di Giorgia TERRINONI
L’autunno si apre bene a Palazzo delle Esposizioni con due corpose retrospettive, entrambe organizzate in collaborazione con la Maison Européenne de la Photographie di Parigi: Don McCullin a Roma e Boris Mikhailov: Ukrainan Diary. Sebbene le due mostre abbiano più di qualche punto di tangenza, i percorsi di McCullin e Mikhailov sono abbastanza distanti e inducono a riflessioni diverse, almeno inizialmente.
Per questa ragione mi viene spontaneo argomentarne separatamente, per poi eventualmente rintracciare dei punti di contatto a conclusione di questo testo.
«Non sono mai riuscito a mettere a tacere le mie emozioni, né penso che sia giusto farlo. Pochi sono capaci di restare impassibili di fronte allo spettacolo di ciò che la guerra fa alle persone. Questi sono scenari che dovrebbero e, così fanno, provocare dolore, vergogna e senso di colpa. Alcune immagini portano l’intensità delle emozioni a un livello insopportabile».
Mi piace iniziare con un’affermazione di Don McCullin, sia perché mi sembra condensare lo sguardo insieme audace e carico di coinvolgimento che caratterizza le sue immagini sia perché potrebbe essere un buono spunto di riflessione per il presente. McCullin è riconosciuto al livello internazionale come uno dei maggiori fotografi della storia e ha documentato alcuni tra i conflitti più violenti e catastrofici della seconda metà del XX secolo. Ma non è stato solo un fotografo di guerra e la mostra lo testimonia articolata com’è in sei sezioni, ciascuna dedicata a un gruppo di opere.
Però la sua fotografia di guerra è tanta e tende a sovrastare un po’ il resto perché da essa promana il rifiuto di qualsiasi infingimento. Raccontandosi McCullin afferma di aver artefatto una sola fotografia di guerra durante la sua vita e di averlo fatto solo ed esclusivamente per testimoniare quello che altrimenti sarebbe sfuggito. In Vietnam egli assistette a una scena che si può immaginare consueta, ovvero quella di un gruppo di soldati americani mentre vituperavano e irridevano il corpo di un nemico. Il fotografo scelse di radunare gli effetti personali sottratti al corpo e che erano stati sparpagliati intorno e di radunarglieli accanto. Se non lo avesse fatto questi non sarebbero entrati nell’inquadratura e McCullin aveva probabilmente l’esigenza di restituire a quel corpo l’identità di uomo che un misto tra follia e crudeltà gli avevano sottratto.
In realtà, a vederla, l’immagine in questione sembra davvero poco artefatta ma si può comprendere l’esigenza del fotografo di dichiararne la parziale falsificazione. Questo episodio mi ha riportato alla mente l’esperimento condotto alcuni mesi fa da una fotografa veneziana di nome Barbara Zanon che ha realizzato e pubblicato sui social uno struggente reportage sull’Ucraina in guerra. Ma Zanon in Ucraina non c’era e il suo reportage era stato realizzato comodamente da casa utilizzando Midjourney, un programma d’intelligenza artificiale text-to-image, ovvero che genera immagini a partire da descrizioni testuali.
Il reportage di Zanon è una provocazione, la fotografa ha voluto porre in atto una riflessione sul potere d’inganno e manipolazione che può esercitare l’AI in ambito fotografico. Infatti, se in generale le fotografie appartengono ai ricordi delle persone, le immagini così costruite si limitano a utilizzare il linguaggio fotografico per creare contesti e situazioni che non esistono fisicamente. Il rapporto con la realtà è già di per sé l’aspetto più controverso del reportage perché è sempre in bilico tra falsificazione, interpretazione ed estetizzazione. Ma la facilità con cui è possibile oggi alterare le immagini aggiunge ambiguità e solleva interrogativi sull’attendibilità della rappresentazione e sulla perdita del suo eventuale valore testimoniale.
Tutto questo non succede nella fotografia di McCullin. Cresciuto a Finsbury Park, un quartiere operaio a nord di Londra, McCullin è convinto che proprio la fotografia gli abbia cambiato la vita. Le sue prime immagini risalgono agli anni del servizio di leva nella Royal Air Force, ma il suo primo scatto pubblicato – The Gunvors – risale al 1958 e ritrae una banda di ragazzi del suo quartiere coinvolta nell’omicidio di un poliziotto. Questa foto ha effettivamente dato l’avvio alla sua carriera sulle pagine del The Observer e del The Sunday Times.
Da questo momento, per più di cinquant’anni, McCullin ha fatto del vero fotogiornalismo, in casa e all’estero. Crude e potenti sono le sue immagini che documentano le condizioni di vita della classe operaia e dei miserabili in Gran Bretagna, così come la carestia in Biafra, l’umanità sospesa tra riti collettivi e deformità in India. Il suo sguardo infaticabile, pur indagando soprattutto la sofferenza e la tragedia, è sempre in grado di andare oltre, verso il riconoscimento della dignità umana, della diversità e della forza.
Oltre al suo ruolo come fotografo di guerra e come documentarista McCullin ha ritratto il paesaggio britannico per oltre quarant’anni restituendone una visione in chiave di sublime moderno. In un suo libro del 1979, intitolato Homecoming, egli affermava di voler tagliare i ponti con la fotografia di guerra e di voler cercare un rifugio in campagna da dove fotografare il paesaggio inglese per il resto della vita. Pur senza tagliare i ponti con la fotografia di guerra McCullin ha trovato questo rifugio nel Somerset ma, anche quando ritrae il paesaggio, non rinuncia al suo spirito e le sue immagini ci consegnano il resoconto di un mondo brullo e angosciante fatto di campi allagati e sferzati dal vento, in qualche modo sempre intrisi di conflitto.
In anni recenti egli ha intrapreso un nuovo progetto, una sorta d’indagine sui resti dell’Impero romano nell’area del Mediterraneo meridionale. Dal Marocco all’Algeria fino alla Siria e al Libano l’artista ha trascorso anni a fotografare le rovine dell’impero. Esposte a Roma, queste immagini offrono una rilettura sulla storia dell’Impero, contribuendo ad infittire la trama che a Palazzo delle Esposizioni si è aperta con Vita Dulcis, una gran bella mostra ideata da Francesco Vezzoli e Stéphane Verger.
L’Impero romano riletto in relazione a tempi storici e a culture diverse può riallacciarci all’altra esposizione, quella dedicata a Boris Mikhailov. Anche qui è esposta Roma, attraverso una composizione d’istantanee che l’artista ha scattato durante un viaggio fatto nel 2002 per partecipare a una mostra.
«Roma, la “città aperta”, non può essere fotografata…ha resistito a milioni di scatti. È possibile catturare l’atmosfera della città in base alle proprie sensazioni, intuizioni, contemplazioni? Puoi andare dietro a qualcuno sperando che ti conduca da qualche parte, ma è come quando scali una montagna: vedi soltanto i piedi della persona che hai davanti e nient’altro».
Però, c’è da dire che in nessuna delle due mostre la presenza della Città è così pervasiva come lo era in Vita Dulcis. Il Diario Ucraino, poi, è un’esposizione molto vasta composta da almeno 800 immagini realizzate tra la fine degli anni ’60 e i primi anni 2000. È difficile costruire un discorso esaustivo sul lavoro di Boris Mikhailov, un artista che dalle nostre parti è anche poco noto. Tuttavia, in questa sede si può tentare di tracciare qualche linea di contorno relativamente a una ricerca interessante e forse anche importante.
Mikhailov nasce a Kharkiv nel 1938 e questa città ricorre con una certa costanza nel suo lavoro, tra passato e presente. Egli è un fotografo autodidatta perché, in realtà, di professione faceva l’ingegnere. Alla metà degli anni ’60 i suoi superiori lo incaricarono di realizzare un reportage sulla fabbrica in cui lavorava e gli affidarono una macchina fotografica. Lui la utilizzò sia per scattare foto della vita in fabbrica sia per scattare foto di nudo alla moglie. Commise l’errore di sviluppare tutti i rullini nella camera oscura della fabbrica e alla prima perquisizione del KGB fu licenziato in tronco. Fu così che Mikhailov divenne fotografo, attività non facilissima da intraprendere in un paese dove o si era conformi all’estetica ufficiale dell’URSS o si commetteva un reato. Ora, la ricerca di Mikhailov è davvero poco conforme all’estetica ufficiale ed è per questa ragione che, fino a un certo punto, si è mossa attraverso canali sotterranei ed è stata esposta nelle cosiddette cucine dissidenti, ovvero mostre clandestine.
Da una posizione che potremmo definire letteralmente “alla periferia dell’Impero”, l’artista ucraino ha sfidato categorie e canoni estetici di ogni sorta, dando vita a una ricerca autenticamente anticonformista e concettuale, senza significative tangenze con gli artisti occidentali. I suoi lavori sono concepiti prevalentemente in serie perché, a parer suo, la serie consente di esplorare le cose da angolature diverse restituendo un senso più completo della verità.
Talvolta si tratta d’immagini realmente seriali, altre volte abbiamo di fronte immagini montate e sovrapposte nelle quali compaiono anche sfocature e fotoritocchi manuali che accentuano il carattere di volta in volta ironico, poetico, nostalgico o ridicolo di ciò che è ritratto.
In questo ordine d’idee rientra Red realizzata tra il 1965 e il 1978, che si pone a metà strada tra un documentario e un’operazione concettuale. La serie si compone di 70 foto diverse ma tutte scattate a Kharkiv e tutte accomunate dalla presenza del colore rosso, quasi una macchia che simboleggia il carattere assolutamente pervasivo dell’ideologia comunista. Mentre le immagini iniziali restituiscono il volto lieto della vita sovietica, man mano che la narrazione procede a prevalere sono il kitsch e la volgarità.
Fino a qui emerge una grande differenza tra McCullin e Mikhailov; il primo, nonostante lo sguardo empatico, nella sua attività documentaria rifugge ogni finzione, il secondo lavora proprio sulla manipolazione delle immagini e della loro sequenza al fine di evidenziarne il sottotesto grottesco e opprimente. Da qui nascono serie come Sots Art (1975-86) dove Mikhailov prova ad estrarre l’uomo dal sovietico oppure Berdyansk, Beach, Sunday, 11 am to 1 pm (1981) dove la condizione umana è irrimediabilmente scorporata dall’identificazione con l’eroe.
Alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, dopo un periodo trascorso all’estero, Mikhailov torna a Kharkiv e camminando per le strade della sua città si accorge che, nel giro di pochissimo tempo, il tessuto sociale è cambiato profondamente: da una parte è emersa una sfacciata élite di milionari, dall’altra stanno aumentando le persone che versano in uno stato irrimediabile di povertà.
Da qui nasce Case History (1997-98), una serie fortissima, composta da grandi foto a colori che ritraggono la miseria inscritta nei corpi delle persone. L’artista considera questa carrellata di Pietà e Deposizioni come un requiem dedicato a uomini e donne che, pur senza saperlo, stanno morendo. I ritratti sono sfacciati, crudi, dolenti, toccanti e aggressivi. Pure non possono essere considerati un documentario perché del fotogiornalismo trasgrediscono intenzionalmente i codici: l’artista infatti ha pagato i suoi soggetti in cambio di una posa e li ha spesso portati a casa sua per offrire loro del cibo e un bagno caldo.
Case History è quindi agli antipodi del fotogiornalismo, eppure è in grado di restituire un dramma e una sofferenza analoghe a quelle che possiedono i ritratti degli homeless inglesi di McCullin. E questo evidentemente ha poco a che fare con la manipolazione delle immagini, quanto piuttosto con l’idea certa fotografia può e deve essere una responsabilità sociale !
Giorgia TERRINONI Roma 5 Novembre 2023