di Claudia ZACCAGNINI
Artista eclettico, formatosi presso l’Accademia di Belle Arti di Budapest tra il 1939 e il ’44 con due dei più importanti maestri della Scuola Romana ungherese, Vilmos Aba-Novák e István Szőnyi, dai quali ha appreso la capacità di lavorare su ampie superfici e un prepotente senso plastico e coloristico della forma, János Hajnal (Budapest 1913-Roma 2010), più conosciuto in Italia come Giovanni, nella sua lunga carriera artistica durata oltre cinquant’anni, ha avuto la possibilità e l’interesse di esprimersi in vari ambiti tecnici, mettendo alla prova le sue doti compositive ed inventive.
Le sue creazioni infatti si sono mosse liberamente tra pittura murale e da cavalletto, mosaici e vetrate artistiche a gran fuoco ed incise, illustrazioni per riviste e libri, bozzetti per manifesti e francobolli, progettazione di arredi e paramenti sacri, arazzi e stendardi dipinti su stoffa. Vincitore di numerosi concorsi, ha lavorato in molti contesti internazionali, non solo in Europa ma anche nelle Americhe. La sua vivace personalità artistica, per la nota serie di accadimenti politici in Ungheria (rammento la fuga dell’artista insieme alla famiglia dal Paese nel 1948), ha trovato in Italia, sua seconda patria elettiva, un terreno espressivo fertile e, nel corso del tempo, un importante mecenate e committente nel Vaticano, tanto da orientare una gran parte della sua produzione a carattere monumentale verso la tematica sacra. Le sue opere, in contesti architettonici sacri e profani rilevanti, a volte con una valenza storica importante, vivono abilmente incastonate dall’artista che ha sempre ritenuto significante il dialogo tra le sue creazioni e l’ambiente nel quale sono state accolte.
Un prestigioso ambiente architettonico nel quale fu richiesto il suo intervento creativo è la Basilica di S. Maria Maggiore in Roma.
Nel 1995, infatti, János Hajnal fu incaricato di realizzare, per la Basilica di S. Maria Maggiore in Roma, il rosone vetrario della facciata. In questa occasione, si profilava per l’artista una duplice sfida. Da un lato, l’inserimento di una vetrata contemporanea in uno degli edifici chiesastici più antichi di Roma, con una importantissima storia artistica iniziata sotto il pontificato di papa Sisto III (432-440), dall’altro, la scelta di un soggetto che non ripetesse gli assunti teologici e narrativi espressi nella basilica dedicata a Maria.
Hajnal si ispirò ad una delle affermazioni del Concilio Vaticano II nel quale il ruolo di Maria, eccelsa figlia di Sion, era considerato l’anello di congiunzione tra la Chiesa del Vecchio Testamento e quella del Nuovo.
Il suo progetto fu sottoposto all’approvazione del cardinale Ugo Poletti, arciprete della basilica liberiana, e del direttore delle Gallerie e Musei pontifici, Carlo Pietrangeli, che rimarcarono la scelta teologica nuova, ancora non elaborata da alcuno figurativamente. Nell’inserimento del rosone vetrario, che si affaccia sulla Loggia della Benedizione, l’artista era chiamato ad armonizzare il suo intervento con il tessuto musivo paleocristiano e tardo-duecentesco dell’interno, evitando che flussi cromatici troppo discordanti gettassero sugli stessi una luce inadatta, smorzando il loro splendore. Egli pensò allora di adottare una cromia tenue, poco invasiva, eccettuando il manto della Vergine Maria che, in qualità di protettrice celeste, volle concepire nei toni dell’azzurro. Il fondale, invece, in buona parte della sua estensione, ostenta una tonalità delicata di rosa, in omaggio al fiore mariano per eccellenza (Fig. 1).
Lo spunto teologico, venne elaborato dall’artista in un’efficace sintesi figurativa. Al centro del rosone compare Maria, seduta su di un seggio, con il Bambino Gesù in grembo. Sulla sua testa, lo Spirito Santo in forma di colomba. Alla sua destra figurano le tavole della Legge mosaica e la Menorah, il candelabro a sette braccia acceso nel Tempio di Gerusalemme, emblemi del Vecchio Testamento. Alla sua sinistra, la croce ed il calice con l’ostia, evidenti richiami al Nuovo Testamento. La Vergine Maria, perno della composizione, indossa un ampio manto i cui lembi si estendono nelle porzioni laterali della vetrata, con il preciso intento figurale di unire il vecchio ed il nuovo messaggio delle Sacre Scritture, per mezzo della sua persona.
Maria viene rappresentata come theotòkos, “Madre di Dio”, secondo la definizione data nel Concilio di Efeso (431), iconograficamente sottolineata dall’immagine del Bambino nudo, il Dio che si è incarnato in forma umana e generato da una donna.
L’origine dell’immagine mariana, in qualità di theotòkos, che regge in grembo il figlio, viene generalmente riferita alla dea Iside, madre di Horus. La dea è a sua volta assimilata ad Hathor, antica divinità della mitologia egizia collegabile all’archetipo della Grande Madre preistorica e protostorica. Il suo nome, che significa “dimora di Horus”, è l’esplicitazione del grembo simbolico che generò il dio bambino, figlio di Osiride.
, assunse pure il ruolo di madre di tutti gli uomini per i suoi doni di compassione e speranza. Essa viene raffigurata seduta su un trono colta nell’atto di allattare il figlio, da cui la denominazione di Isis lactans (Fig. 2). Con la diffusione del culto nel mondo romano, anche l’iconografia della dea fu veicolata entrando a far parte dell’affollato pantheon pagano. Tuttavia, a Roma, la maternità era tutelata dalla Mater Matuta, una divinità italica dell’aurora e della nascita, a cui era stato innalzato, insieme alla Fortuna, un tempio nel Foro Boario nel 200 a.C. ca. A lei si rivolgevano le donne per propiziare il dono della fecondità e la nascita. Un gruppo di ex-voto in tufo, conservato nel Museo Campano di Capua e, variamente datato dal VI al II sec. a. C, costituisce una testimonianza iconografica interessante per i precedenti della Madonna in trono col Bambino (Fig. 3).
Figure di madri sedute tengono tra le braccia o sulle gambe uno o più bambini.
Quando il Cristianesimo fu ufficializzato come religione dell’impero, si impose con una netta cesura teologica per il suo monoteismo sulla molteplicità delle divinità del mondo greco-romano. Tuttavia utilizzò come canale, per la comunicazione delle sue verità religiose, alcuni modelli iconografici tratti dalla mitologia, ricoprendoli di nuovi significati. A tale proposito, ci si può riferire ad una immagine di maternità ritrovata nel Cubicolo “B” della casa della Farnesina a Roma e oggi nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme. Si tratta di un affresco, datato al 20-10 a. C., nel quale compare una donna con in grembo un bambino, colta nell’atto di ricoprire il seno (Fig. 4).
L’immagine, derivata da un originale del IV sec. a. C., ritrae la dea Ino – Leucotea mentre allatta Dioniso bambino. In tal modo, l’immagine della dea lactans, nata in ambito pagano, fu ripresa dal mondo cristiano e riutilizzata con forti similitudini in diversi contesti tra cui quello funerario, come appare nelle catacombe di Priscilla a Roma, in cui, la Vergine è dipinta con il Bambino al petto vicino ad un profeta (Fig. 5).
Si potrebbe ipotizzare, inoltre, che la figurazione della madre seduta col bambino proposta negli ex-voto di Capua, abbia avuto, proprio per il ruolo generatrice della figura femminile, una continuità concettuale con il Cristianesimo in relazione al dogma dell’Incarnazione. Non bisogna dimenticare che, quando si iniziò la discussione teologica sulla definizione del ruolo di Maria, a livello popolare erano ancora diffusi, sia in Oriente che in Occidente, i culti per le divinità materne.
L’immagine di Maria che prima del Concilio efesino era, per il culto, assimilata alle figure dei santi, con la nuova definizione di “Madre di Dio”, assume un ruolo primario nella nascita del figlio umano e divino. Su di lei vengono convogliate quelle caratteristiche materne di protezione, salute e fiducia che definiscono le divinità femminili di Cibele, di Iside, della Mater Matuta, di Diana di Efeso. E in quest’ottica si possono leggere i “prestiti” iconici alla sua figura. Ma la tradizione cultuale pagana non fu il solo motivo ispiratore.
Ulteriori fonti sono rappresentate dal ritratto funerario romano e dall’iconografia epifanica imperiale. Analizzando il percorso di modificazione iconografica che conduce alla codifica dell’icona della “Madre di Dio”, si può fare ancora qualche riflessione. Lo spunto viene dalla numismatica imperiale. Costantino I coniò per Fausta, sua seconda moglie, un aureo da due solidi, realizzato a Treviri nel 324 (Fig. 6).
Sul recto è visibile il busto-ritratto dell’imperatrice, sul verso l’immagine nimbata della stessa. L’imperatrice, assisa su un seggio tra due figure femminili, identificabili come Felicitas e Providentia, tiene sulle ginocchia un bambino nudo a cui offre il seno. Ai lati del trono, in basso, due geni alati con ghirlande. Sembrerebbe un’immagine familiare in cui una madre allatta suo figlio. Ma la scritta che corre sul bordo della moneta “PIE-TAS AUGUSTAE”, ci riporta al rango e al ruolo pubblico della ritratta. Fausta, in veste di Pietas è l’incarnazione delle virtù familiari, con un chiaro messaggio politico: è la mater patriae che protegge l’unione matrimoniale, il benessere e la sicurezza dell’impero. In tal modo viene ufficialmente esaltata la fecondità di Fausta di cui ella è la personificazione.
Tacito (Ann. XV, 232) riferisce che la dea della Fecunditas fu introdotta nella religione ufficiale romana nel 63 d. C., quando il Senato deliberò che le fosse dedicato un tempio. La personificazione della Fecunditas ci viene proposta come donna seduta o stante che abbraccia uno o più bambini, talvolta ne allatta uno o stende la sua mano sopra un fanciullo al suo fianco. E’ accompagnata da vari attributi quali lo scettro, la cornucopia, un ramo, un fiore o il globo stellato. Ciò che ci interessa è la sua iconografia di donna assisa su un seggio con un bambino in grembo che allatta, immediato riferimento figurale a Fausta e che ha alcuni suoi precedenti nell’Era di Otricoli del Museo Chiaramonti vaticano, datata variamente tra il I a. C e il II secolo, e sulle monete delle imperatrici romane (Fig. 7) come il sesterzio dell’Augusta Annia Lucilla (150-182) o il denario di Giulia Domna (170 ca.- 217).
In conclusione, il Cristianesimo deriva l’iconografia di Maria Theothokos dal repertorio figurativo dell’arte romana ufficiale, connotandola di quella magnificenza e sacralità attribuita ai personaggi di rango imperiale. Non è un caso che nei mosaici della Basilica romana di S. Maria Maggiore, la Vergine Maria, seduta su un seggio, abbia il fasto dell’abbigliamento e la postura da imperatrice. L’opera di Hajnal, all’interno dell’edificio chiesastico con il quale papa Sisto III volle sancire il nuovo status teologico di Maria, stabilito dal Concilio di Efeso nel 431, esprime, nell’immagine della Madre assisa col Bambino in grembo, l’intenzionale scelta dell’artista di adottare un modello iconografico tratto dalla tarda-antichità. In tal modo il rosone vetrario dell’artista ungherese poteva inserirsi a pieno titolo nel programma dottrinario espresso nel ciclo musivo, aggiornando significativamente il nuovo ruolo della Madre di Dio espresso dal Concilio Vaticano II.
Claudia ZACCAGNINI
Bibliografia essenziale:
- Zaccagnini, Aspetti iconografici classici e tardo-antichi nel linguaggio artistico di János Hajnal, in L’eredità classica nella cultura italiana e ungherese del Novecento dalle Avanguardie al Postmoderno, a cura di P. Sárközy, «Rivista di Studi Ungheresi», Supplemento al n. 13/2014, Sapienza Università Editrice 2015, pp. 211-223.
- Zaccagnini, Giovanni Hajnal vetratista nella cattedrale di Velletri, Pacini Editore, Ospedaletto di Pisa 2013, pp. 146-147.
- Luciani, Una nuova vetrata dedicata a Maria nel rosone della Basilica di Santa Maria Maggiore, in Theotòkos-Madre di Dio, n. 36 (ottobre- novembre 1995), pp. 12-13.