Donne, Diritti, Riscatto: “C’e ancora domani”, il film capolavoro di Paola Cortellesi “parla ai cromosomi XY” contro la resilienza patriarcale.

di Francesca SARACENO

C’É ANCORA DOMANI, UN FILM-ANTIDOTO CONTRO L’ANTICULTURA.

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In tutte le sale dal 26 ottobre, pluripremiato al Festival del Cinema di Roma, venduto in diciotto paesi nel mondo, e campione d’incassi oltre ogni più rosea previsione, C’è ancora domani (Vision Distribution) è il primo lavoro da regista di Paola Cortellesi, che ne ha scritto la sceneggiatura insieme a Giulia Calenda e Furio Andreotti; ed è uno di quei rari film per i quali la critica (popolare e di settore) converge, in maniera pressoché unanime, in un caloroso e meritatissimo applauso. D’altra parte non è un caso che – in un periodo di poco precedente alle vicende narrate nel film –  il cinema sia stato definito “la settima arte”. E il motivo è molto semplice: il cinema è ARTE. Lo è davvero, nel senso più largo e inclusivo del termine. È creatività, figurazione, poesia, musica, letteratura, costruzione, rappresentazione; e tutto questo concorre in percentuali variamente distribuite, al successo dell’opera finale. E quando un film ti fa vedere il mondo, la realtà, il passato e il presente, quando ti regala una visione, quando ti racconta la storia, la tua storia, e capisci che quella storia sei tu, che la storia la fai tu… allora è arte sublime. Pertanto, un film come quello che Paola Cortellesi è riuscita a creare può essere osservato – vissuto, direi – proprio come un quadro; un’opera d’arte, per l’appunto.

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E come spesso accade in certi quadri importanti, i soggetti ritratti raccontano la storia prendendo a prestito volti, movenze ed espressioni di grandi modelli. È toccato a uno strepitoso Valerio Mastandrea l’ingrato ruolo – magistralmente interpretato – del “diavolo” che nessun avvocato potrà mai difendere, sebbene strada facendo si faccia largo nello spettatore un certo senso di ineluttabilità, che certamente non giustifica Ivano, ma lo fa percepire un po’ ostaggio di uno stereotipo; o come lo ha definito la stessa Cortellesi, in un’intervista, “vittima di una diseducazione o di una educazione alla prevaricazione”.

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Mentre alla giovane ma già navigatissima Romana Maggiora Vergano, l’artista Cortellesi ha affidato il ruolo-chiave di coscienza “visibile” della protagonista; Marcella è il riflesso profondo dell’anima di Delia che chiede a gran voce di essere “liberata”.

E poi Emanuela Fanelli, Alessia Barela, Giorgio Colangeli, Paola Tiziana Cruciani, Vinicio Marchioni, Francesco Centorame, Yonv Joseph; tutt’altro che figure di contorno. Ciascuno dei loro personaggi, in questo quadro/film, è un elemento essenziale della composizione, tratteggiato sapientemente per accompagnare lo spettatore verso il traguardo designato.

C’è ancora domani, che nelle intenzioni della Cortellesi è “un film contemporaneo ambientato negli anni quaranta”, è stato considerato “femminista”; può darsi, ma a mio parere è più che altro un film “femminile” (il rosa nel titolo sulla locandina non sarà un caso), nel senso che è concepito interamente con cromosomi XX, ma non farei l’errore di etichettarlo come un film solo “per donne”. Nonostante l’evidenza che il pubblico che affolla le sale di tutta Italia sia prevalentemente composto da donne, e che questo film abbia l’innegabile pregio di aver fatto emergere una certa “coscienza comune”, in realtà, a parere di chi scrive, esso “parla” – senza alcun intento autocelebrativo o sventolio di bandiere – principalmente ai cromosomi XY, ovvero agli uomini. Perché le donne lo sanno, non serve ribadire l’ovvio. Sanno perfettamente che ogni fotogramma di questo film è lo specchio delle loro vite, della loro storia lunga millenni. Sono certi “maschi alpha” delle vecchie e delle nuove generazioni che vanno “svegliati”. Magari con la colazione a letto con cui si sveglia Delia tutte le mattine: un ceffone e due colpi di spazzola. Senza zucchero, grazie…

E “aprite le finestre al nuovo sole che è primavera…”

L’artista Cortellesi armeggia con i suoi pennelli a setole morbide, e dipinge sullo sfondo i problemi delle donne in un mondo a trazione maschile. Te li snocciola tutti, subito, uno dopo l’altro, come un tragico Rosario. E sono i problemi delle donne comuni, quelle “non degne di nota, neanche all’interno delle proprie famiglie”, come ha affermato la stessa regista. La casa, i figli, l’anziano despota e vizioso da accudire, il lavoro necessario ma sottopagato… perché lei non è “omo”.

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E allora cominci a contorcerti nella poltrona, già dopo dieci minuti, mentre ti si accroccano le viscere; perché lo sai, tu donna lo sai perché ci sei passata, perché ci sei dentro. Adesso. Ancora.

Allo stesso modo, non serve che alle donne si ricordi come si governa una casa, come si fanno quadrare i conti, come si risparmia. O come ci si possa avvilire cercando di raddrizzare due figli maschi affetti da cinismo patologico, destinati a calcare le infime, sordide orme del padre, senza trascurare il futuro di una giovane illuminata promessa del mondo sottraendola all’ingrato destino del suo “genere”.

Tutto questo serve agli uomini, a certi uomini reperibili ore pasti solo in caso di emergenze, o sprofondati full time sul divano davanti al dio pallone, salvo pause boxing sulla faccia delle mogli giusto per sgranchirsi le nocche anchilosate dall’ozio. Anche se la saggezza insegna che “nu je poi menà sempre, sennò s’abitua”.

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I pugni come gli antibiotici… non sia mai l’assuefazione.

Pensando – forse non a torto – di fargli un complimento, qualcuno ha definito questo film “didascalico”, ovvero confezionato appositamente per divulgare ‘urbi et orbi’ come funziona da millenni il sempre verde e mai del tutto dismesso sistema patriarcale; che – per inciso – non è quello troppo semplicisticamente inteso in cui la ‘donna-angelo-del-focolare’, cura la famiglia e i figli, perché questo lo fa a prescindere. Ma è, invece, quello più subdolo in cui viene esercitato un potere di controllo capillare, metodico e ideologico sulle donne. Sarà un segno dei tempi, di questi tempi a tinte fosche, non così dissimili dalle pennellate di bianco e nero che l’artista Cortellesi ha raccolto su una tavolozza tirata fuori da un vecchio baule impolverato, come un ricordo lontano, una specie di deja-vu, per ricordarci chi eravamo, da dove veniamo, cosa eravamo. E siamo ancora: Dio patria e famiglia. Tradizionale, ovviamente.

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Come quella del film, dove ciascun membro si infetta ignaro – da millenni – alla stessa fonte venefica. É lì, in quel sottoscala post bellico arredato con quello che le bombe hanno risparmiato, che il retaggio antico si deposita e stratifica sopra una natura morta umile, tarlata, ma col centrino e il soprammobile sulla tavola. Dignitosa. Come la frutta dentro la canestra di quel tale pittore… E come quella canestra, immobile, la stanza assiste. Fluttua silenziosa mentre la mestica assorbe il fruscio della solitudine, l’odore acre della disillusione, ma non contiene l’eco sorda delle percosse.

Come si fa a raccontare l’orrore della violenza di genere in modo che si possa “digerire”, da questa parte dello spazio-tempo? Che non passi come l’ennesimo fatto di cronaca condominiale a cui ci siamo pericolosamente assuefatti? Che la si possa osservare in tutta la sua efferata, immutabile, attualità, senza sfociare nel più becero e contemporaneo voyerismo? La Cortellesi, da sempre interprete di ruoli – per così dire – “leggeri”, ha dichiarato:

“l’unico modo che conosco per smontare un climax è quello dell’ironia. Forse il mio senso del ridicolo non mi consente di vivere fino in fondo un momento iper-romantico o iper-drammatico, e allora lo devo spezzare con qualcosa.”

Ed ecco che la nostra artista prova a spezzare questo tragico climax “iper-drammatico” alla sua maniera: a tempo di musica. Perché, come ha dichiarato Valerio Mastandrea, “in quella famiglia quella routine delle botte era come mettere su un disco.” Quindi, se Achille Togliani canta Perdoniamoci (notare l’ironia tagliente del titolo scelto che parla al plurale, e aprirebbe un’autostrada di considerazioni…) magari il labbro spaccato, il sangue dal naso e i lividi sul collo si sopportano meglio; vanno e vengono, appaiono e scompaiono. Finito il disco, ci si rimette il grembiulino e “si va avanti” … attori e spettatori. Perché è esattamente così che va, dietro a certe porte chiuse. Altro che ironia. E poi Ivano danza benissimo, tra un manrovescio e l’altro, mentre passano i flashback dei bei giorni andati, quando Delia credeva ancora nell’amore di quel giovane soldato che le lasciava il suo cuore. In realtà la delicatezza che vorrebbe usare la Cortellesi (gliene diamo atto e gliene siamo grati), lungi dall’edulcorare alcunché, raggiunge gli spettatori con la stessa grazia di un treno merci lanciato a rotta di collo – è il caso di dirlo – sulle loro coscienze sopite. E direi anche opportunamente.

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Grandissima, immensa artista, la Cortellesi.

Anche perché il vero punto focale di questo film non sono tanto le botte, o che Delia “è ‘na brava donna de casa, solo c’ha sto difetto che risponne”; non è il fatto che venga zittita e umiliata davanti ai figli, come non è che tutto questo ronzi nell’aria, costantemente, come una minaccia sulle teste di tutti, e poi si concretizzi, però, “a porte chiuse”.

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È che tutto questo va spiegato a una ragazzina poco più che adolescente che sta per fare lo stesso identico salto nel buio della madre.

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E non capisce. Marcella (tutte le Marcella, di allora e di adesso) non si capacita che dopo aver subito il pestaggio, mamma possa avere animo di mettere la colonia a papà perché arrivi profumato al rendez-vous con le sue puttane. È furiosa e impotente. Finché Delia continua a subire passivamente lei è destinata a fare lo stesso. Finché Delia continuerà ad accettare e giustificare le vessazioni di Ivano che è sempre nervoso perché – poverino – “ha fatto du’ guere…” Marcella è condannata allo stesso martirio. Il dialogo muto tra queste due donne, madre e figlia, specchio e coscienza, presente e futuro, si snoda sul filo sottile dei loro sguardi che si rincorrono e si sfuggono. E Delia lo sente, come lo sentiamo noi da questa parte della tela-film, chiaro e forte, il grido disperato di Marcella:

“Ma perché te fai trattà così? Lo vedi che non vali niente? Non conti niente!”

Leggasi: trova il coraggio, mamma. Fallo per me.

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Ma Delia non trova coraggio, trova solo lividi e piatti sporchi. Non vede alternative “possibili”.

Che pure ci sono, e la pittrice Cortellesi le tratteggia tutte, con le sue leggere velature a sfumare – un po’ tragedia e un po’ commedia – che però non ne inficiano l’evidenza. Perché passare ogni giorno davanti a quell’officina e incrociare gli occhi buoni di Nino, il treno perso che non passa più, ma in realtà non chiede altro che un’ultima fermata per farla salire, è un’alternativa.

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Come lo sarebbe l’aiuto di “Uìllian”, il soldato di colore afro-americano con “un sacco de denti. Più de noi me sa”, con una famiglia lontana e un’intelligenza acuta nel captare in inglese i problemi italiani tatuati sul braccio livido di Delia/Devoannà; la sua figura “liberatoria” e gentile, color cioccolato, non è posta lì solo come elemento contestualizzante per fissare un determinato periodo storico, ma porta con sé tutto il carico pesante di secoli di colonialismo, di sfruttamento, di promesse mantenute solo in parte e a carissimo prezzo, di ondate “di ritorno” incontrollabili. Perché in fondo i destini degli oppressi si somigliano tutti… e la loro solidarietà ha maggior valore, come il loro riscatto.

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Ed è un’alternativa esemplare Marisa, l’amica/confidente fruttivendola che in uno mondo come quello può permettersi di scherzare col suo Peppe intimandogli “lavora, schiavo”; la meravigliosa Marisa, che al banco del mercato dirige lei le operazioni di vendita e non il marito, perché è più scaltra, più intelligente, più attenta, più tutto, e lui – udite udite! – la ama.

Si, la ama per questo ed è felice di avere al fianco una donna così determinata e capace.

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Cose dell’altro mondo, quello ancora da venire ma che in fondo è sempre stato lì, sommerso di botte e umiliazioni, zittito perché non osasse mai alzare la cresta, figuriamoci la voce. La presenza di Marisa nel film costituisce di fatto l’eccezione che conferma la regola, ma non si può ignorare.

L’alternativa è una scelta, e l’artista Cortellesi è superlativa nel delineare uno statu quo che sembra immutabile e immutato eppure è lì che ribolle, scena dopo scena, in un sentore rivoluzionario silenzioso ma inesorabile. E a proposito di immutabilità, provando a trovare il neo a questo film, come un ago nel pagliaio, è stato imputato alla Cortellesi-attrice un certo immobilismo, per così dire, fisiognomico. Delia sembra avere una sola espressione; ma non è un difetto di recitazione della Cortellesi. É che a Delia è concessa solo quella. Perché mai dovrebbe avere un’altra o altre espressioni? La senti proprio questa domanda che sibila nel silenzio della sala, tra un fruscio di giacche e uno scrocchio di popcorn. A che le serve…   la risposta ti sale dal buio ancestrale di una coscienza antica come il mondo   …visto che è una donna?

Le donne… strane creature. Le puoi caricare come muli e non battono ciglio. Chissà perché Dio le ha dotate di parola. Ma soprattutto perché mai le donne parlano. Dovrebbero saperlo che è superfluo, che è un oltraggio, uno sforamento dalle loro specifiche “competenze”. Ma parlare almeno tra di loro, questo possono farlo, senza ledere alcuna “maestà”. Anche se è solo per accapigliarsi, per rinfacciarsi le reciproche miserie. E non è che la Cortellesi ci tenesse a puntualizzare quanto possono essere meschine, invidiose o altezzose le donne, perché anche questo ricade nella categoria dell’ovvio. Ci tiene piuttosto a chiarire che ciascuna di loro ha un motivo per remare contro, per reagire a brutto muso alle vicende altrui o per guardare le proprie simili dall’alto in basso. Ed è lo stesso motivo per tutte, povere, ricche e “arricchite”. Perché “stai zitta” è un abuso “di genere” che travalica i secoli e colpisce indiscriminatamente, senza guardare alla condizione sociale. I bei vestiti e l’atteggiamento snob sono solo una maschera, neanche tanto ingannevole. È lo stesso identico abuso che si perpetua dalla notte dei tempi e corrode le anime delle donne fino a una specie di sindrome di Stoccolma che le aiuta a sopravvivere.

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Chiunque abbia visto questo film racconta di un “finale a sorpresa” che – giustamente – evita con cura di spoilerare perché lo spettatore possa fare il suo percorso di coscienza ammirando l’opera, cercando di decriptare il messaggio contenuto nel quadro/film. Eppure quello che sarà l’epilogo di questa storia lo spettatore ce l’ha davanti agli occhi, risuona nelle sue orecchie fin dalla prima scena, fin dalla locandina, direi: c’è un sole “nuovo” fuori dalla finestra… Ma la chiave dell’enigma, anche per chi non ha le antenne in posizione, arriva inequivocabile a metà del film. Inaspettatamente, una mattina, sulle scale…

“Delia, ce sta la posta”

“Datela a Ivano, che io nun ce capisco gnente”

“Mejo de no… non è pe’ Ivano. È pe’ voi.”

“Come pe’ me?”

“Eh si… è na lettera”

“Non è possibile…”

“C’è sta er nome vostro…”

Incredibile. E infatti Delia non ci crede. Non può credere che qualcuno o qualcosa nell’universo-mondo abbia messo il suo nome, proprio il suo, su un pezzo di carta. All’improvviso, nell’universo-mondo, Delia, autorevolmente “esiste”; proprio lei, che non “esiste” nemmeno a casa sua. E a quel punto, l’ho sentito salire come un’onda di piena il brusio delle coscienze di tutte le donne sedute in sala con me. È la svolta. Anche il più “distratto” degli spettatori, in quel momento, capisce. Quella lettera è la chiave che apre la porta e disvela il mistero di un mondo nuovo che, in realtà, si sta dipingendo già dall’inizio sullo sfondo di questo magnifico quadro, via via che la pellicola scorre. Basta osservare quello che accade intorno ai protagonisti, fuori dalla porta di casa, per le strade, sui muri scrostati di questa Roma bicromatica tappezzata di manifesti, per cogliere gli indizi che l’artista Cortellesi dissemina fin dalle prime sequenze.

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La città è in fermento. C’è una strana aria di attesa, frizzantina. Quella primavera che si apriva al nuovo sole e ci sembrava cinguettare beffarda nella cruda scena d’apertura, in realtà conteneva già la promessa di un domani che “c’è”, è in quella lettera, e sta per cambiare la storia. E per prima cosa, cambia il punto di vista di Delia; le insinua il dubbio, le pianta un seme che trova terreno fertile e germoglia, imperioso, nel momento in cui Giulio comunica a Marcella che non deve più truccarsi e non andrà più a lavorare dopo il matrimonio:

“E chi t’o dice?”

“T’o dico io. Tu sei mia.”

In quel preciso istante, chi ancora pensa che le donne “che non esistono nemmeno a casa loro siano esseri passivi, malleabili, plasmabili secondo intenzioni altrui, è costretto a ricredersi investito da una tranvata in pieno viso: l’espressione ipomimica di Delia lampeggia adesso di strani bagliori, si piega in uno strano sorriso. É ora di svegliarsi, caro spettatore XY addormentato: boom!

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“Questo matrimonio non s’ha da fare.”

Non è solo il bar dei consuoceri che esplode e manda in frantumi le nozze di Giulio e Marcella, è la coscienza di Delia, è il suo 14 luglio 1789 che sfonda le barriere dell’impossibile. È “La notte dei miracoli”, e Lucio Dalla torna dall’oltretomba per regalare all’artista Cortellesi, e a tutte le Delia del mondo, la certezza che nelle mani, nella mente, nel cuore delle donne tutto – ma proprio tutto – è possibile.

La lettera inattesa, spiegazzata e chiusa in un cassetto perché nessuno la trovi, si impone adesso sulla scena come la mela bacata di quel tale pittore, perché nel contenuto di quella lettera lisa che lo spettatore non conosce, si compie il miracolo, la “scelta” che cambia le sorti di Delia, di Marcella, e della storia d’Italia. Perché si, abbiamo capito che siamo nell’immediato dopoguerra ma adesso sappiamo anche che anno è… e che giorno è (e no, non c’entra Battisti).

L’artista Cortellesi ha una missione e la sua creatura parla la lingua muta della bellezza che fiorisce anche in mezzo all’inferno; e quanto sono belle le donne che ridono insieme, che si aiutano, si confidano, si spronano, si accettano e si comprendono!

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C’è una “sorellanza” da ritrovare anche grattando il fondo del comune, drammatico barile. E infatti alla fine si ritrovano tutte lì: la fredda commerciante, la serva e la padrona, l’arricchita e la proletaria.

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Tutte con la stessa lettera stretta tra le mani a risalire dal fondo, a compiere quel miracolo che proprio nelle loro mani trova senso e valore. Ieri, oggi, sempre. E “fatece largo che… passa domani.”

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È già trascorso un mese ma non farò la guastafeste, non vi dirò come va a finire; ribadisco solo che il finale di questo quadro/film è tutto fuorché una sorpresa: si intuisce prima ancora di andare al cinema. Ed è così chiaro perché il quadro parla all’osservatore già al primo sguardo; l’artista è il tramite, è colui – in questo caso colei – che concepisce la scena perché il messaggio arrivi.

E il messaggio è che un domani c’è sempre ma devi volerlo, devi corrergli dietro – oppure incontro – anche quando sembra che il destino non voglia, anche quando sembra che tutto sia perduto. Anche quando pensi di non meritarlo.

Che un’alternativa c’è sempre, anche se non riesci a trovarla tra i lividi e le ossa rotte; e lì, e non aspetta altro che tu “scelga” lei.

Nei giorni in cui si celebra la lotta contro ogni forma di violenza sulle donne, quest’opera cinematografica si impone all’attenzione in maniera più che mai incisiva, sostenuta da una sceneggiatura potente che è forse il suo maggior pregio, e da una colonna sonora azzeccatissima, come una voce narrante in controcanto. L’hanno detto in tanti e lo confermo anch’io: questo film andrebbe “somministrato”, come una medicina amara ma salvifica, portato nelle scuole, nei circoli culturali, negli oratori delle parrocchie, nei consultori familiari, perfino nelle carceri. Andrebbe iniettato nelle coscienze come un antidoto al veleno dell’anticultura il cui rigurgito continua incessantemente a mietere vittime, raccolto come un germoglio di speranza che spacca la crosta dura del terrore e del pregiudizio. Perché tutti, donne e uomini, ragazze e ragazzi, ci si possa addormentare in questa notte della disumanità che sembra non avere fine, pensando che non è tutto perduto, che le rivoluzioni epocali – di qualunque tipo – si possono fare anche senza armi. Con quella parola non detta che urla: io esisto, io posso, io scelgo.

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Passano i titoli di coda. Mi guardo intorno…

“Guarda quanta gente c’è / Che sa rispondere dopo di me / A bocca chiusa”

A nome di tutto l’universo cromosomico XX e XY, brava Paola. Grazie Paola.

©Francesca SARACENO  Catania, 26 novembre 2023