di Francesca BECONCINI
PRISCA THEOLOGIA E PRATICA FILOSOFALE NEL BACCO DI BASTIANINO.
La studio della Natura e la rivalutazione della dignità dell’uomo sono temi centrali nella speculazione e nell’operatività degli eruditi del Rinascimento. L’Oratio di Pico della Mirandola si apre con la citazione di un detto di Ermete:” Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo che è depositario dei “semi di ogni specie e germi di ogni vita”; “è animale di natura varia, multiforme, cangiante” … ”plasmatore e fondatore di se stesso può collocarsi in quella forma che avrà preferito”. L’uomo del Pimandro (Corpo Ermetico) è un Deus occasionatus che discende le sfere demiurgiche per volontà propria, preso d’amore per l’immagine di Natura riflessa nelle acque.
L’analisi e la riflessione sulla natura era un campo d’indagine oltremodo vasto perché abbracciava tanto la realtà visibile quanto quella invisibile. La prima iniziava ad essere indagata attraverso le griglie della matematizzazione dei dati empirici, la seconda era studiata attraverso i meravigliosi scenari del vitalismo nel microcosmo alchemico.
Se l’uomo è ora homo faber, artefice della propria dignità, anche il mondo non è più pensato come ostile, una seduzione che distrae dal percorso verso Dio, ma è invece il luogo dove i filosofi trovano archetipe ragioni di risonanza: “il mondo offre un appiglio a chi cerca Dio” (Cusano)[1]. Nel processo conoscitivo cambia la prospettiva in cui si guardano entrambi i termini del rapporto uomo-natura. Quest’ultima deve essere indagata juxta propria principia secondo Telesio così come per Campanella o Patrizi; in loro la ricerca delle costanti naturali nei fenomeni, il rifiuto di apriorismi e delle categorie aristoteliche, si accompagna al reverenziale rispetto per ciò che è diffuso in ogni creatura sensibile e la cui comprensione consente di partecipare alla funzione demiurgica della natura:
”… l’attività umana nelle varie arti, improntata ad una completa libertà, cosicché non siamo schiavi della natura ma anzi emuli di essa“ (M.Ficino) [2].
La Natura è un’immensa fucina che l’uomo nuovo studia, sperimenta, ma anche imita, ama, comunicando intimamente con essa nel segreto del laboratorio alchemico. Le leggi che scopre nella materia minerale sono le stesse che governano il suo essere. Un comando immanente a tutte le cose che è esso stesso materia, materia più “sottile” rispetto a quella più “spessa” oggetto dei nostri sensi. Il convincimento dell’omogeneità della Natura è alla base delle ricerche tanto della nuova scienza quanto degli studi esoterici-alchemici. La Tabula Smaragdina, urtext dell’Alchimia, ci presenta una Natura unitaria benché declinata in due distinte dimensioni.
È vero, è vero senza errore, è certo e verissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che in alto è come ciò che in basso per fare il miracolo di una cosa sola.
Come tutte le cose sono sempre state e venute da Uno, così tutte le cose sono nate per adattamento di questa cosa unica…
Il cosmo, se da un lato, si contrappone all’Unità assoluta, dall’altro, accoglie quell’Unità come elemento immutabile che tiene insieme le parti dei corpi empirici composti e soggetti al cambiamento.
“Questo principio universale… anima la sostanza quale che sia il regno cui appartiene. Quindi si manifesta attorno a noi, sotto i nostri occhi, sia con le proprietà nuove che la materia acquista da esso, sia con i fenomeni che ne accompagnano le emanazioni” (Fulcanelli)[3].
Come è noto, l’affermarsi del nuovo interesse sperimentale, declinato come scienza o come alchimia, costituì un terreno di battaglia comune agli scienziati ed ai magi contro l’edificio dottrinario della Chiesa e della fisica aristotelica. Tuttavia, mentre il messaggio ermetico-alchemico si poteva diffondere in modo diplomatico, velato cioè dalla filosofia naturale e dall’interpretazione allegorica, il rigore dell’idealismo matematico condusse ad uno scontro frontale.
“Dominus papa ratione peccati intromittit se de omnibus“ (Odofredo-giurista XIII sec.).
L’allegoria, invece, che lega l’asino dove vuole il padrone, consentiva di diffondere all’interno dei circoli platonici, tra aristocratici ed ecclesiastici, la testimonianza di pratiche e ricerche che presentavano profili di illiceità per l’ortodossia del tempo. Tale figura retorica era funzionale all’esigenza di segretezza dell’Alchimia ed al quieto vivere dei suoi filosofi.
Don Antonio Pernety, autore de “Le favole Egizie e Greche svelate e riportate ad un unico fondamento” (1758), spiega
“i geroglifici, i simboli, le favole, essendo suscettibili di parecchie spiegazioni differenti, potevano servire ad ingannare, e ad istruire gli uni, mentre gli altri sarebbero rimasti nell’ignoranza. Fu questa la decisione che prese Ermete, e dopo di lui tutti i filosofi ermetici del mondo. Essi dilettavano il popolo con le favole, dice Origene, e queste favole con i nomi degli dei del paese servivano di velo alla loro Filosofia”.
”Vi è un unico Dio, un’unica Dea, sebbene dotati di poteri diversi e chiamati con nomi molteplici: Giove, il Sole, Mosé, Gesù Cristo, la Luna, Cerere, Proserpina, la Terra, Maria… Ma non proclamare mai apertamente una tale verità: il silenzio e il segreto sono in questo caso d’obbligo come ai misteri Eleusini. Bisogna occultare dietro favole ed enigmi i sacri arcani” (Muziano Rufo)[4].
L’origine del culto di Dioniso è naturalistica, è “la forza forte in ogni cosa” l’oggetto dei riti, quell’energia che è alla base della vita, di ogni sua manifestazione; essa obbedisce ad una legge di necessità espressa nella ciclicità (figura 2), quella che i greci chiameranno Anánkē/Heimarméne (la Necessità Hypercosmica e la Fatalità Cosmica).
Dioniso ed Osiride, divinità agrarie, si rendono conoscibili attraverso la ciclicità del divenire tanto nella sua massima manifestazione cioè nel movimento ripetitivo, regolare delle stelle, quanto nella minima, nella storia naturale di un seme di grano o di un chicco d’uva. “Io sono la pianta della vita che viene fuori da Osiride,… vivo come grano la vita dei viventi“ (Testi dei Sarcofagi)(figura 3). Nel testo drammatico “Ramesseum” la cruenta uccisone di Osiride è riferita esplicitamente alla macinazione del grano, come la morte di Dioniso alla pigiatura dell’uva.
Il ciclo domina anche le nostre attuali conoscenze dell’universo che è pervaso e plasmato da onde elettromagnetiche, gravitazionali, che scandiscono nella loro frequenza, nella ripetizione ciclica, il loro propagarsi. “Armonia non visibile di quella manifesta più potente” (Eraclito, fr 54). La regolarità del divenire naturale offre alla coscienza mitica l’idea del dio come ordine fatale ed universale e perciò il culto di Dioniso si lega alla potenza fondamentale del divenire che alterna fasi creative e distruttive; Dioniso è anche Ade:
“Se non fosse a Dioniso che fanno la processione e cantano la canzone fallica farebbero cosa impudicissima. Ma Ade è tutt’uno con Dioniso di cui sono invasati e festeggiano le Lenee” (Eraclito, fr 15).
E’ lo stesso ordine di vita e morte che discende da Śiva, dalla sua danza cosmica e che si ritrova nello Stoicismo, espansione e contrazione del cosmo, del logos. Dioniso scandisce la successione stagionale nell’anno di tre stagioni: è serpente in inverno, toro o ariete all’arrivo della primavera e leone a mezza estate. E’ la parusia del dio, gloria delle campagne (Virgilio) e riposo invernale.
Dioniso tracio/frigio era adorato con il nome di Sabazio. Dove la natura si rivela attraverso la potenza dei boschi, del vento, delle acque che scorrono impetuose, s’immagina la presenza viva del dio che ordina di essere venerato nello stesso modo esaltato e febbrile con il quale si manifesta.
Nell’Iliade (6, 130) sono presenti già tutti i tratti fondamentali di Sabazio: l’ambientazione montana dei luoghi di culto, il carattere orgiastico di questo conforme alla natura folle del dio, la schiera delle baccanti.
Il rito, per il suo carattere entusiastico e l’ambientazione naturale, permetteva ai partecipanti di assimilarsi al dio e di rivestirne le qualità. Seguaci precipue del suo culto sono le donne che costituiscono il tìasos, il corteggio proprio del dio, perché femminile è la percezione intuitiva della vita, del vitalismo. Nelle Baccanti le donne lasciano la città, la cultura per immergersi nella vita dei boschi, nel flusso dionisiaco.
Allattano gli animali selvatici, cancellano la loro identità famigliare, sociale, per esistere solo come parte di un tutto che segue il disegno di natura. Quando il dio viene offeso, perdono la loro estraneità alla vita degli uomini e ritornano nel mondo del potere come strumenti punitivi di Dioniso. La loro furia, cieca come una tempesta, è la voce del dio dissacrato che possiede le Menadi attraverso il sacrificio di comunione. Vestite di una pelle di cerbiatto, talora di volpe, coronate di edera che masticata dà ebbrezza, impugnando il tirso, correvano pazzamente per le montagne stringendo al petto il cerbiatto, incorporazione di Dioniso, accompagnate dal suono assordante di flauti, timpani e cembali. La corsa forsennata, le urla, il frastuono esagitavano le baccanti che, al culmine della frenesia (Bromio è epiteto di Dioniso, il fremente), addentavano le carni crude dell’animale; mediante l’omofagia si realizzava la comunione con la potenza del divino, della natura (Erodoto, Strabone, Clemente Alessandrino).
Nella definizione dell’identità religiosa cristiana, Firmico Materno e Clemente Alessandrino avevano demonizzato Dioniso e le altre divinità dei Misteri e condannato all’oblio la sacertà della Natura. Pratiche sordide, antinomiche, erano scorte alla base del suo culto la cui origine era riportata alla volontà del diavolo:
“E questo sono i misteri, per dirla in breve, niente altro che stragi e seppellimenti”; “Gli agoni e i falli che si consacrano a Dioniso, i quali hanno infestato la vita umana, sono, invece, una infamia mondiale” (Clemente Alessandrino)[5]. (figura 4)
La censura degli apologeti, che colpiva non solo l’aspetto orgiastico, collettivo, del culto ma anche l’iniziazione all’Orfismo, rimase nell’immaginario popolare nonostante la posizione tollerante della corrente platonica del Cristianesimo nei confronti degli antichi Misteri:
“In effetti quella che ora prende il nome di religione cristiana, esisteva già in antico e non fu assente neppure all’origine del genere umano, finché venne Cristo nella carne. Fu allora che la vera religione, che già esisteva, incominciò ad essere chiamata cristiana” (San Agostino)[6].
Il concetto di Prisca Theologia, Pia Filosofia, riacquistò vigore e consensi con l’Accademia Platonica e con esso la rivalutazione della grandezza degli antichi dei sebbene dissimulata come nel calembour di Agostino.
Il dio pagano che domina la produzione artistica, ermetica, del Rinascimento è Dioniso, sia nella sua espressione naturalistica, sia nell’evoluzione del suo culto dove il dio riacquista la dignità del vero essere nella sfera della pura spiritualità. Per tentare di svelare le opere artistiche rinascimentali, cariche di compiacimento per l’espressione enigmatica
“è necessario ritrovare le dottrine che ne costituiscono la struttura riposta: innanzitutto quella “teologia orfica” di cui Platone, secondo Proclo, sarebbe stato l’erede e che in sostanza può essere descritta come un sistema trinitario e una filosofia della trasmutazione” (Jean Seznec)[7].
Il sistema trinitario rappresenta sia una teofania che una cosmogonia. Era stato preceduto da quello egiziano di Heliopolis (Nun, Kepher e Ra) e seguito da quello cristiano.
Nella confessione di fede niceo-costantinopolitana, nel Mistero della Trinità, Gesù è il mezzo con cui tutte le cose sono state create oltre ad essere il dio storico incarnato. Dioniso, nei Misteri e nella filosofia platonica, ha una funzione analoga, cosmogonica. Proclo nel commento al Timeo precisa
“dividere, ridurre gli interi in parti e presiedere alla distribuzione delle Forme è proprio di Dioniso”[8] .
I Platonici spiegano la progressio ideale dello Spirito Universale, dall’Uno al molteplice, attraverso emanazioni progressive, una gerarchia di esseri intellegibili tanto più perfetti quanto più vicini, idealmente, all’origine. L’Anima del mondo, che, nell’Emanatismo, costituisce la terza ipostasi, è personificata, nella mitologia, da Dioniso; in esso e per suo mezzo ossia con la mediazione della regione intermedia tra “cielo” e “terra”, la materia, sospesa tra il retroscena della dimensione sensibile e l’anticamera del mondo degli dei intellegibili, trasmuta le proprie qualità. Come leggiamo nella Tavola di Smeraldo, i cui versi iniziali sono sopra citati, la divinità è “in alto” ed “in basso”, “così tutte le cose sono nate per adattamento di questa cosa unica..”.
Dioniso realizza al livello inferiore, cioè corporeo, ciò che ha contemplato nell’ipostasi superiore, l’intelletto; la luce dell’intelligenza che assorbe l’essere dell’Uno si propaga nell’Anima e si trasmette alle cose sensibili cui dà vita. Dioniso è l’Anima del Mondo, copula mundi. La funzione mediatrice di Dioniso opera verso il basso e verso l’alto, dall’Uno al molteplice e dal molteplice al Uno. Egli è demiurgo e liberatore. L’effettività della rigenerazione, scorta nel mondo naturale ed inserita nella legge di necessità che governa il mondo, acquista con i Misteri Orfici una dimensione ontologica più elevata attraverso l’identificazione con il dio: “…Felice e beatissimo sarai dio invece che mortale…” (Lamina di Thurii IV sec. a.C.);
“Ora sei morta e ora sei nata, o tre volte felice, proprio in questo giorno. Di’ a Persefone che il Bacchico stesso ti liberò. Toro balzasti nel latte. D’un tratto balzasti nel latte. Ariete cadesti nel latte. Hai il vino come tuo fortunato privilegio. E sotto la terra sono pronte per te le stesse funzioni sacre degli altri beati”. (Pelinna IV sec. a.C.).
Cadendo nel latte, l’anima contempla le forme dell’intellegibile affrancandosi dalla legge della Fatalità.
Allo stesso modo, Gesù è un intermediario perfetto nella dialettica Uno-tutto, “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mio mezzo” (Giovanni 14,6)
“Se al contrario l’uno partecipa dei molti e i molti partecipano dell’uno, e se entrambi sono l’uno nell’altro, deve esistere oltre all’uno e ai molti una terza natura, che non è né uno né molti” (Proclo)[9].
In Alchimia mediatori sono i sali, che,
formati da un acido e da una base, rivelano nella loro decomposizione la volatilità del primo così come la fissità dell’altro (Fulcanelli)[10].
Il tema bacchico è frequente alla corte estense, l’esemplare del Bastianino è quello che in modo più penetrante ne sviluppa il senso misteriosofico, alchemico. Il volto di Bacco è una maschera greca, di teatro (figura 5).
Nelle processioni falliche e nella ierogamia di carattere agrario, accompagnate da cori ripetitivi e lamentosi – ditirambo- è vista la nascita del teatro. Il dio presiede alla tragedia ed alla commedia perché in entrambe si assiste alla rottura delle convenzioni, dell’ordine che regola la convivenza. Durante le feste dionisiache gli schiavi sono liberati.
“Belle per il dio sono tutte le cose, e giuste; ma gli umani ne hanno ritenute giuste alcune, ingiuste le altre” (Eraclito, fr 69).
La ragionevolezza politica non appartiene al sacro[11], a Dioniso, la cui maschera grottesca s’inserisce in una composizione complessivamente sgraziata, lontana dalle forme consuete. La distonia, simile ad un riflesso in uno specchio concavo, indica che la scena non appartiene completamente a questo mondo, è un evento metatemporale che usa personaggi – πρόσωπα – della Prisca Theologia e della pratica alchemica.
“Sinite parvulos venire ad me” (Marco 10, 14) ordina Gesù perché i bambini sono puri, puri di mente. Hanno la capacità di accogliere il miracolo della vita, che la maschera in basso a sinistra sta lietamente assaporando, perché il loro intelletto è sgombro delle coazioni culturali che impediscono l’accesso al sublime. Spiega Paolo Lucarelli:
”Un’ampia e antichissima tradizione (che) vede nella mente conscia, involucro e sostegno dell’io discriminante, non uno strumento utile di conoscenza e di guida all’azione, ma un vincolo da cui liberarsi, un’illusione drammatica e pericolosa, un impedimento all’accesso a stati ontologicamente più elevati, un nemico ambiguo e mortale.
Patanjali, nel primo dei sûtra in cui raccolse remoti insegnamenti, aveva già espresso nel modo più semplice il tema e l’obiettivo: lo yoga è l’arresto delle funzioni mentali. Nel IV sûtra spiega il problema e la sua origine: altrimenti (l’anima) assume la stessa forma delle funzioni mentali.
La mente (citta, buddhi) è fonte e causa di nescienza, cioè dell’universale ignoranza innata che identificando l’attività della mente con quella dell’anima genera sempre nuova illusione, che a sua volta produce maculazione karmica, fonte della sofferenza che caratterizza la vita umana. Solo impedendone l’attività (cittavrtti) possiamo uscire da questo circolo perverso e salvarci dal dolore esistenziale”[12].
Consapevole di tutta la sua nescienza è il personaggio accanto al bambino che appartiene ai poveri in spirito, “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Matteo 5,3). Bastianino ha dipinto un sacco di patate sulla schiena dell’uomo conscio del proprio stato di bisogno, per significare che trattasi di un povero, anche se non dal punto di vista economico. Tale è la sete di questa persona che essa protende verso il dio una fiasca affinché sia riempita di liquido igneo.
Il dio mostra una tenerezza particolare per la scimmia nonostante ciò sembri in contrasto con il collare che la incatena. E’ la stessa immagine del bambino espressa in modo ancor più pregnante. I ferri tengono la scimmia per la testa perché
“Un nemico forte e temibile (la mente) o lo si imprigiona in ceppi indistruttibili o lo si uccide…Tutto ciò esprime l’uomo realizzato, illuminato, che si è liberato dal giudizio personale, discorsivo, costruito per opposizione, e che ormai si muove per impulso universale, o divino, intermediario perfetto tra Cielo e Terra, ubbidiente al pensiero cosmico –a Dioniso- senza esserne distolto dal proprio pensare” (Lucarelli).
La scimmia è dunque l’alchimista, simia dei perché i lavori alchemici ripetono in piccolo la Grande Opera della Creazione.
Troviamo lo stesso animale dipinto nel soffitto a cassettoni della Sala delle Guardie nel castello del Plessis-Bourré (figura 6-6bis).
Jean Bourré (1424-1506), Gran Argentiere dei re di Francia Carlo VIII e Luigi XII nonché adepto della Sacra Scienza, aveva commissionato la decorazione del soffitto della Sala delle Guardie con raffinate immagini tratte dal bestiario alchemico.
Eugéne Canseliet, nel suo libro “Due Luoghi Alchemici” commenta le figure dei cassettoni tra cui la nostra scimmia e una compagna che sono ritratte a cavallo di un orsa:
“Cavalcatura frugivora e molto quieta, quest’orsa fantastica e tollerante porta sul dorso due primati. Uno è trattenuto per il collo, mentre l’altro è libero, sebbene con l’addome racchiuso in una larga cintura di cuoio rinforzata da grossi chiodi. Da questa pende una pesante catena che termina con un’attaccatura a cerchio non utilizzata. Quest’uomo scimmia tiene con la destra i robusti anelli, mentre con la sinistra appoggia una pesante trombetta sulla spalla sinistra del congenere, a cavalcioni davanti a lui. Questi sembra dirigere l’enorme bestia per mezzo di una corda che finisce a museruola, mentre tiene con le due mani una lunga pertica come i funamboli. Certamente si tratta di un bilanciere per equilibrio, non di un bastone di correzione per la guida, perché sarebbe assurdo credere di poter influenzare il ruolo della stella. Del resto il nostro saggio pitecantropo è legato alla cavezza, come lo è al segreto di cui il rumoroso buccinante ignora l’importanza, cosicché dà storditamente fiato alla stridente trombetta. Perciò il primo si gira verso l’altro con aria di disapprovazione”.
Il significato della gazza nel dipinto di Bastianino è analogo a quella dell’uomo-scimmia con la trombetta.
“La gigantesca orsa fa pensare alla più grande delle costellazioni settentrionali; quella che permette di posizionare facilmente la piccola polare nel cielo costellato…La stella suggella canonicamente l’unione del cielo con la terra…Unendo il concetto della materia primordiale a quello dell’impronta divina che la suggella all’esterno e all’interno, il sostantivo Arktos, che designa sia l’orsa che il nord, era ad Atene, secondo Euripide ed Aristofane, il soprannome di una fanciulla casta. L’orsa di Jean Bourré è dunque anche la vergine minerale, il mercurio dei saggi, reale artigiano della Grande Opera, grazie al quale l’alchimista seguirà ciecamente la Natura e, positivamente attaccato ai suoi passi, l’imiterà come una scimmia sin nelle più piccole attività”[13].
Rimane da chiarire il ruolo della donna nera alle spalle di Bacco che ben potrebbe essere, secondo l’ermetismo cristiano, soprattutto tedesco, Sulammita del Cantico dei Cantici. La Tradizione accosta, sotto il profilo semantico, Sulammita alla materia iniziale dell’Opera Alchemica.
“Sono nera ma sono bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Chedar, come i padiglioni di Salomone”.
È bella benché nera, spiega Canseliet, perché la terra alchemica, caotica ed oziosa, già contiene “il cielo dei Filosofi”, infatti, scrive Fulcanelli,
“Questa sostanza contemporaneamente positiva e negativa, paziente che contiene il suo proprio agente, è la base, il fondamento della Grande Opera”[14].
Nella Genesi biblica ritroviamo questa materia scura, passiva, femminile, quando le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
Il fuso tra i capelli della donna indica che la lenta rettificazione, a cui la materia è sottoposta, richiede parecchie ripetizioni dello stesso modo d’operare affinché questo frammento del caos iniziale possa, infine, cedere il prezioso liquido contenuto nel bicchiere di Bacco la cui forma, pressoché identica al bicchiere conico di laboratorio (figura 7), pare ne confermi la produzione filosofale.
Francesca BECONCINI 5 Novembre 2023
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