di Ugo IMPRESCIA
Il simbolismo della “Resurrezione” negli affreschi dell’Oratorio di San Pellegrino a Bominaco
Il ciclo di affreschi dell’Oratorio di San Pellegrino a Bominaco (fig. 1), realizzato intorno alla metà del XIII secolo, è costituito da diverse scene, racchiuse all’interno di cornici pittoriche, come pagine di un libro; le immagini riguardano alcuni eventi biblici, episodi della vita di Gesù e una serie di santi e profeti, che nell’insieme costituiscono una “Biblia pauperum” in pittura.
Per suggerire un’agevole comprensione, gli artisti medievali corredavano le scene con una moltitudine di simboli, che avevano lo scopo di consentire ai fedeli, che nella maggioranza dei casi non sapevano leggere, di “leggere” le immagini e cogliere il significato delle scene rappresentate, in maniera immediata, più di quanto risulti oggi per noi contemporanei – nella maggioranza dei casi capacissimi di leggere – che cerchiamo di interpretare le immagini attraverso la lettura dei testi sacri.
Nel “De Doctrina Christiana” Agostino afferma che (Libro I, 2.2):
«ogni insegnamento ha come oggetto cose (res) o segni (signa): ma le cose si apprendono per mezzo dei segni».
Il “De Doctrina Christiana” ha avuto una larga diffusione e riscosso grande interesse nelle epoche successive; il trattato, anche se costituisce una metodologia per la corretta interpretazione delle sacre scritture, ha avuto inevitabilmente influenza nella comunicazione degli episodi sacri attraverso le immagini.
Nella civiltà medievale, permeata da una notevole dimensione simbolica, si tendeva ad interpretare il mondo circostante, secondo il principio del “aliquid stat pro aliquo”, contrariamente a quanto accade nell’era moderna dove si cerca di osservare i fenomeni della natura e spiegarli univocamente con approccio scientifico, senza ambivalenza.
Per citare ancora Sant’Agostino (De Doctrina Christiana Libro II, 1.1.):
«[…] il segno è una cosa che, oltre all’immagine che trasmette ai sensi di se stesso, porta a pensare, con la sua presenza, a qualcos’altro diverso da sé.»
In un mio articolo pubblicato su About Art Online (Cfr., La pittura medievale in Abruzzo: gli affreschi di San Pellegrino a Bominaco (AQ) e di Santa Maria ad Cryptas a Fossa (AQ); iconografia e significati simbolici. – ABOUT ART ON LINE) ho avanzato un’ipotesi interpretativa sul significato simbolico di alcune orchidee spontanee ben riconoscibili, dipinte ai piedi di Sant’Onofrio raffigurato all’interno dell’Oratorio di San Pellegrino; la presenza di tali piante spiegherebbe la particolare iconografia con cui è raffigurato il santo (fig. 2).
Oltre alle orchidee, l’artista ha dipinto ai piedi di Sant’Onofrio una figura femminile con abiti popolani, che a mani giunte sembra supplicare il santo affinché le faccia una grazia; Sant’Onofrio in realtà è il santo a cui tra l’altro si rivolgono le donne nubili per chiedere di potersi maritare; la presenza di quei particolari fiori avrebbe quindi una valenza simbolica attinente alla scena rappresentata, poiché alle orchidee sono associate da sempre [1] significati riguardanti l’amore sessuale, la fertilità e la procreazione, tutti elementi che sono alla base di un buon matrimonio.
Ma negli affreschi di Bominaco sono nascosti altri significati simbolici; tra le scene del ciclo cristologico, quelle relative alla passione sono rappresentate nel secondo registro della prima campata della parete laterale destra e terminano con la deposizione del Signore nel sepolcro; non è presente la scena di Cristo risorto che si erge dal sepolcro, ma diversi sono nel ciclo di affreschi i riferimenti simbolici che evocano il tema della Resurrezione.
L’ultima scena del ciclo cristologico riguarda un episodio evangelico successivo alla Resurrezione del Signore e si trova nella parete opposta, distante dall’ultima scena del ciclo della passione, esattamente nel primo registro della terza campata; l’episodio raffigurato è quello dell’apparizione di Gesù ai discepoli sulla via di Emmaus (fig. 3);
infatti il personaggio a sinistra è evidentemente Cristo vestito da pellegrino con un bastone sulle spalle alla cui estremità pende una borraccia e una croce gemmata dietro la sua testa, vicino alla quale vi è una scritta con tre lettere greche “ΧΡЅ”; il personaggio sulla destra è invece identificato dalla scritta “CLEOPAX”; ciò induce a riconoscere l’episodio dell’apparizione come quello narrato nel vangelo di Luca (Lc 24, 13-33), che tra gli evangelisti è quello che descrive più dettagliatamente l’episodio.
La scena raffigurata rispetta fedelmente il racconto evangelico in cui si narra dell’incontro di Gesù con due discepoli, di cui uno di nome Cleopa appunto, che per primo rivolge la parola al forestiero chiamandolo “peregrinus” (Lc 24, 18):
«et respondens unus cui nomen Cleopas dixit: ei tu solus peregrinus es in Hierusalem et non cognovisti quæ facta sunt in illa his diebus».
Luca non dice il nome del secondo discepolo, l’artista [2] però si prende la libertà di apporre accanto alla sua testa il nome di “LUCAS”, per evidenziare che l’episodio raffigurato è proprio quello raccontato da Luca, poi introduce un ulteriore personaggio non presente all’apparizione di Cristo; alcuni studiosi sostengono che possa trattarsi di Teofilo [3], il personaggio citato come ”eccellentissimo” da Luca nel prologo del suo vangelo (Lc 1, 1-4) e a cui è dedicato il vangelo stesso oltre che gli Atti degli Apostoli (At 1,1).
Il supposto Teofilo però viene raffigurato al di là di un parapetto, allo scopo di far comprendere che il personaggio non fa parte della narrazione evangelica, ma la sua presenza rafforza l’intenzione da parte dell’artista di evidenziare che la scena raffigurata deriva dal racconto di Luca.
La rappresentazione di tre personaggi nella scena dell’apparizione di Gesù appena risorto, potrebbe anche alludere al numero dei giorni trascorsi nel sepolcro prima della sua Resurrezione; d’altra parte anche in un’altra scena dello stesso ciclo di affreschi, quella della Natività (fig. 4), ricorre il numero tre;
tre infatti sono le levatrici che si accingono al lavaggio del Bambino, mentre nell’iconografia medievale della Natività normalmente, come narrato nei vangeli apocrifi [4], ne vengono rappresentate – salvo rari casi – due di nome Zelomi e Salome; quest’ultima era la levatrice che aveva dubitato della verginità di Maria; in più l’artista pone accanto alla terza, quella raffigurata in posizione centrale, la scritta “ANASTASIA”, la levatrice mutila delle mani sin dalla nascita, miracolosamente risanata nel momento in cui si avvicina a Maria per prendere in braccio il Bambino [5].
Nelle iconografie più tardive della Natività, Anastasia prenderà il posto della levatrice incredula Salome; ma il nome Anastasia deriva dal greco “ἀνάστασις” che vuol dire ricostruzione, rinascita e, nell’accezione cristiana, Resurrezione.
Anastasia infine, oltre che alludere alla resurrezione, richiama anche la nascita di Gesù, poiché come santa, almeno la Sant’Anastasia di Sirmione il cui culto risulta più diffuso soprattutto ad opera dei benedettini, viene celebrata nel calendario liturgico proprio il 25 dicembre.
Tornando alla scena con l’episodio dell’apparizione di Cristo risorto ai discepoli (fig. 5), è interessante notare l’atteggiamento e i gesti dei personaggi raffigurati;
infatti Cristo sembra incrociare lo sguardo direttamente con Cleopa che, secondo la narrazione evangelica, è il discepolo che risponde alla sua domanda e con il gesto della mano destra lo invita a proseguire con loro il cammino verso Emmaus; mentre l’altro discepolo, identificato come Luca, è intento ad additare il suo vangelo al presunto Teofilo a cui indirizza la sua dedica.
Ma nell’episodio dell’apparizione sono presenti altri significati simbolici collegati alla Resurrezione; la scena infatti è arricchita dalla presenza ai piedi di Cristo di alcuni fiori dipinti palesemente a forma di farfalla (fig. 6); è suggestivo pensare che l‘artista abbia ritratto i fiori rifacendosi in maniera stilizzata ad un’orchidea oggi nota come “anacamptis papilionacea” per la somiglianza dei suoi fiori ad una farfalla; si noti infatti come la corolla dei fiori dipinti ai piedi di Cristo contiene una serie di strisce color porpora, tipiche dei petali della “anacamptis papilionacea” (fig. 7).
D’altra parte gli artisti e i loro committenti conoscevano bene le orchidee spontanee che fiorivano, allora come oggi, nei dintorni dell’Oratorio e la cui raffigurazione e le cui proprietà erano descritte nei manoscritti di arte medica e farmacopea, certamente presenti nella biblioteca dell’abbazia benedettina di cui l’Oratorio faceva parte[6].
È stato già ricordato come alcune orchidee spontanee sono state dipinte nella particolare iconografia di Sant’Onofrio nello stesso ciclo di affreschi, con il preciso scopo di guidare il riguardante ad interpretare la scena.
Ma quale interpretazione possono avere i fiori a forma di farfalla ai piedi di Cristo appena risorto? In realtà la farfalla nella tradizione antica e in tutte le culture orientali e occidentali, è il simbolo dell’anima immortale che all’atto della morte lascia il corpo del defunto per raggiungere le sfere celesti ed è interessante notare che nel greco antico “ψυχή” vuol dire anima ma anche farfalla.
Nel suo testo “Historia Plantarum”, Teofrasto (Ereso,371 a.C. – Atene, 287 a.C.) parla delle mutazioni che subiscono le piante durante la loro crescita, precisa poi che mutazioni si verificano anche nel mondo animale (libro II, 4,4):
«Le più evidenti variazioni sono quelle che avvengono secondo i modi di riproduzione, e mutano nel caso di molti animali; come dal bruco si genera la crisalide [χρυσαλλίς], e poi da questa la farfalla [ψυχή]».
Quindi il ciclo vitale della farfalla che nasce bruco per poi diventare crisalide nella sua ultima fase di condizione terrena, chiudendosi all’interno di un bozzolo – metafora del sepolcro – e infine uscire dal bozzolo e librarsi nell’aria, è sempre stato considerato allegoria della rinascita a nuova vita – uno dei significati di “ψυχή” è anche vita, soffio vitale – ed è stato poi acquisito nella religione cristiana come simbolo di Resurrezione.
Uno degli episodi più famosi del mondo classico e che ha avuto molta fortuna in tutte le epoche successive, è la storia di Amore e Psiche raccontata da Apuleio all’interno della sua opera “Le Metamorfosi”; come noto in essa viene narrato l’amore impossibile tra una creatura terrena, la bellissima principessa Psiche, con un personaggio divino, Eros, figlio di Venere; per far riconoscere la loro unione, Eros si rivolge a suo padre Giove chiedendogli di accogliere tra gli dei l’amata Psiche, Giove allora esaudisce il desiderio di Eros e rende Psiche immortale facendole bere dell’ambrosia; chiaramente la favola di Apuleio è una storia di rinascita a nuova vita, una trasformazione da una condizione umana ad una condizione divina, ovvero una Resurrezione nel senso cristiano.
È interessante notare come in un basso rilievo in marmo del II secolo d.C., sono rappresentati Amore e Psiche dove la divinità ha ali di colomba, attributo di sua madre Venere, mentre la bella principessa ha ali di farfalla; anche in un affresco pompeiano di pari tema Psiche è dipinta con ali di farfalla (fig. 8).
Vi sono tanti altri esempi analoghi: nella loggia della Villa Chigi, Raffaello e la sua scuola nel raccontare in immagini la storia narrata da Apuleio, rappresenta il Banchetto degli Dei, dove Amore e Psiche, finalmente sposi, partecipano seduti accanto a Giove, mentre le Ore con ali di farfalla cospargono di fiori i convitati (fig. 9).
Qui l’allegoria della rinascita è riconducibile alla vita privata del committente, Agostino Chigi, che intendeva far accettare all’ambiente altolocato di cui faceva parte, la sua donna amata di bassa estrazione sociale, facendola passare attraverso il loro matrimonio, da una vita modesta ad una nuova vita principesca.
Ma l’esempio più significativo in arte è dato da una celeberrima scultura di Antonio Canova (fig. 10), in cui l’artista rappresenta Amore che abbraccia teneramente Psiche e con il palmo della mano porge alla sua amata, quale dono dell’immortalità, una farfalla che lei amorevolmente accetta, prendendo le fragili ali dell’insetto con la punta delle sue dita, delicatamente per non spezzare l’incantesimo.
Il simbolismo della farfalla in ambito cristiano, è usato in alcune opere del rinascimento, come nella cosiddetta “Madonna della farfalla” di Francesco di Gentile da Fabriano, dove una farfalla svolazza alle spalle della Madonna con il Bambino, come presagio della futura Resurrezione del Signore, oppure nella Madonna di pari tema di Giovan Francesco Caroto che ha dipinto una farfalla sul pomello dello scranno su cui è seduta la Vergine con in braccio il Bambino. (fig. 11)
La scena dell’apparizione di Cristo ai discepoli lungo la via di Emmaus, presenta altri motivi di interesse dal punto di vista simbolico, sempre attinenti alla Resurrezione; all’interno della stessa scena, riquadrata da una cornice pittorica a fascia color ocra e rossa, è raffigurato San Martino che dona parte della sua clamide al povero nudo, identificato con la scritta “PAVP(ER)” (fig. 12).
L’episodio preso isolatamente assume un determinato significato strettamente collegato al gesto del santo, che viene interpretato normalmente come esempio di carità cristiana [7]; si tratta di un significato che secondo Sant’Agostino rientra nella categoria dei “signa naturalia” (“De Doctrina Christiana”, Libro II, 1.2); ma se analizziamo l’episodio all’interno di quello dell’apparizione di Gesù agli apostoli, lo stesso acquista un significato più ampio, coerente con tale episodio, secondo la concezione di Sant’Agostino di signa data, i cosiddetti segni intenzionali (“De Doctrina Christiana”, Libro II, 2.3), che denota l’intenzione dell’artista di comunicare con la raffigurazione dell’episodio di San Martino, un significato connesso all’episodio dell’apparizione di Gesù appena risorto.
In realtà la vita di San Martino contiene un duplice significato, uno legato al tema della Resurrezione e l’altro all’apparizione di Cristo; ciò giustificherebbe a pieno la presenza del santo all’interno della stessa scena in cui è raffigurato Cristo appena risorto che appare ai due discepoli.
Infatti l’artista sembra voglia richiamare il passo della vita del santo scritta da Sulpicio Severo che narra (cap. 3, 1-6) del sogno avuto da Martino la notte seguente l’incontro con il povero, durante il quale Gesù gli appare vestito della parte della sua clamide; nel sogno Martino udì Gesù dire con chiara voce alla moltitudine di angeli che stavano intorno a lui:
«Martino, che ancora non è che un catecumeno, mi ha coperto con questa veste».
Sulpicio Severo continua la narrazione dicendo:
«dopo di ciò mentre era in età di diciotto anni s’affrettò a ricevere il battesimo».
Il soldato Martino quindi che iniziava da pagano un percorso di avvicinamento alla nuova fede, con il battesimo rinasce nella sua nuova vita di cristiano, in analogia a Cristo che con la Resurrezione transita dalla condizione umana a quella divina; viene a crearsi pertanto un collegamento diretto tra i due personaggi dipinti all’estremità della scena: il Cristo (pauper peregrinus) sulla via di Emmaus e il povero (pauper Cristi) che appare a San Martino, collegamento evidenziato dalle due scritte apposte accanto ai due personaggi: “ΧΡЅ” e “PAVP(ER)” (Fig. 13) m[8].
La sussistenza di tale collegamento è tanto più verosimile se si pensa che la Regola di San Benedetto, dedica un capitolo all’accoglienza degli ospiti (LIII, 15):
«Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo […]».
Si ricorda che l’Oratorio di San Pellegrino, insieme all’attigua chiesa di Santa Maria Assunta, faceva parte di una importante abbazia benedettina[9].
Ma il simbolismo della Resurrezione è presente anche in altre parti del ciclo di affreschi; se ci si sposta al registro superiore della stessa campata dove è dipinto l’episodio dell’apparizione di Gesù agli apostoli sulla via di Emmaus, si può notare che l’artista ha dipinto un altro fiore farfalla tra i 4 profeti raffigurati nel registro; il fiore non a caso è posto a fianco di Giona (fig. 14), il profeta che nel suo Libro dell’Antico Testamento (Gio 2, 1-3) racconta come, dopo aver disobbedito al suo Dio Iavhè, è stato gettato in mare dall’equipaggio di una nave durante una tempesta ed inghiottito da una creatura marina; per tre giorni e tre notti è rimasto nel ventre dell’animale e dopo aver pregato Iavhè, fu rigurgitato e deposto sulla riva. Tale episodio dell’Antico Testamento è stato chiaramente considerato nel Nuovo Testamento come la prefigurazione della Resurrezione di Cristo[10].
L’orchidea farfalla è dipinta proprio sotto il cartiglio tenuto in mano dal profeta, nel quale traspare la scritta “CLAMA(VI)” (fig.15), che è l’inizio della preghiera di Giona a Iavhè (Gio 2, 3):
«et dixit: clamavi de tribulatione mea ad Dominum et exaudivit me. De ventre inferni clamavi et exaudisti vocem meam»,
preghiera di invocazione che Dio ha esaudito facendo rinascere il profeta a nuova vita, dopo tre giorni passati nel ventre della creatura marina.
L’episodio di Giona è stato spesso rappresentato nella storia dell’arte e gli artisti hanno interpretato la creatura marina come un grosso pesce, spesso però come un mostro marino, più esattamente una Pistrice, dotata di testa di drago e corpo di serpente con coda attorcigliata ed estremità pinnata; con tali sembianze figura in affreschi protocristiani all’interno di alcune catacombe di Roma (fig. 16);
la Pistrice è anche raffigurata nel mosaico pavimentale della Basilica di Aquileia (fig. 17),
inoltre nel Salterio Chludov, dove Giona è ritratto in atteggiamento orante nel ventre del mostro (fig. 18)
e ancora nel bellissimo ambone dell’Epistola a Ravello, con la stessa Pistrice che da un lato dell’ambone ingoia Giona e dall’altro lo rigurgita (fig. 19).
Non sarà un caso che una Pistrice compare anche all’interno dell’Oratorio di San Pellegrino, probabilmente per evocare l’episodio di Giona; qui il mostro marino è raffigurato in bassorilievo in uno dei due plutei posizionati al centro dell’aula (fig. 20).
Ugo IMPRESCIA 19 nOVEMBRE 2023
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