di Ivo BOMBA
Nel titolo Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma è già enunciato l’aspetto dell’arte del grande artista fiammingo che la mostra attualmente alla Galleria Borghese, a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simonato, ha voluto esaltare, forse l’essenza stessa della sua poetica. Fu sua la capacità di trasformare la materia pittorica in carne apparentemente viva, di rendere, attraverso la pittura, la vitalità, l’essenza vitale dei corpi restituiti in carne e ossa, sopratutto carne.
Ingres ha detto di lui:
“Rubens ha qualcosa del macellaio: c’è un sentore di carne fresca nel suo pensiero, e di bancone nella sua messa in scena”.
Certo Ingres fu animato dalla volontà mai dichiarata di criticare indirettamente la pittura rubensiana di Delacroix, ma c’è qualcosa di vero nelle sue parole.
Rubens ha sempre voluto rappresentare la carnalità, delle divinità dell’Olimpo come di Cristo. Quasi anacronistico rispetto al proprio tempo, egli è stato l’inventore del Barocco già all’inizio del ‘600, quando Gianlorenzo Bernini era ancora un bambino. Sarà proprio Bernini, una ventina di anni più tardi, a trasmutare il marmo in carne; oggi è lui, il padrone di casa alla Borghese, ad accogliere accanto al suo Plutone e Proserpina i coloratissimi, sensualissimi dipinti del maestro fiammingo.
Nel secolo precedente Tiziano aveva iniziato una personale e nuovissima riflessione sulla materia pittorica che lo aveva portato, in vecchiaia, a sperimentazioni modernissime ed inimmaginabili prima di lui. Rubens lo sapeva bene e, nel breve tempo trascorso a Madrid, si dedicò allo studio delle opere del maestro veneziano presenti nelle collezioni reali lasciando lì nel 1628 le celebri versioni barocche dei capolavori tizianeschi come l’Adamo ed Eva o Il ratto di Europa. Ma, mentre la pittura di Tiziano quanto più si faceva materica nel corso della sua vecchiaia, tanto più alludeva all’immaterialità, basta pensare al corpo di Cristo nell’estrema Pietà del ’76 ridotto ad un fantasma, quasi la sacra impronta sulla Sindone, quella di Rubens è tutta lì, potente, vigorosa e sgargiante ad esaltare la fisicità in modo inequivocabile.
Questa è stata la straordinarietà di Rubens ed è inutile cercare nell’opera di van Dyck o di Jordaens, allievo e collaboratore del maestro, la stessa dirompente vitalità la stessa attenzione alla realtà. Tra i disegni esposti in mostra è uno studio dal Toro Farnese. Rubens fa scorrere il sangue nella bestia che era stata imprigionata nel colossale marmo ellenistico; accanto ad esso ci sono due disegni di Leoni (fig. 1) (fig. 2) provenienti dal British Museum,
studi per il Daniele nella fossa dei leoni (fig. 3) del 1616 oggi alla National Gallery di Washington, non in mostra.
Mai si erano viste prima delle trasposizioni tanto fedeli alle vere fiere quanto quelle realizzate da Rubens, molto probabilmente studiate nel serraglio reale di Brussels dopo il ritorno da Roma. A contatto con le belve l’artista deve avere rinforzato la ferinità della propria pittura come poi faranno i romantici, primo fra tutti Delacroix, amante dei leoni, nella sua pittura progenitrice di quella dei Fauves.
Dal quadro di Washington i leoni ci guardano ringhiando: effetto straordinario di una strategia del coinvolgimento che è già tutta barocca, un’immagine di forte impatto emotivo che ci fa venire in mente i manifesti del Circo Barnum. Proprio questo ci disorienta di Rubens: egli suscita reazioni emotive servendosi di mezzi che ci appaiono poco ortodossi; traduce senza filtri il racconto in realtà; è il regista di una rappresentazione che ci colpisce per l’inedita evidenza realistica. Gli elementi desunti dal mito o evocati nella dimensione simbolica perdono qualsiasi tipo di stilizzazione, quella semplificazione linguistica che abitualmente consideriamo loro propria.
Anche se quadri come il doppio ritratto di Germanico e Agrippina (4) suscitano in noi meraviglia, c’è qualcosa in essi che, in fondo, non accettiamo. I due profili, desunti dalla tradizione antica dei ritratti sulle monete o sui cammei, ci vengono restituiti in una versione che ci è difficile accettare pienamente, la loro carnalità ci appare incongrua rispetto alla antica forma a cui sono ispirati. Questo trasformare il passato in presente, il marmo o il bronzo in carne, ci spiazza perché sembra che non ci siano mediazioni.
Quando Gian Lorenzo Bernini dà sembianza di vita e quasi il calore della carne alle sue sculture lo fa usando il marmo, materia che di per sé rimanda alla scultura antica, ma Rubens per questa operazione si serve del colore a olio, di una tavolozza luminosa e brillante in modo inconsueto per i nostri parametri. L’immediatezza della trasposizione porta ad un risultato che troviamo quasi di cattivo gusto perché senza quei filtri ai quali il classicismo ci ha abituati. La cultura classica di Rubens sembra quasi non influire visibilmente sulla sua restituzione dell’antico che è dominata da una volontà di immediatezza tanto prepotente da sembrarci oltraggiosa; la sentiamo quasi sconveniente anche perché essa fa a meno degli schemi rappresentativi ai quali la cultura classicista ci ha abituati fin dal primo Rinascimento.
Quando Ingres parlava di “bancone nella sua messa in scena” sottolineava la effettiva carenza di Rubens nella composizione. Nelle sue opere lo spazio è riempito dai corpi ammassati, non ci sono pause, non ci sono cesure, non c’è ritmo, quindi viene meno il parallelismo tra la pittura e la poesia che è tradizionale nella nostra cultura umanistica. Si pensi all’opera di Poussin, che è all’estremità opposta nel panorama degli artisti del tempo, le sue immagini le leggiamo, sono rime, distici che ci parlano del mondo classico. Rubens ci impressiona con masse corporee che invadono lo spazio figurativo con colori troppo vivaci e superfici vibranti e lucide più di quelle reali.
Nel Trionfo di Cristo sulla morte e sul peccato del 1616 da Pitti (5), un’erezione appena celata dal sudario allude ad un’altra ‘resurrezione della carne’. Questo modo di trattare il tema inquadra il pittore di Anversa in quella tradizione nordica studiata da Leo Steinberg nel suo “La sessualità di Cristo” pubblicato nel 1983. Il Cristo di Rubens impone la propria fisicità e sembra essere colto nel momento in cui sta per scattare in piedi facendo leva sulla gamba destra e, appoggiandosi all’asta dello stendardo che tiene nella sinistra, saltare sopra alla pietra del sepolcro. Il risorto viene svelato dall’angelo che solleva il sudario rivelando la verità del Cristo, quasi un Mrityunjaya (appellativo di Shiva come trionfatore sulla morte) in questa grande tela collocata saggiamente per la mostra accanto alla Verità svelata dal Tempo che Bernini scolpì nel 1645 (6) modernizzando il tema della Veritas filia Temporis e liberandolo dal retaggio manierista di Salviati e di Bronzino.
Questa raffigurazione del Cristo risorto ci coglie di sorpresa per la sua oltraggiosa immediatezza, ci dice una verità in un modo estremamente diretto che esula dalle convenzioni iconografiche a cui siamo abituati.
Al cospetto della sorprendente evidenza fisica del corpo del Cristo siamo turbati e, così accogliamo quella verità come fosse la prima volta che ci viene svelata. Rubens esponendo il corpo del Messia risorto ci dice che quello è il Vero e che la transustanziazione di esso nell’Eucarestia, a cui alludono le spighe sparse sulla tomba, è reale. A questo proposito ricordo il quadro che rappresenta il Cristo sulla paglia dipinto da Rubens nel 1618 sul pannello centrale del trittico dell’Epitaffio di Jan Michielsen e di sua moglie Maria Maes (7), i cui nomi sono evocati dal San Giovanni e dalla Vergine Maria rappresentati negli sportelli.
Le spighe, simbolo del sacramento eucaristico esposto sull’altare come il corpo di Cristo sul sepolcro, sono rappresentate con un naturalismo straordinario. L’elemento simbolico delle spighe, evidentemente appartenente alla tradizione fiamminga, lo ricordiamo rappresentato nella mangiatoia dove è addormentato il Bambino nella Madonna della Paglia dipinto da Anton van Dyck tra il 1625 e il 1627 durante il suo ultimo soggiorno a Genova, ora a palazzo Corsini.
Rubens ha sempre teso a ripercorrere a ritroso il passaggio dalla realtà all’immaginazione, facendo riapparire come reale ciò che conosciamo dal racconto. Non è un caso se negli anni romani fu un entusiasta sostenitore della pittura di Caravaggio. Solo che nella pittura di Caravaggio, che fu quasi esclusivamente pittura religiosa, i racconti dei libri si fanno presente rivelati dalla luce che è manifestazione del divino, mentre nella pittura di Rubens il passato diventa presente liberandosi dalle mediazioni e con esso convive. Il passato, quello remoto, quello prossimo, il mito e la realtà, tutto coesiste grazie alla maestria del pittore che rende tutto attraverso l’uso di una tecnica vivificante. L’artista è Pigmalione, appunto.
La relazione tra l’evidenza dell’immagine e il temporaneo disorientamento di chi la guarda è il tema di un quadro che intendo qui ricordare, quello che viene erroneamente identificato come l’Incredulità di San Tommaso, forse per le evidenti similitudini con l’opera che Caravaggio ha dipinto nel 1601, già nella collezione Giustiniani nel 1606 dove Rubens deve averlo visto, oggi a Potsdam. In realtà il pannello centrale del trittico dell’Epitaffio di Nicolaas Rockox e di sua moglie Adriana Perez (1613-18) (8), oggi al KMSKA di Anversa (non in mostra a Roma), raffigura l’apparizione di Cristo ai discepoli descritta nel Vangelo di san Luca, dove è riportato che l’improvvisa apparizione del Maestro dopo il seppellimento del suo corpo lasciò i suoi compagni “sconvolti e spaventati” (24:37).
Sperando di convincerli che non era uno “spirito”, Cristo mostrò loro quindi le ferite sulle mani e sui piedi, invitandoli a “toccare e vedere” (24:39). I discepoli non lo fecero e credettero alla sua resurrezione solo dopo avere consumato un pasto con lui. Nicolaas Rockox, con la mano destra sul cuore, ha un breviario nella sinistra e con l’indice tiene il segno, senza dubbio dell’episodio evangelico narrato da San Luca. Il suo sguardo non è fisso, come quello dei discepoli, sulle ferite di Cristo ma in alto di fronte a sé, in contemplazione di quanto ha letto. Mentre tre discepoli sono incerti se cedere al dubbio e concludere che i loro occhi li stanno illudendo o sospendere il giudizio e avere fede che quello è veramente il Cristo risorto, Nicolas Rockox sta esercitando la facoltà dell’immaginazione. Adriana Perez, con lo sguardo rivolto a noi, ci mostra il rosario con le cinque perle grandi che alludono alle cinque ferite sul corpo di Cristo, concretezza e validità del simbolo.
Il quadro gioca sul rapporto tra realtà e immaginazione, apparizione e corpo vero, tangibile, forma e simbolo. Lo possiamo annoverare tra quelle opere che con acutezza tutta seicentesca indagano la funzione delle arti figurative.
Il Barocco, fondato sulla ‘verosimiglianza’, ha aperto nuovi orizzonti al rapporto tra il vero e il possibile, a sua volta connesso da un lato alla teoria della salvezza della Chiesa cattolica, e dall’altro alla relazione tra le intuizioni e le prove nel percorso della ricerca scientifica. E’ l’eterna, meravigliosa ambiguità creata dall’arte figurativa.
Rubens che ha studiato i classici greci e latini fin dalla prima giovinezza, che è stato amico di umanisti e filosofi, del più importante editore di Anversa e forse d’Europa, è stato il perfetto interprete della cultura più moderna dell’Europa del XVII secolo. Possiamo affermare che è stato l’inventore del Barocco e che, dopo l’esordio alla corte dei Gonzaga, il successo nella Genova degli armatori e nella Roma dei papi mecenati, è riuscito a diffondere il proprio linguaggio originalissimo da Anversa, a Madrid, da Parigi a Londra proprio in virtù della internazionalità di quel linguaggio fondato sull’immediatezza e sull’ostentazione dell’opulenza intesa come esaltazione della materia.
Ivo BOMBA Roma 17 Dicembre 2023