di Michele FRAZZI
Leggere Caravaggio IV
Gli altri inganni del Piacere
A Roma in casa del Cavalier d’Arpino ed il periodo successivo
Lasciata anche la bottega di Lorenzo Carli secondo il Susinno Caravaggio andò ad abitare ed a collaborare con l’amico siciliano Mario Minniti:
”Risoluti perciò allontanarsi dalle goffagini di un tal maestro, si risolvettero far coabitazione ed unitamente al necessario colle fatighe delle loro prime opere.”
a questo il Cacopardo, un altro storico siciliano, aggiunge:
“sempre lavorando insieme, e di concerto”,
la collaborazione col Minniti durò fino al 1600, secondo quanto dichiarato dallo stesso Caravaggio al processo Baglione del 1603 riguardo ad un certo Mario, probabilmente proprio il Minniti:
“Mario una volta stava con me et è tre anni che se ne partì da me”.
Poi finalmente, arrivò una svolta decisiva ed il Merisi approdò in quella che all’epoca era considerata la bottega più importante di Roma, che apparteneva ad un Insensato: il Cavalier d’Arpino, il pittore di riferimento del Papa. Gli storici ci dicono anche che il Merisi andò ad abitare a casa del Cesari, sia il Mancini
“Doppo mi vien detto che stesse in casa del cavalier Giuseppe e di monsignor Fantin Petrignani”,
che il Baglione:
”Poi andò a stare in casa del Cavalier Gioseppe Cerasi d’Arpino per alcuni mesi.”
ed a ben vedere anche il Bellori “uscì di casa di Giuseppe per contrastargli la gloria del pennello.”
Una ulteriore conferma del fatto che il Caravaggio durante la permanenza nella sua bottega abitasse presso l’Arpino viene dal fatto che il Merisi dopo l’uscita dalla sua bottega rimase senza alloggio e venne ospitato da Prospero Orsi. Rimane da stabilire a questo punto in quale casa dell’Arpino abitò: mi pare ragionevole, come proposto da Jacob Hess e Massimo Moretti, che si tratti di quella dotata di una bottega al piano terra, che era situata in via dei Giubbonari vicino a Palazzo Barberini e alla casa di Prospero Orsi e che come ci dice anche Rottgen probabilmente fu data in affitto dal Cavaliere (1).
Mentre era ancora a servizio dell’ Arpino gli accadde un incidente, un cavallo lo colpì con calcio e gli fece gonfiare una gamba, siccome in questa occasione i fratelli Cesari non lo aiutarono, come riporta il Mancini fu Lorenzo Carli ad accompagnarlo all’Ospedale della Consolazione ( 2). Carli lo affidò nelle mani del messinese Luciano di Antonio Bianchi che allora era priore dell’ospedale. Per ricompensare il priore il Caravaggio gli regalò diversi quadri, che egli poi portò con sé in Sicilia e secondo il Malvasia gli fece anche il ritratto.
Questo incidente dovette accadere verso la fine del 1596-inizi del ’97, dato che si situa alla fine del periodo con Arpino che secondo il Mancini durò all’incirca 8 mesi. La veridicità del fatto è testimoniata dal garzone Pietropaolo Pellegrini, che durante l’interrogatorio del 1597 riferisce che il Merisi era venuto nella bottega in cui lavorava per farsi medicare la grattatura ad una gamba ricevuta durante una questione con un palafreniere dei Giustiniani o dei Pinelli. Il disinteresse per il problema fisico del Caravaggio fu il motivo per la definitiva rottura con i Cesari; un’altra causa di insoddisfazione e di contrasto fu il fatto che in quella bottega Caravaggio veniva impiegato controvoglia a dipingere soggetti che non gradiva: fiori e frutti, mentre lui voleva tornare a fare le figure, il Bellori ci dà anche notizia che in quel periodo dipinse una Caraffa con dentro fiori ed altri quadri con temi simili.
Dunque probabilmente agli inizi del 1597 aiutato dall’amico Prospero Orsi se ne andò via anche da quella bottega, un fatto testimoniato anche dal Bellori che scrive:
“incontrò l’occasione di Prospero, pittore di grottesche, ed uscì di casa di Giuseppe per contrastargli la gloria del pennello”
quindi Prosperino gli offrì l’occasione di lasciare l’Arpino offrendogli l’alloggio in casa sua, in quella residenza secondo Gaspare Celio il Caravaggio dipinse un Suonatore di liuto ( 3); la sua abitazione era vicino al palazzo di Maffeo Barberini e poco distante dalla casa data in affitto dal Cavalier d’Arpino. Rimase poco tempo anche a casa dell’Orsi dato che poi si trasferì nel palazzo di Fantino Petrignani che era in una laterale di Via dei Giubbonari, adiacente al palazzo di Maffeo, e questo accadde in una data successiva alla fine dell’aprile del 1597, dato che il monsignore prima non si trovava a Roma (4).
Anche questa residenza gli fu procurata molto probabilmente dall’Orsi, infatti Prosperino lavorò per il Petrignani tra il ’92 ed il ’97 ( 37); c’è da notare che nello stesso periodo tra il ’91 ed il ’97 lavorò anche per i Peretti (5) ed anche nella bottega dell’ Arpino, si trattava dunque di una sorta di pittore che oggi diremmo freelance. Rimane da capire a quale titolo il Caravaggio fu ospitato in casa sua dal Petrignani dove dipinse diverse opere, infatti secondo Mancini:
“Doppo mi vien detto che stesse in casa del cavalier Giuseppe e di monsignor Fantin Petrignani che li dava comodità d’una stanza. Nel qual tempo fece molti quadri et in particolare una zingara che dà la buona ventura ad un giovinetto, la Madonna che va in Egitto, la Maddalena convertita, un S. Giovanni Evangelista.”.
In quella dimora egli dipinse 4 quadri, in uno spazio di tempo di circa due mesi, per cui il periodo passato in casa dell’Orsi, dove dipinse solo il Suonatore di liuto, dovette essere davvero breve, forse solo il tempo necessario a trovargli una sistemazione più conveniente. Dei quadri realizzati in casa del Petrignani i primi tre furono acquistati dai parenti di Prospero: i Vittrici, sicuramente attraverso la sua mediazione.
Questa famiglia si dimostrò una affezionata cliente di questa sua prima ed incerta fase e forse acquistarono anche il Suonatore di liuto che venne dipinto proprio in casa dell’Orsi dato che in un inventario del 1650 nella loro collezione figura
“un quadro grande di una donna vestita di Diana che sona il cimbalo cornice arabescata m [an] o de Caravaggi” (6) .
Non rimase a casa del Petrignani oltre il giugno del 1597, dato che in luglio è già documentato presso il cardinal Del Monte, che lo conobbe ancora per opera di Prospero Orsi, come riporta il Celio. I Bari furono il primo quadro acquistato dal cardinale ancora prima di prenderlo a servizio, questo avvenne attraverso l’intermediazione del commerciante Costantino Spada che aveva la bottega attigua al suo palazzo in Piazza San Luigi dei Francesi:
“alcuni galant’huomini della professione, per carità, l’andavano sollevando, infin che Maestro Valentino a S. Luigi de’ Francesi rivenditore di quadri gliene fece dar via alcuni; e con questa occasione fu conosciuto dal Cardinal Del Monte”(Baglione).
Spada aiutò il Caravaggio a vendere anche il Bacchino malato che fu acquistato dal Cavalier d’Arpino (7); abbiamo già incontrato Costantino durante il processo del 1597 a cena con Caravaggio e l’Orsi e, secondo Francesca Curti, fu ancora Prospero il tramite fra il Caravaggio e Costantino (8). L’Orsi come abbiamo visto agì sempre fattivamente ed alacremente come suo manager, ovvero il suo turcimanno, intessendo relazioni a suo favore, in pratica egli è sempre presente nei momenti cruciali della vita artistica del Merisi.
Appare un fatto notevole che un così ampio numero di opere come quelle che abbiamo appena elencato siano state realizzate in un tempo così ristretto, ma il fatto è verosimile, infatti gli storici dell’epoca sono concordi nel descrivere la particolare velocità esecutiva del Caravaggio. Bellori nelle sue postille al testo di Baglione ci dice che fin dagli inizi del suo soggiorno a Roma presso il pittore siciliano Lorenzo Carli:
“ faceva (le teste) per un grosso l’una e ne faceva tre al giorno”
così come conferma il Celio:
” alcune teste di santi per cinque baiocchi l’una, ne faceva doi e poi se ne andava a mangiare”,
e riguardo a questo punto Von Sandrart aggiunge:
”infatti non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo di dietro”
e infine il ben informato Mancini ci dà un ulteriore e preciso esempio delle sue capacità:
” …è comun opinione che del colorito sia stato più padrone Michelangelo poichè 10 mezze figure d’un giudizio di nostro Signore maggiore del reale le fece in 5 giorni per 20 scudi, che adesso s’è venduto a 200.” (9)
Questa considerazione dovrebbe far riflettere sulla quantità dei quadri che deve aver prodotto nella fase giovanile rispetto a quelli che sono stati rintracciati.
Riacquistata la libertà artistica dopo gli 8 mesi passati presso l’Arpino, Caravaggio riprese il filo del discorso che era stato costretto ad abbandonare, tornò quindi a dipingere seguendo le proprie inclinazioni personali e i propri scopi. In questa fase, quando egli fu libero di dipingere secondo i propri desideri; i temi da lui trattati riguardarono principalmente Bacco e il vino, la musica accoppiata al canto e ai testi poetici e la passione amorosa. Si tratta fondamentalmente di tutti soggetti tipici della poesia anacreontica, e in questo potrebbe essere stato influenzato dal fatto che sia l’ ambiente culturale milanese così come anche quello degli Insensati erano legati a queste tematiche. In questo secondo periodo di libertà che durò circa sei mesi e cioè fino all’entrata al servizio del Cardinal Del Monte avvenuta nel luglio del ‘97, il Merisi dimostrò ancora il suo interesse per le allegorie degli inganni dei sensi e dipinse oltre ai soggetti appena citati, delle scene di gusto popolare: i Bari e una Zingara che dà la buona ventura ed anche i primi soggetti evangelici. Il suo interesse per i temi appena descritti e per la pittura di tipo allegorico continuò anche durante il periodo del Monte con il Concerto di alcuni giovani, il secondo Suonatore di liuto, e si riverbera anche su dipinti su cui non vi è accordo sulle date di esecuzione come il Ragazzo con la canestra di frutta o Marta e Maddalena, per terminare infine con l’ Amor vincitore eseguito per Vincenzo Giustiniani nel 1602 circa.
I dipinti bacchici
Abbiamo riunito in questa sezione tre dipinti che pur ressendo relativi a date leggermente diverse trattano di tematiche simili od assimilabili dato che ritraggono Bacco oppure fanno riferimento alla simbologia allegorica dell’Autunno, Bacco infatti è il simbolo della stagione autunnale.
Il Bacchino malato
Il dipinto viene citato dal Baglione che ce lo tramanda come come la prima opera realizzata dal Caravaggio dopo essere uscito dalla bottega dell’Arpino, una notizia che potrebbe essere veridica (10), dato che l’Arpino lo acquistò dal mercante Costantino Spada, il Bacco viene citato anche dal Mancini che lo definisce un “Bacco bellissimo e sbarbato”, successivamente gli fu sequestrato dal Cardinal Scipione Borghese e finì nella sua collezione personale. La attuale gentile denominazione: Il bacchino malato (Fig.1) gli venne data da Roberto Longhi che lo riteneva un autoritratto del pittore eseguito durante la convalescenza presso l’Ospedale della Consolazione. Bacco tiene in mano un suo simbolo classico , l’uva suo simbolo classico, che si vede anche sul tavolo assieme ad alcune pesche che hanno la caratteristica di avere la buccia gialla, un aspetto non comune che identifica alcune categorie di pesche tardive come la pesca di Leonforte, una varietà che matura in autunno a partire da settembre, questa scelta sarebbe conforme col carattere autunnale di questa divinità, inoltre sul capo porta un altro dei suoi attributi caratteristici, la corona d’edera.
La maggior parte della critica caravaggesca ha rilevato i caratteri lombardi del dipinto, in primo luogo per l’aspetto iconografico che riprende un esempio elaborato dal suo maestro, il Peterzano, si tratta della sibilla persica affrescata dal pittore bergamasco nella Certosa di Garegnano (Fig.2), che sta nella stessa posizione del busto e del braccio, ha spalla scoperta e un ginocchio posto più in alto rispetto all’altro.
Anche il suo significato simbolico, pare aver preso le mosse dalla cultura milanese e nello specifico dall’autoritratto del Lomazzo in forma bacchica nelle vesti di Abate dell’Accademia di val di Blenio, conservato alla galleria di Brera (Fig.3), come è stato indicato da molti studiosi. Inizieremo quindi il nostro discorso approfondendo il valore simbolico di questa opera (11).
Il significato simbolico del ritratto di Lomazzo
Se guardiamo l’opera, fin dalla prima occhiata possiamo notare che è carica di elementi simbolici, sul cappello troviamo un serto di alloro e di foglie di vite, simboli di Apollo e di Bacco, con questo intreccio si vuole alludere al fatto che entrambi infondono l’ ispirazione poetica (12) , accanto a lui c’è un’asta avvolta di foglie d’edera, anch’essa è un attributo di Bacco si tratta del suo scettro con il quale era capace di imbrigliare l’ira e il furore ed incanalare questa energia in qualcosa di positivo: nel furore poetico, come è dichiarato nel Trattato di Lomazzo a pagina 471:” il tirso di bacco è il legame delle ire e dei furori” (13), anche il Ripa nella sua Iconologia, utilizza i simboli dell’edera e dell’alloro per indicare il furore poetico (14). Sul suo cappello vediamo un medaglione che raffigura il galeone, il recipiente che veniva utilizzato dagli accademici di Blenio per distribuire il vino, da ultimo Lomazzo tiene in mano un compasso, simbolo della sua professione di pittore.
Si tratta con tutta evidenza di un ritratto in forma bacchica, dove si allude al suo aspetto di nume tutelare della ispirazione artistica in conformità alle idee della Accademia dei Rabisch. Il loro motto era infatti Bacco inspiratori, sul piano della possibilità di suscitare il furore creativo, per loro Bacco ed il vino erano del tutto equivalenti ad Apollo: ” nel dipingere e nel poetare vi occorre il furor di Apolline ” (15). Un concetto che è ulteriormente precisato in un altro libro del Lomazzo che ha per titolo “Della forma delle muse” che tratta proprio del fenomeno della ispirazione artistica:
“le nove fanciulle e il giovane loro, le Muse con Apollo o con Bacco, già che l’antichità ebbe ambedue per sovrani al poetico furore.”(16).
Nella sua visione Bacco (ed il vino) assolve alla stessa funzione di Apollo che è il musagete e cioè la guida le Muse, anche Bacco presiede dunque al furore poetico che genera l’ispirazione artistica. Il furore come motore generativo del talento creativo è un tema fondamentale del suo pensiero, che Lomazzo ribadisce nel suo commento ad un opera in forma di medaglia che lo ritrae (17) a proposito del quale egli stesso commenta “Un mi ritrasse nel furor di luna “ (18), cioè in preda al furore creativo. In questo caso il lombardo accenna ad una forma di furore poetico con origini differenti e cioè si tratta di quello che non nasce dal vino celebrato dai Rabisch, ma che invece proviene dal carattere malinconico ed è perciò innato. Nella Forme delle Muse Lomazzo parla della teoria astrologica-umorale, secondo la quale il momento della nascita condiziona gli humori, e quindi i diversi tipi di inclinazione di cui sono dotate le persone. Quindi la particolare abilità creativa può derivare anche dalle condizioni astrologiche esistenti al momento del parto, per questo motivo Lomazzo si premura di precisare la propria data di nascita: era nato a Milano alla diciassettesima ora di venerdì 26 aprile 1538, nel segno del toro, sotto l’influenza di Saturno. ” ( 19). E come lui stesso scrive:
“questo astro è, seme di grande profondità, impressore di gran pensieri nei corpi umani , ed i nati sotto i suoi influssi sono dotati di molto ingegno, e spesso affetti da malinconie e di carnagione scura” (20).
Lui era dunque per natura un malinconico dato che il pianeta Saturno presiede al carattere malinconico (21). Come abbiamo già potuto verificare durante l’analisi del pensiero del Goselini, spetta a Platone il merito di aver delineato per primo il concetto del Furore e le sue 4 tipologie, Aristotele poi darà una forma definitiva a questa idea completandola con aspetti medici e fisiologici:
“È stata la filosofia naturale di Aristotele la prima ad unificare la nozione puramente medica della melanconia e la concezione platonica del furore“, (22 ).
Aristotele ( pseudo) compie questa sintesi in uno scritto chiamato Problemata XXX che fin dall’epoca medievale veniva considerato il testo di riferimento per la descrizione delle caratteristiche del carattere malinconico e del furore ispirato che è alla base dell’agire di tutti gli uomini geniali. Lomazzo era quindi perfettamente a conoscenza sia delle nozioni di Platone che di quelle contenute nel Problema XXX aristotelico come apertamente dichiara in questo suo brano che tratta proprio della natura del furore (23)
“i quai poeti di spirito , o nascono così come vuol Platone, o secondo Aristotele, alcuni benchè nati in tutto avversi, e rozzi, e fieri, nondimeno dal detto furore vengon rapiti, il qual furore dallo stesso platone, una certa occupation delle muse, che abbattendosi in un anima gentile e insuperabile l’eccita e l’essa gira per le cantilene, e un altra maniera di poesia atta ad ammaestrar il genere humano, e soggiunge che chi s’accosta alle porte delle muse senza la poesia è uno sciocco “.
La sua perfetta conoscenza della dottrina aristotelica si mette in evidenza in altri due passi:
“Di questi colori per i quali anco i fisici giudicano la complessione e la proprietà della natura di ciascheduno, primamente il colore di terra causato per la frigidità, siccità, e però fosco e nero denota la nera colera che si chiama melanconia” (Trattato, libro sesto al cap IX).
E nel terzo libro capitolo XII° aggiunge:
“perciò che, come affermano i fisici i pazzi, e furiosi sono da cholera nera ( bile nera) mossi e soprappresi”.
Come evidenziato da Panofsky, Klibansky e Saxl, l’importanza culturale e la diffusione del testo aristotelico fu enorme, per questo motivo gli studiosi lo posero a caposaldo del primo capitolo del loro fondamentale lavoro sulla melanconia, dove il problema aristotelico XXX viene riportato e commentato per intero (21 ).
Nello scritto aristotelico la melanconia è indicata come la peculiarità che contraddistingue tutte le persone di talento ed infatti su di essa così dichiara:
“Come mai tutti quelli che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia o nella politica o nella poesia o nelle arti sono chiaramente melanconici e qualcuno di essi ad un grado tale da soffrire di disturbi provocati dalla bile nera ?“ (Problemata XXX).
Panofsky, Klibansky e Saxl aggiungono che anche la follia notturna (che Lomazzo chiama furor di luna) è un aspetto tipico del carattere malinconico
“la terribile licantropia, che scatenava le sue vittime nella notte come lupi ululanti e voraci, furono tutte considerate come effetti della sinistra sostanza il cui stesso nome ( μέλαν = melas= nero) evocava l’idea di tutto ciò che era funesto, notturno“.
Nel pensiero aristotelico il furore melanconico non genera dunque solamente il talento poetico ma il suo influsso si estende ad altre le potenzialità dell’uomo come il furore eroico, infatti l’autore cita come primo esempio evidente di Melanconia la furia di Ercole, che fu preda di una Malinconia furiosa e violentemente attiva, arrivando addirittura all’omicidio, dato che in un momento di furore uccise i suoi stessi figli (24).
Di simili manie che li spinsero ad atti estremi e violenti furono preda altri uomini malinconici, come Aiace che dopo aver perso la contesa con Ulisse uccise tutte le pecore dell’accampamento e alla fine si suicidò e Bellerofonte che a causa della sua tracotanza impazzì e si mise a vagare invasato e folle per i monti.
La maliniconia di cui parla il testo è febbrile, attiva e molto simile ad una collera folle, nelle sue manifestazioni estreme è a tutti gli effetti assimilabile ad una manìa, a una turba psichica, all’ aspetto positivo del furore che riguarda la capacità creativa si associa quindi anche un altro lato che all’opposto è terribilmente negativo. Nel proseguio del suo discorso lo pseudo Aristotele instaura un’altra relazione fondamentale che per noi è estremamente interessante, quella che esiste tra il carattere malinconico ed il vino, entrambi infatti danno gli stessi effetti e cioè o una eccessiva passionalità ed eccitabilità, oppure una tristezza fino alle lacrime, ma se nel caso del vino questo stato è temporaneo, nel caso del carattere malinconico invece questo aspetto perdura per tutta la vita (25). Nel pensiero greco sia il vino che la melanconia erano in grado di innescare quel tipo di furore furore che è necessario alla creazione artistica. Tutto quanto appena descritto è perfettamante coincidente con la natura di Lomazzo che è nato sotto Saturno e quindi dotato per nascita del furore malinconico, il vino per lui diventa allora lo strumento ideale per suscitare il furore bacchico e artistico.
Con tutta evidenza Lomazzo è un perfetto conoscitore e un convinto assertore degli assunti contenuti nel Problemata XXX aristotelico dato che idealmente pone i principi contenuti nel Problemata a fondamento della sua vita artistica, infatti in tutte le sue opere letterarie inserisce in apertura, in prima pagina, il suo ritratto a stampa dove viene raffigurato in preda al furor di luna. Il legame tra il furore bacchico che deriva dal vino e il furore poetico è un tema che il Lomazzo condivide con il primo poeta che ha esaltato gli effetti del vino sulla ispirazione artistica e cioè Anacreonte ( Pseudo) di cui riportiamo un suo autoritratto in forma poetica: l’Ode XXXI
Sopra se stesso
Per gli Dei le mie preci seconda, / Voglio bere, deh colma i bicchieri, / Voglio fin che la mente confonda, / Ribevendo di Bacco l’umor. / Quando trasser con mani funeste / Alle madri lo spirto dal seno / Alcmeone ed il candido Oreste, / Furiosi divennero allor. / Io non sono omicida inumano, / Innocente ho la destra ed il core: / Sol talora son ebro ed insano, / Perchè bevo il purpureo liquor. / La faretra di strali ripiena, / E scuotendo il grand’arco d’Ifito, / Forsennato il figliuolo d’Alcmena / Già destando spavento e terror. / Già d’Ettore l’acciaro temuto, / E il settemplice scudo rotando, / Anche Ajace fu un giorno veduto / Agitato da ignoto furor. / Io non già cogli strali e col brando, / Ma col crin coronato di rose, / Col bicchiere, alle cure do bando, / Ed insano divento talor.
Gli esempi di furore qui riportati: Aiace ed Ercole, sono gli stessi contenuti nel Probemata XXX, dunque anche Anacreonte ( pseudo) doveva essere a conoscenza della teoria aristotelica riguardo al furore che legava melanconia e vino, così come accade anche nel caso del Lomazzo ( 26 ). In questa poesia vengono alla luce anche gli aspetti purtroppo sgradevoli che accomunano la melanconia e il vino e cioè il furore omicida e selvaggio, che ciascuno di questi due elementi può provocare.
Bacco mostra in questo modo il suo aspetto più nascosto e ripugnante, quello della sfrenatezza che caratterizzava anche i suoi riti in Grecia; in questo caso egli si fa latore di un messaggio pericoloso, il richiamo a liberare quegli istinti ferini che invece vanno accuratamente evitati. Anacreonte però ci rassicura, non è certo questo lato di Bacco che gli interessa, tutt’altro, quello che predilige è l’aspetto positivo del vino che è in grado di stimolare la produzione poetica, dunque il poeta greco va in cerca del furore con il capo coronato di rose, ma solo di quello poetico.
Il significato simbolico del Bacchino di Caravaggio
Dal punto di vista dei simboli esistono fondate ragioni perchè la critica giudichi il Bacchino collegato all’autoritratto di Lomazzo e consideri entrambi come una rappresentazione della ispirazione artistica. Il Bacco è un dipinto misterioso, è dotato di una caratteristica piuttosto inconsueta, ha una carnagione scura- verdastra, anche le sue labbra sono plumbee, elementi inusuali per un ritratto. Come Kristina Hermann Fiore mette in evidenza (27 ), sappiamo dalle stesse parole di Lomazzo che i melanconici erano dotati proprio di carnagione scura, i tratti somatici del Bacchino sono quindi del tutto coerenti con la volontà di rappresentare il carattere malinconico; infatti secondo il Lomazzo questi sono i colori caratteristici di quella complessione. Sulla stessa linea di pensiero che associa il significato del Bacchino di Caravaggio al carattere malinconico e alla ispirazione artistica si posizionano diversi altri autori (28 ). Il primo ad ipotizzare l’esistenza di un legame fra il dipinto di Caravaggio e la teoria sulla malinconia contenuta nel problemata XXX fu John T. Spike (29), e questa ipotesi fu poi ulteriormente sviluppata da John T. Moffit. Questa tesi per quanto mi riguarda è attendibile poiché viene giustificata dagli uguali e paralleli significati allegorici che sono legati al ritratto di Lomazzo, la cui lettura in chiave simbolica è, come abbiamo visto, ben fondata sulla base dei suoi scritti e del suo pensiero.
In questo caso il suo significato allegorico non rientra nel campo delle ipotesi ma è confermato dalle molteplici informazioni contenute negli scritti del Lomazzo stesso, notizie che tra l’altro riguardano proprio la cultura milanese e l’ambiente da cui proveniva il Merisi ed a cui era legato il suo maestro: il Peterzano che bene conosceva il Lomazzo ed i Rabisch. A queste considerazioni vorrei aggiungere l’importanza e la particolarità dell’abbigliamento relativo ad altri due ritratti di Lomazzo dove, come lui stesso si preoccupa di precisare, viene raffigurato mentre è in furor di luna: quello della medaglia e quello che il egli raffigura in ogni suo libro, che è poi lo stesso, e quindi facilmente accessibile (Fig.4), a cui va accostato l’autoritratto conservato al Kunsthistoriche di Vienna (Fig.5).
In tutti questi casi Lomazzo viene ritratto vestito come un personaggio antico, classico, con una tunica bianca, un fiocco ed una spalla scoperta, esattamente come avviene nel Bacco dipinto dal Caravaggio. Questa tipologia di ritratti è dunque anch’essa del tutto meritevole di essere considerata un valido modello iconografico per il Bacchino Borghese. Molto probabilmente si deve attribuire lo stesso valore simbolico anche al Bacchino del Caravaggio, che quindi rappresenta l’ispirazione artistica del furore poetico che nasce dal vino e dalla malinconica della complessione saturnina.
La simbologia di questo ritratto è dunque evidentemente legata alla cultura lombarda del Lomazzo e della Accademia della val di Blenio, ma anche a quella che si ritrova in alcuni degli autori facenti parte degli Insensati, sicuramente a quei poeti che sono legati al concetto di l’ispirazione poetica che si genera da Bacco segnatamente lo Zuccari, l’Alberti, il Massini e come vedremo fra poco anche il Bovarini. Infatti, come ha osservato Kristina Hermann Fiore se analizziamo l’opera di Federico Zuccari, troveremo che nel suo quadro dedicato alla Calunnia, ad imitazione del famoso quadro di Apelle descritto dall’Alberti, egli si autoritrae con il capo adorno di foglie d’uva e vestito di una pelle bovina, che evidentemente sono due attributi bacchici (30), quindi probabilmente anche questo pittore insensato si ritrae proprio sotto le spoglie di Bacco ad indicare la tipologia della sua ispirazione poetica; anche questo dipinto dunque costituisce un valido precedente iconologico del punto di vista degli Insensati. La Hermann Fiore suggerisce inoltre di interpretare pure l’affresco di Bacco che offre una coppa di vino (Fig.5 bis) eseguito pochi anni dopo da Zuccari nella sua casa di Firenze come un simbolo della sua ispirazione artistica, questo affresco merita una attenzione particolare in quanto è stato indicato dal Moir nella sua monografia sul Caravaggio come un valido precedente iconografico per il Bacco eseguito da Caravaggio e conservato agli Uffizi.
Michele FRAZZI Parma 5 Novembre 2023