 scudi che dovevano servire all’attività della fabbrica.

Il primo

venuto dal suo paese quasi nudo e senza un grano, adesso si trovava con una moglie ben provveduta di robe, anelli, orologi pendagli e vesti, ed il secondo che per la prodigalità e consumo nelle bettole ed amici non compariva che povero.

La Società avrebbe dovuto farli arrestare per venire rimborsata del suo credito, ma egli, mosso a compassione per non far perire due uomini, pratici uno nella pittura e l’altro nello stagno, aveva rinunciato alla loro persecuzione avendo a cuore la prosecuzione dell’impresa e perciò, oltre ai 108 scudi per ogni carato versato da ognuno dei soci, li aveva anche aiutato con denaro di tasca sua, parte per elemosina, parte per regalia relativa alla riuscita di qualche infornata e parte per consentir loro di pagare alcuni debiti contratti con negozianti e tavernieri.

Pensando però di non dover perdere altro denaro, Giovenco confessava che non era stato lontano dall’idea di prendere in considerazione l’offerta pervenuta da Napoli da pare del maestro Giuseppe Massa che si prestava a seguire l’opera a Palermo. Probabilmente, proseguiva Giovenco, i due, temendo che egli avrebbe accettato l’offerta, cominciarono con preghiere a mettere di mezzo “persone influenti” per farlo desistere dal loro licenziamento quindi, attraverso il suo cameriere, gli fecero sapere che, messisi seriamente al lavoro, gli avrebbero restituito i soldi ricevuti. E in effetti Giovenco nella dichiarazione era costretto a riconoscere “che ora i due stavano lavorando pacificamente” (3)

La disponibilità dell’anziano maestro Giuseppe Massa ritrovatosi senza lavoro a Napoli, di venire ad operare a Palermo non era fatto di poco conto, trattandosi di uno dei più celebrati “riggiolari” napoletani, autore di pavimenti decorati in diverse città campane compresi quelli della biblioteca della Certosa di Padùla e soprattutto noto per avere nel 1740, insieme al fratello Donato, rivestito di splendide maioliche il Chiostro della Chiesa napoletana di Santa Chiara.

Il secondo documento utile alla conoscenza della storia della fabbrica palermitana è l’articolo apparso nelle “Novelle Miscelanee di Sicilia” (4) dal quale si apprende che, alla morte di Giovenco, avvenuta inaspettata nei primi mesi del 1766, supervisore della fabbrica veniva nominato Vincenzo Emanuele Sergio, impiegato della Magistratura di Commercio e futuro professore universitario di economia, direttore della stessa Rivista (ne parla il Trasselli, 1971, pp. 25-26)   Nell’articolo si legge che la fabbrica, dopo un inizio burrascoso, finalmente era riuscita a produrre

bellissimi vasi, statuine ben lavorate ed altre opere di un gusto eccellente, di un bianchissimo stagno, leggerissime e di mirabile pittura, a segno che han meritato di venire preferite non solo ai lavori delle fabbriche di Napoli, Savona e Marsiglia, ma generalmente a quelle di tutte le mirabili fabbriche d’Europa.

Notizie che contraddicono l’asserzione di Trasselli il quale pensa che, non essendo stato rintracciato alcun pezzo delle maioliche prodotte nella fabbrica di Santa Lucia, l’articolo apparso su “Le Novelle Miscellanee” sia autocelebrativo in quanto la fabbrica era subito fallita (5). L’affermazione del Trasselli appare paradossale e priva di fondamento dal momento che, dopo la scomparsa del Giovenco, l’attività della fabbrica continuerà a produrre almeno sino al 1774 quando il nome di Gennaro Del Vecchio si legge in un atto dell’Archivio di Stato napoletano del 18 marzo presso il notaio Aniello Piscopo (Ann. A. Piscopo anni 1773-74-75, f. 59) che testifica il suo definitivo rientro a Napoli.

E’ stata difficile impresa, nel passato, l’individuazione dei reperti attribuibili con certezza alla fabbrica di Santa Lucia. Si tentò, in occasione della “Mostra sul Terzo fuoco a Palermo”, tenuta nel Museo di Palazzo Abatellis dal 12 aprile al 29 Giugno 1997, di individuarne le opere tra i numerosi reperti delle altre fabbriche palermitane del Settecento custoditi nelle raccolte private e nei Musei di Palermo e Napoli. Vennero, in verità non senza qualche riserva, proposti alcuni pezzi pubblicati nel Catalogo della Mostra a cura di Luciana Arbace e dello scrivente (6). Ma a smentire l’asserzione del Trasselli sono ora emersi dal mercato antiquario altre opere decorate a piccolo e a gran fuoco assegnabili alla fabbrica di Santa Lucia: una coppia di piattini ovali dal bordo mistilineo (fig.2) e un piatto di maggiori dimensioni, pure esso ovale e della stessa foggia in grado di testimoniare, per la loro vicinanza stilistica alle opere della Real Fabbrica di San Carlo a Caserta (fig. 3 ) la produzione palermitana.

Fig, 2 Piatti a terzo fuoco (a) e a gran fuoco (b) prodotti nella “Real Fabbrica San Carlo” a Caserta (1753-1756) immagini di pubblico dominio.
Fig. 3 piccolo piatto ovale dal bordo mistilineo; cavetto decorato con un mazzetto di peonie e fogliame. Piccoli fiori sparsi nella tesa, decorato da G. Del Vecchio nella Fabbrica palermitana di Santa Lucia al Borgo (1765-1773) cm.21X17; Coll. Priv.

Il piatto ovale grande anzi, per l’insufficiente cura riservata alla decorazione e la scarsa qualità dello stagno sembra possa essere assunto a testimonianza di una delle prime prove che, nell’ incertezza e le liti documentate, abbiano sfornato Brambilla e Del Vecchio tra il novembre e il dicembre del 1765 (fig. 4).

Fig. 4 Tazza da puerpera con manici a tralcio e coperchio con presa che rappresenta la figura di Cupido a riposo modellata a tutto tondo, G. Del vecchio nella Fabbrica palermitana di Santa Lucia al Borgo. h. cm. 21 diam. base cm. 9; ed. Cat. Terzo Fuoco a Palermo (1997)

La coppia di piattini di eccellente qualità  dello smalto con la decorazione di un aggraziato mazzo di fiori dipinto nel cavetto, sembrano invece riferibili alla stabilizzazione dell’impresa e ai manufatti definiti nelle “Novelle Miscellanee” di bianchissimo stagno, leggerissime e di mirabile pittura. Si tratta di manufatti, residui di serviti di pregio, provenienti da case nobiliari palermitane che per le caratteristiche materiche sono assegnabili alla produzione siciliana e per la decorazione distinguibile dai reperti prodotti nello stesso torno di anni a Palermo da Calogero Pecora per il Duca di Sperlinga nell’atelier di Malaspina e dalle opere in terraglia sfornate dalla Fabbrica Nuova del Barone Malvica.

Le strette parentele che possiedono con le opere di Caserta, e l’attività di decoratore svolta da Gennaro Del Vecchio nell’una e nell’altra fabbrica non solo ne autorizzano l’attribuzione alla fabbrica di Santa Lucia, ma sembrano essere anche specchio delle condizioni di lavoro in cui si venne a trovare a Palermo il maestro napoletano che, avendo inizialmente scambiato la città per il Paese di Bengodi, si adeguò in seguito alle aspettative degli impresari palermitani come attesta la tazza da puerpera (vedi fig. 4) con coperchio sormontato dalla figura a tutto tondo di Cupido in funzione di presa che nel Catalogo del “Terzo fuoco” era stata assegnata dubitativamente alla fabbrica Nuova di Malvica. Sono altresì da attribuire alla mano di Gennaro Del Vecchio i piatti, uno ovale con la rosa e altri due decorati con peonia e fiori già pubblicati nel catalogo della Mostra a palazzo Abatellis.(figg.5-6-7)

Fig. 5 Piatto decorato a terzo fuoco con una rosa dipinta nel cavetto; tesa distinta da catena di microperline che si intrecciano con una corona di piccole foglie, G. Del Vecchio nella Fabbrica palermitana di Santa Lucia al Borgo. ed. Cat. Terzo Fuoco a Palermo (1997)
Fig. 6 Piccolo piatto ovale decorato a terzo fuoco con rosa dipinta nel cavetto, tesa distinta da una catena di microperline che si intreccia con una corona di piccole foglie, G. Del Vecchio nella fabbrica palermitana di Santa Lucia al Borgo. cm.24X14; Coll. priv.
Fig. 7 Piatto dipinto a terzo fuoco; nel cavetto peonia e fiori di fantasia (alla coreana) bordo mistilineo caratterizzato dalla presenza di un motivo a monticelli e puntini, decorato da G. Del Vecchio nella fabbrica palermitana di Santa Lucia al Borgo. Diam. cm. 23; diam. cm. 23; ed. Cat. Terzo Fuoco a Palermo (1997)
Fig. 8 Piccola statua di maiolica bianca modellata a tutto tondo che rappresenta una damina con ombrellino nell’atto di odorare un fiore. Esecuzione di G. Del Vecchio nella Fabbrica palermitana di Santa Lucia al Borgo. h. cm. 25; ed. Cat. Terzo Fuoco a Palermo (1997)

Se è vero che la vitalità della fabbrica del Borgo va estesa a un periodo di almeno otto anni, altri reperti potrebbero venire alla luce, non escluse “le statuine ben lavorate” citate nelle ”Novelle Miscellanee” che sembrano rappresentate dalla dama con l’ombrellino già attribuita alla fabbrica del Borgo nel citato catalogo della Mostra del 1997 (fig. 8).

Per quanto riguarda infine la veridicità delle notizie contenute nella rivista a stampa contestata dal Trasselli occorre aggiungere che trattandosi di un organo d’informazione di pubblico dominio, le enunciazioni, seppure in tono trionfalistico, non possono essere considerate mendaci e mistificatrici trovandosi la fabbrica di Santa Lucia sotto la stretta vigilanza della Magistratura di Commercio e l’attenzione del Viceré in nome dei privilegi di privativa concessi.

E’ appena il caso di sottolineare che Il lavoro dello studioso di maiolica è per molti versi assimilabile a quello dell’archeologo. Entrambi i ricercatori si servono degli scavi. Il primo in superfice, tra aste, collezioni private e mercato, l’altro nel sottosuolo. Lavori difficili e delicati in attesa dell’ ”anello che non tiene” per chiarire o aggiungere dati certi ai loro studi, talvolta non privi di dubbi e di ipotetiche attribuzioni, come accade oggi nel caso della fabbrica di Santa Lucia, che sembra arricchirsi, per fortunati ritrovamenti, di nuove conoscenze.

Rosario DAIDONE   Palermo 29 Ottobre 2023

NOTE

1 A.S.P. 1766 (5 gennaio), R.S. Vol. 611
2 il concetto di gabella variava da regione a regione nel tempo, in genere aveva il significato di tassa, ma nel caso del rapporto che avrebbero stabilito Del Vecchio e Brambilla con la “Società dei Nobili e mercanti” l’ingabellazione promessa e alla quale essi aspiravano prevedeva la gestione autonoma dell’impresa da parte dei due maestri con l’obbligo del pagamento, mensile o annuale, alla “società” di una determinata somma di denaro dipendente, in percentuale, dal profitto realizzato.
3  A.S.P.  1766 (5 gennaio), R.S. Vol. 611
4 foglio a stampa dell’11 aprile inserito dal Villabianca nel suo “Diario” (in BCP, Diari di VILLABIANCA Qq D 95-96, f. 315
5 C. Trasselli, Ceramica siciliana e ceramica d’importazione, l’imitazione della ceramica ligure del ‘700, in Atti del Convegno della ceramica di Albisola. Albisola 1971.
6 Cfr. Terzo Fuoco a Palermo 1760-1825, Ceramiche di Sperlinga e Malvica, A. Lombardo editore