di Francesca SARACENO
Ultimamente mi capitano per le mani dei libri davvero particolari; singolari per tematica e per trattazione. Quel genere di libri che ti spalancano porte e portoni, autostrade di conoscenza e meraviglia inattese e, per questo, avvincenti.
È il caso di “Canova. Non devesi però tacere della farfalla” (fig. 1), un volume edito da L’Asino d’oro (2023), a cura di Anna Maria Panzera, docente e storica dell’arte che vanta diverse collaborazioni e pubblicazioni in abito artistico, con testi dello scultore e restauratore Alessandro Carlevaro, e dell’esperta di discipline della musica e dello spettacolo Marina Longo.
Già dalle specifiche competenze degli autori si comprende che la figura artistica di Antonio Canova, sommo scultore attivo in quel secolo illuminista e “illuminato” che fu il Settecento, non sarà raccontata in maniera convenzionale; il titolo del volume è già “profetico” degli obbiettivi e delle intenzioni degli autori.
Non una biografia, non una monografia, ma uno sguardo attento e alternativo su due opere in particolare eseguite dal grande maestro veneto tra il 1787 e il 1796, che interpretano in maniera diversa uno stesso soggetto: il mito immortale di Amore e Psiche. Il libro si compone di tre parti curate ciascuna da uno degli autori, per complessivi cinque capitoli, e si correda di belle immagini, nonché di un’estesa bibliografia.
Nell’introduzione la Panzera espone l’intento primario del volume che è quello di sottolineare l’originalità dell’artista in un periodo storico in cui il ritorno al classico ellenico era preponderante. La curatrice del volume si sofferma sulle tante suggestioni e ispirazioni che le due opere iconiche del Canova, Amore e Psiche (giacente e stanti, figg. 2 e 3), hanno suscitato nel tempo, fino ai giorni nostri, nella nostra epoca che è quella delle immagini, per l’appunto.
E il nostro rapporto odierno con le immagini, così epidermico, intuitivo e pervasivo, è fondamentale per comprendere le origini di un metodo e di un intento comunicativo inventati dal Canova e ripresi più volte nel tempo. Quell’ideale di bellezza perfetta – ovvero sublime – priva di orpelli e ridondanze, che arriva subito al cuore (o “alla pancia”) dell’osservatore, penetrando gli strati più profondi della sensibilità, fino a farsi “linguaggio”.
Ma la cultura dell’immagine, che di fatto si fonda sulla visione, che è esperienza superficiale, esteriore delle cose, fa del soggetto figurato un elemento rappresentativo, iconico, universale, trasversale ed eterno, e perciò leggibile secondo parametri variabili a seconda della recettività dell’osservatore e del momento storico in cui il soggetto viene osservato. Per tale motivo gli autori e la curatrice del libro si propongono di rendere omaggio a un artista le cui opere sono entrate tanto profondamente nell’identità e nel sentire comune proprio per la loro intensa espressività: lineare eppure eloquente, leggiadra eppure profonda. Lo fanno indagando le due versioni di Amore e Psiche nel solco di un Neoclassicismo che l’artista non accoglie passivamente, ma rielabora in chiave personale rispondendo al bisogno, probabilmente insito nella natura dell’uomo, di superare gli schemi senza negarli; in un contesto dove l’aderenza alla tradizione classica non implica la fedeltà “forzosa” a un codice prestabilito e immutabile, ma ne fa la “misura” della inevitabile evoluzione. Questo sentore di cambiamento, negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento, si riscontra in ogni ambito artistico, e soprattutto nella musica e nella danza, discipline di cui il Canova fu attento osservatore e raffinato estimatore.
Ed è nel solco delle arti musicali e coreutiche, che costituiscono la struttura portante e l’essenza stessa delle opere teatrali di quel periodo, che Marina Longo conduce, nella prima parte del volume, la sua dissertazione sulle possibili influenze della musica, del canto, della danza, ma diremmo della rappresentazione teatrale in toto, sull’opera del Canova e sulle due che costituisco oggetto specifico di indagine del libro. Interessante e metodico il percorso che la Longo intraprende alla ricerca di impronte evidenti, di segni inequivocabili lasciati da musica e danza nell’arte del Canova, a partire dalle testimonianze dirette dell’artista, nei numerosi disegni, bozzetti e sculture, nelle sue frequentazioni e corrispondenze epistolari con varie personalità dell’ambito culturale in cui si muoveva.
Ed è importante, per comprendere la genesi del pensiero artistico dello scultore, collocarne lo spirito e la ricerca stilistica nel contesto storico che precede i clamori della Rivoluzione francese e i successivi rigori dell’era napoleonica, che tanto infiammò quanto divise gli animi nella vecchia Europa. Allo stesso modo è necessario inserire la vicenda artistica del Canova nella temperie culturale di fine Settecento, nella Venezia in cui nascono – ben poco accolte – le istanze di rinnovamento volte a superare la tradizione della commedia dell’arte in favore di una caratterizzazione più popolare e borghese; con Carlo Goldoni nel teatro di prosa, con Antonio Vivaldi nella musica strumentale, con Lorenzo da Ponte nella librettistica. La Longo sottolinea come certi soggetti mitologici piuttosto in voga in quegli anni, fossero fonte di ispirazione non solo come soggetto artistico ma anche funzionali come volano di rinnovamento concettuale e stilistico. Il melodramma Orfeo ed Euridice messo in scena dal compositore tedesco Christoph Gluck e dal librettista Ranieri de’ Calzabigi nel capoluogo veneto nel 1762, e poi quello di Ferdinando Bertoni nel 1776, costituisce un canovaccio ideale e verosimile per quello che sarà la rappresentazione scultorea del medesimo soggetto da parte di Canova (fig. 4).
Lo scultore potrebbe effettivamente aver assistito a queste rappresentazioni e aver assimilato le suggestioni semplici ma intense delle orchestrazioni nella “vibratile linea melodica del flauto che canta amore e dolore”. È una concezione nuova del soggetto musicale che si allontana dalle enfatizzazioni operistiche della prima metà del Settecento; una linea armonica che cerca la purezza del suono per accompagnare il racconto di un momento, che lo descriva nella sua espressione più sensibile. Un concetto che Canova farà suo e svilupperà anche a Roma, meta di ogni artista che volesse intraprendere lo studio dei più preziosi marmi antichi, con cui lo scultore veneto si confronterà in maniera assolutamente personale, cercando un proprio linguaggio espressivo che si discostasse dalle regole imposte dal Neoclassicismo, dalla stagnazione di un metodo e di una rappresentazione troppo legati alla tradizione e a canoni estetici prestabiliti. Pur misurandosi anch’egli, per un certo periodo, con la possanza eroica dei marmi greci, Canova a un certo punto si trovò a sperimentare un nuovo ideale di bellezza che desse voce ai sentimenti più veri, attraverso linee semplici, volumetrie morbide, movenze delicate, che fossero espressione di una realtà che si intuisce senza forzature. La forza era già nel sentimento, nei “moti dell’anima” che si intendeva rappresentare, e dunque la trasposizione artistica (fosse essa pittorica, letteraria, musicale o coreutica) doveva lasciar trapelare solo la purezza della sensazione epidermica, il tocco leggero dell’emozione, raggiungendo così quell’ideale di bellezza armonica che aveva il suo fondamento nell’antico ma trovava più fresca linfa nel nuovo corso delle arti.
La Longo ci accompagna così nel viaggio di apprendimento e coscienza del Canova tra Venezia, Firenze, Roma e Napoli, dove l’artista assisterà a diverse rappresentazioni teatrali e vivrà personalmente l’affermarsi di questo concetto nel mondo della musica e dell’opera, che vedrà nelle composizioni di Paisiello e Calzabigi il superamento del limite netto tra “opera seria” e “opera buffa” per virare verso un percorso più intenso, corale e drammatico, in cui i compositori non “imitano” passivamente i loro predecessori ma seguono un’intuizione originale, attraverso la semplicità delle melodie ottenute con pochi strumenti, sapientemente adattati al soggetto da mettere in scena. Lo stesso concetto che adotterà il Canova, il quale guarderà con reverenza alla statuaria antica ma per interpretare in maniera del tutto nuova e personale i suoi soggetti scultorei, che avranno proprio nella semplicità e morbidezza delle forme la loro più intensa espressione.
Lo stesso Mozart che avrà modo di conoscere le opere di Paisiello, Cimarosa e Salieri, maturerà la convinzione che il loro successo si reggesse sulla essenzialità della partitura musicale, a scapito di libretti spesso non all’altezza delle composizioni:
“Perché piacciono le ridicole opere italiane? […] Perché vi domina la musica. […] I versi sono certamente indispensabili per la musica – ma le rime fini a se stesse sono del tutto nocive. […] La cosa migliore è quando si incontrano un buon compositore […] e un poeta intelligente. […] Se noialtri compositori dovessimo seguire sempre alla lettera le nostre regole […] faremmo della musica mediocre come i loro libretti.”
Un giudizio a tratti sprezzante e che risente certamente della professione di compositore ma che centra il fulcro della questione: l’armonia della composizione, come anche la bellezza dell’immagine, non sempre si raggiunge seguendo percorsi prescritti, piuttosto spesso “sottraendo” dall’esempio, ovvero – come spiega la Longo – “dallo scarto rispetto al modello”. Sarà lo stesso Canova a sintetizzare questo concetto dimostrando, tra l’altro, una competenza in ambito musicale che ben si accorderà con la sua arte scultorea:
“Non fo caso […] che si suonino da alcuno venti istromenti; voglio che possegga l’arte di uno, e con quello mi seduca e mi incanti.”
La musica che si accompagna al gesto e all’espressione dei personaggi in scena è un linguaggio comunicativo che trova la sua massima espressione nell’essenzialità del dialogo tra suono e parola, tra suono e movimento. Non “polifonia centrifuga”, dice la Longhi, ma “contrappunto/contrapposto” tra i protagonisti; la scultura – nel caso specifico di Amore e Psiche giacente – incarna nelle volumetrie, nei pieni e nei vuoti, il senso del tempo musicale, che racconta e accompagna l’attimo del racconto messo in scena.
Ma è chiaro che le movenze evocate da una scultura – o da un gruppo scultoreo, come per l’appunto Amore e Psiche – rimandano a qualcosa che è linguaggio tanto quanto la musica, e che anzi ne esplicita i significati attraverso il dinamismo del corpo, ovvero la danza. Canova, come riferisce la Longhi, fu curioso e interessato estimatore anche dell’arte coreutica il cui sviluppo in quegli anni si accordava a quello della letteratura e della musica, alla ricerca non del gesto enfatico, del virtuosismo dinamico e tecnico, ma del movimento leggero, semplice e naturale, raffinato e profondo, non artefatto. É lo scultore Antonio D’Este, grande amico, collaboratore ed estimatore del Canova, a rivelarci che la ricerca di questa purezza primordiale del movimento, l’artista veneto la andasse a cercare spesso per le strade dei quartieri popolari di Roma, Trastevere, Rione Monti, dove amava veder ballare le giovani popolane e ricavare ottimi spunti dalle “naturali mosse di quelle ragazze a profitto della sua arte.”
E quel “profitto” lo vediamo oggi vibrare ancora in alcuni disegni dell’artista, nella bianca pietra delle sue meravigliose Danzatrici (fig. 5), che riprendono nella plasticità della materia la delicatezza e naturalezza dei movimenti della danza.
Movimenti che non cercano più il loro riferimento primario solo nelle gambe dei danzatori, nel virtuosismo dinamico muscolare, nel salto e nella piroetta, ma trovano ampio respiro nell’apertura delicata delle braccia, nell’arco degli arti che accompagna il soffio dell’aria e si eleva al di sopra dello spazio fisico, sublimando il gesto tecnico in qualcosa di più naturale, quasi ancestrale. Non è un caso che, ammirando gli affreschi emersi dagli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano, Canova si lascerà suggestionare dalle movenze delle Menadi nella Villa di Cicerone, dai gesti antichi naturali e aggraziati, delle danzatrici nei baccanali. La danza si pone come opera d’arte compendiaria in cui, come scriveva nel 1779 Gennaro Magri, il coreografo
“deve sapere di poesia, di musica, di geometria, di pittura e scultura, al fine di saper riprodurre gli atteggiamenti delle passioni.”
D’altra parte la rappresentazione dei sentimenti è materia di studio delle arti da tempo immemore; e fa bene la curatrice del volume a sottolineare, in una nota riferita proprio al passaggio di Magri, come le “tendenze realiste ed espressionistiche del tardo ellenismo” abbiano trovato seguito negli studi dei volti grotteschi di Leonardo, nella mimica facciale del Fanciullo morso da un gambero di Sofonisba Anguissola, o nel grido spaventato del chierichetto nel Martirio di San Matteo del Caravaggio, e si potrebbe certo continuare. Come rimarca la Panzera, il Settecento
“pur con il suo impianto illuminista, si attesta sulla medesima ricerca e rivendica le potenzialità del gesto e delle espressioni.”
Sarà con la riforma di Jean-George Noverre che l’arte coreutica assumerà il carattere di filosofia; la danza incarnerà la “totalità dei sentimenti umani”, diventando una “pittura vivente” in cui “i gesti parlano all’animo per mezzo degli occhi.” E anche i gesti semplici di una tarantella saranno per Canova fonte di ispirazione e sublimazione artistica nel modello plastico della figura scultorea.
Proprio il movimento delle braccia verso l’alto diventa il gesto evocativo, voluttuoso, che costituirà – scrive la Longhi – “una svolta nella poetica dello scultore veneto.” Lo ritroviamo nelle sue Danzatrici ma anche nel gruppo di Amore e Psiche giacente, dove è probabile che l’artista abbia rimodulato in chiave plastica la rappresentazione teatrale del mito di Apuleio a cui avrebbe assistito a Venezia nel 1792 in occasione dell’inaugurazione del Teatro La Fenice, manifestando in tal modo “una convergenza di proposizioni artistiche del mito, dalle scene teatrali alla bottega dell’artista e viceversa.” L’attenzione del Canova nei confronti del teatro e della danza si ritrova persino nelle precise indicazioni che lo stesso artista forniva per la collocazione delle sue opere, per le quali richiedeva appositi piedistalli (in qualche caso addirittura ruotanti) e un’illuminazione particolare che venisse dal basso, proprio a ricreare le suggestioni e le atmosfere teatrali.
Ma tutto questo prende forma incredibilmente dal duro “sasso”, come lo stesso Canova definiva la materia inerte a cui il suo ingegno e le sue mani riuscivano a dar vita. Ed è per questo che, nella seconda parte del volume, Alessandro Carlevaro ci accompagna nel complesso percorso di ideazione, progettazione e realizzazione intrapreso dal Canova per dar forma alle sue magnifiche sculture. L’autore sottolinea anzitutto come per l’artista veneto fosse fondamentale il disegno dal vero, lo studio costante delle statue antiche, e dei modelli vivi in studio. Qualcosa che sapeva di forte naturalismo nel metodo (anche il Caravaggio operava con i modelli in studio, ad esempio) ma che tendeva a cogliere più che l’immediatezza, la profondità del gesto. Carlevaro puntualizza che questa ricerca nel Canova si evidenziava anche nella diversificazione del tratto nel disegno tra soggetto maschile e femminile, perché considerava il linguaggio del corpo fortemente identitario dell’uno e dell’altro genere.
Ma ciò che davvero costituì una novità nell’ambito scultoreo fu certamente il metodo esecutivo che Canova mise a punto e sul quale l’autore, da esperto della materia, si sofferma con particolare attenzione nell’esposizione delle diverse fasi; dal disegno su carta, con cui lo scultore abbozzava la sua idea compositiva, a un primo modellato in creta o in cera, di dimensioni ridotte, utile per fare una prima valutazione tridimensionale del soggetto rispetto al disegno. Successivamente veniva realizzato un modello sempre in creta ma in scala 1:1, in cui verificare struttura e resa della composizione, modificando eventualmente in corso d’opera pose ed elementi, tenendo sempre presente il modello dal vero, fino a raggiungere l’armonia della forma plastica desiderata. Questo permetteva all’artista di avere contezza di come sarebbe apparsa l’opera definitiva. Inoltre, spiega Carlevaro, il modello in scala naturale impediva di incorrere poi in errori di misure e proporzioni nel modellato in marmo ma anche di riprodurre più volte lo stesso soggetto.
Per realizzare questi modelli era necessario costruire delle solide impalcature in ferro di cui si occupava personalmente l’artista, che modellava e piegava il metallo secondo la forma e la posa del soggetto da rappresentare, come fosse lo scheletro della statua o gruppo scultoreo. Già in questa fase preliminare Canova lavora con il modellato posto su un piedistallo, spesso girevole, che gli permetteva di osservare l’opera da diversi punti di vista e intervenire laddove un pieno o un vuoto non rispondevano all’effetto desiderato. Ed è affascinante apprendere che l’artista si compiacesse spesso di mostrare a estimatori o potenziali acquirenti, l’opera nascente al lume di candela e in movimento sul piedistallo, generando certamente in loro la meraviglia, ma suscitandone anche i commenti – più o meno ammirati – da cui trarre indicazioni utili anche in chiave di ricezione del senso stesso dell’opera, ed eventualmente qualora l’artista lo avesse ritenuto opportuno, aggiustare il tiro.
La fase successiva vedeva la produzione del calco in gesso dal modello in creta, operazione difficile da effettuare con la massima precisione da parte di particolari maestranze – i “formatori” – esperte di questa tecnica; essi dovevano dosare con attenzione i materiali per raggiungere una densità del gesso tale da evitare vuoti d’aria. Inoltre avevano l’incombenza di sezionare il modello in creta in più parti per ottenere altrettanti calchi in gesso da assemblare successivamente e ricostituire la scultura nella sua forma originaria. Ma l’operazione più importante era quella in cui venivano inseriti su tutta la superficie in gesso delle borchie in bronzo sporgenti (i famosi “chiodi”), con la funzione di dare all’artista che avrebbe lavorato il marmo l’esatta misura e proporzione della figura da riprodurre. Lo scultore avrebbe lavorato sull’opera nella cosiddetta “ultima mano”, un momento delicatissimo ed estremamente personale, determinante e identitario dell’artefice e del suo stile, di cui Canova andava assolutamente fiero e che non delegava a nessun altro. Era il momento di finitura minuziosa in cui il marmo – sotto il movimento e la pressione sapiente delle sue mani e dei suoi strumenti – avrebbe assunto la forma, la lucentezza, la levigatezza o ruvidità desiderate, fino a ottenere quella resa così “viva” ed emozionante, che lasciava tutti ogni volta nel più totale stupore.
Un’attenzione particolare, spiega Carlevaro, era posta alla resa luministica sul marmo che aveva radici nella pittura (praticata dallo stesso Canova con successo) e nell’uso tonale del colore dei maestri veneziani con le cui immagini lo scultore era cresciuto. Questi effetti così straordinariamente empatici ed evocativi venivano enfatizzati da uno studio preciso della collocazione e illuminazione dell’opera una volta consegnata; l’artista stesso forniva specifiche indicazioni circa il posizionamento spaziale e l’esposizione alla luce della statua o del gruppo scultoreo, nonché l’eventuale piedistallo mobile, che avrebbero garantito una fruizione complessiva e totalizzante, che avrebbe coinvolto e direi quasi “sedotto” il riguardante.
Questo aspetto della rivelazione quasi epifanica dell’opera era per Canova parte integrante di un vero e proprio sistema professionale ideato e promosso dall’artista, nel suo atelier; il suo “posto”, quello in cui egli trascorreva gran parte della propria vita studiando, creando, leggendo testi classici e moderni, ricevendo amici e collaboratori; nonché potenziali acquirenti accompagnati personalmente dallo scultore, spesso al tramonto quando la luce soffusa produceva sui marmi un effetto suggestivo, in un percorso estatico alla scoperta delle sue opere. Ma lo studio di Canova era anche uno spazio di condivisione aperto a tutti coloro che volessero accostarsi alla sua arte o conversare con lui di arte, letteratura, filosofia, avendo a disposizione una biblioteca con oltre 2500 volumi. Lo stesso artista amava lavorare ascoltando qualcuno dei suoi collaboratori leggere per lui i testi classici. Un luogo di aggregazione e socialità in cui si ritrovavano i più colti intelletti e le personalità più in vista della Roma di fine Settecento, ma dove erano ammessi anche semplici cittadini, il cui giudizio Canova teneva in estrema considerazione.
Torna in mente l’aspra critica con cui Gaspare Celio liquidava il successo del Caravaggio, lodato a suo dire “oltre il dovere dalle persone non erudite.” Canova invece era molto interessato al giudizio delle persone comuni, proprio perché imparziale, non condizionato da codici estetici precostituiti, ma dettato esclusivamente dalla personale sensibilità di ciascuno, e dall’emozione che l’opera suscitava. E qual è la funzione di un’opera d’arte se non quella di suscitare emozione…
L’atelier dello scultore era un grandioso laboratorio delle meraviglie, una macchina produttiva efficiente in cui ogni attività veniva svolta nella più totale armonia e comunione di intenti; un moderno luogo di promozione e strategie di marketing, dove l’abilità delle maestranze dava ai visitatori l’idea della perizia con cui venivano eseguite le opere, e anche i modelli in creta o i calchi in gesso servivano a presentare i lavori dell’artista, fino a diventare essi stessi oggetto di interesse commerciale. Per questo straordinario opificio di creatività, per la libertà di pensiero e di espressione che in esso si respirava, Canova rifiutò gli onori delle più grandi corti europee, finanche quella napoleonica, al solo scopo di non rimanere “schiavo” dei capricci dei potenti, delle infide dinamiche di corte, che certamente avrebbero tarpato le ali al suo genio creativo.
La creatività del Canova, spiega ancora Carlevaro, era figlia della filosofia illuminista che auspicava un mondo nuovo fondato sulla sobrietà e la razionalità, ovvero la perfezione pura. Per questo dopo i clamori del barocco e del Rococò e si torna a guardare al mondo ellenico. L’autore espone, a tal proposito, un’accurata dissertazione sui fondamenti del Neoclassicismo, evidenziandone le caratteristiche peculiari e gli ideali estetici. L’artista neoclassico doveva seguire il modello ellenico imitandone lo scopo, i principi, e i mezzi utilizzati dai greci per raggiungere quell’ideale di perfezione; non si trattava di copiare ma di imitare. Cosa che si ridusse però soltanto a una diversa proposizione di soggetti, ma realizzandoli esattamente secondo i canoni ellenici. Il momento del concepimento dell’idea compositiva era il più importante, al punto che spesso gli artisti lasciavano compiere le opere agli allievi. Non così per Canova, che rifiutò sempre l’idea di copiare o di accordarsi ai canoni estetici del passato, ma volle essere libero di reinterpretare quei canoni attraverso composizioni nuove e nuovi metodi di lavoro; e volle sempre lavorare egli stesso sulle opere che creava, staccandosi così da quel concetto di impersonalità che il Neoclassicismo contemplava, e rivendicando il valore dell’originalità creativa: chi copia non è copiato a sua volta perché non ha inventato né creato niente. Per Canova l’antico ispira il moderno che si ottiene però dall’incontro tra sensazione e immaginazione, tra realtà oggettiva e fantasia. L’artista cerca il bello nella realtà e lo modifica secondo il proprio genio.
Segue, a questo punto del libro, una biografia dell’artista che si snoda sul filo della cronologia ed esegesi delle sue sculture più importanti, prodotte in diversi momenti della vita dell’artista, in cui si individua un periodo a cui appartengono opere di quello che l’autore definisce il “genere eroico e terribile”, ovvero i lavori che più si rifanno al modello classico ellenico: il Perseo trionfante, Ercole e Lica, i Pugilatori (figg. 6-7-8); e poi sul finire del Settecento si colloca il “genere delicato e gentile”, nel quale il Canova meglio esprime la sua sensibilità e la sua poetica dei sentimenti.
È il suo modo, spiega Carlevaro, di reagire alle forzature del mondo reale, alla delusione per la deriva dei valori della Rivoluzione francese, “traditi” dalle occupazioni napoleoniche e delle conseguenti razzie di opere d’arte che prendono mestamente la via di Parigi.
Nascono in questo periodo le composizioni di Adone incoronato da Venere, Venere e Adone stanti (figg. 9-10),
e opere singole come l’Ebe (fig. 11), cui seguiranno la Venere italica, il ritratto di Paolina Borghese come Venere vincitrice (fig. 12), le bellissime Danzatrici e il gruppo delle Tre Grazie (fig. 13).
E dopo questa lunga dissertazione tra tecnica e stile, l’autore arriva ad affrontare la nascita dei due gruppi scultorei protagonisti del volume, ovvero le due versioni di Amore e Psiche, giacente e stante. Un racconto certamente accurato ed empatico che troviamo a metà del percorso narrativo del volume, ma tutto sommato piuttosto breve, e che proprio per questo, forse, “annega” un po’ nella vastità di argomenti correlati che gli autori trattano. Tuttavia è notevole l’esposizione della genesi delle due opere.
La prima a essere realizzata su commissione del colonnello scozzese John Campbell, fu Amore e Psiche che si abbracciano (la versione con la dea giacente). L’idea dell’artista nasce dal suo soggiorno a Napoli (dove aveva incontrato il committente), dopo aver visitato i recenti scavi di Pompei e osservato con molto interesse gli affreschi delle antiche residenze nobili tra cui, nella casa di Terenzio Neo, il Fauno e Baccante (fig. 14) da cui trasse la prima ispirazione per la posa della dea Psiche;
mentre per quella di Amore Carlevaro individua un possibile riferimento nell’angelo con le ali spiegate che Raffaello dipinse nella Liberazione di San Pietro dal carcere per la Stanza di Eliodoro in Vaticano (fig. 15).
Ne nasce una sintesi compositiva estremamente dinamica, sospinta da un moto ellittico verticale che restituisce – avvolgente e palpabile – il senso della elevazione. L’introduzione dell’elemento cinetico, scrive Carlevari, sovverte “uno dei più antichi principi della scultura, quello di avere un punto di vista privilegiato”, costringendo di fatto l’osservatore a girarle intorno per coglierne i dettagli. Ma questo espediente, espressamente voluto dall’artista, ha la funzione e il pregio di coinvolgere totalmente il riguardante nella storia dei due amanti, di farlo partecipe della passione e dei sentimenti che dalle loro figure emana.
É il 1796 quando Canova si cimenta nella realizzazione del gruppo di Amore e Psiche stanti. Il gruppo nasce in risposta alle critiche di eccessiva passionalità, in contrapposizione con gli ideali ieratici neoclassici, suscitate dalla prima versione, nonostante l’aderenza rigorosa al testo della favola di Apuleio; ma Canova non cede di un passo alla propria creatività, e realizza un gruppo scultoreo che non segue più il dettato della fiaba, ma è pura invenzione della sua mente. Un’interpretazione del tutto nuova con i due amanti in piedi, vicinissimi, le teste reclinate una sull’altra, abbandonati in una posa composta il cui fulcro visivo e narrativo è costituito dalla farfalla, che Psiche posa delicatamente sulla mano di Amore.
Nella sua estrema semplicità compositiva il gruppo si distingue per l’idea originale e per l’interpretazione del soggetto assolutamente personale dell’artista, dove Psiche è protagonista; se nella prima versione è Amore che “salva” Psiche, qui la dea è già affrancata dalla morte e dona all’amato il simbolo della sua elevazione dalla dimensione terrena.
Una riflessione sull’origine e il significato della parola psyché conclude la dissertazione di Alessandro Carlevaro.
Il volume, ricco di interessanti argomentazioni, si conclude nella terza parte con l’ultimo capitolo riservato alla curatrice Anna Maria Panzera, la quale indaga l’effettiva aderenza dell’artista al Neoclassicismo canonico e all’ideale ellenico di Platone, attraverso un’analisi dell’Estetica di Hegel. Scrive la Panzera:
“L’arte morta di cui parlava hegel, lasciava spazio alle nuove istanze che volevano oltrepassare il razionalismo illuminista e che si opponevano all’estetica trascendente e controllata che si presumeva fosse alla base del Neoclassicismo.”
Si percepisce una certa deriva della creatività artistica, asservita a codici estetici e ideologici, avvertita chiaramente dal Canova a cui, poco dopo, anche Auguste Rodin provò a reagire. Rodin e Canova figli di due epoche che avevano “ammesso la decadenza della scultura”: la prima, la fine del Settecento, con gli ultimi strascichi di Barocco e Rococò assuefatti ai panneggi voluttuosi e ai movimenti impetuosi, per poi imbrigliarsi in un decorativismo ormai stanco. La seconda nell’Ottocento, che – scrive la Panzera – aveva
“ridotto la scultura a esercizio celebrativo e ad arredo urbano, con prevalenza di un ellenismo stucchevole, immotivato, ridondante di un eroismo il più delle volte demagogico.”
Entrambi gli artisti rispondono a tale decadenza con la propria impronta personale, ma rifacendosi entrambi alla natura: l’uno cercando di superare la mera imitazione attraverso le linee e le sensazioni di superficie, l’altro accentuando della natura l’essenza mutevole, e quindi il cambiamento, con un modellato più intenso e chiaroscurale.
Rodin, sostiene la Panzera, guarda a Canova pur nell’evidente differenza della propria idea di scultura: nel modellato e nella funzione “narrativa” dei panneggi, ad esempio, ma anche nel metodo esecutivo che utilizza calchi di altre opere per produrne di nuove assemblandone diversi frammenti.
Successivamente la Panzera affronta la tematica della critica di settore nei confronti del Canova, che nel primo Novecento non è certo positiva, sottolineando come, durante il fascismo alla Biennale di Venezia del 1922, le opere del Canova vennero esposte nonostante i detrattori che lo consideravano artista classico e dunque “vecchio”, in opposizione al nuovo ideale futurista in cui veniva esaltato tutto ciò che era nuovo e di rottura col passato; ma vennero presentate come espressione di “italianità e regionalismo”, scrive la Panzera, di un “settecentismo nazionale e non europeo”, assecondando quella deriva demagogica, propagandistica e nazionalista in cui il fascismo stava trascinando l’Italia.
Nel dopoguerra, con Longhi e Brandi, continuerà la critica al Canova, del quale si contestavano soprattutto le opere in cui maggiormente si notava l’aderenza al canone classico e si discostava dal naturale, nonché la “serialità” a vocazione commerciale delle sue produzioni artistiche. I pochi estimatori usavano per Canova termini come “avanguardia, rivoluzionario e popolare” (gli stessi ripresi poi da Longhi per Caravaggio), rifacendosi alla biografia ufficiale dell’artista scritta dall’abate Missirini il quale riconosceva quegli attributi all’artista come un merito, per aver tenuto in conto il giudizio esclusivamente empatico di persone non colte e non esperte d’arte, e per aver aperto al pubblico la “sacralità” dello spazio di creazione.
E come accadrà per Caravaggio “riabilitato” e rilanciato da Longhi nel 1951, Canova verrà rivalutato nel 1974 da Mario Praz, nella seconda edizione della raccolta “Gusto Neoclassico”, dove affermerà l’errore di valutazione di chi considerava l’arte solo espressione di un sentimento immediato e realistico (come le crete canoviane da cui sarebbe nato poi il marmo) oppure di chi vi coglieva solo una estremizzazione del pensiero poetico (religioso o razionale).
La curatrice del volume punta poi l’attenzione sui parametri di valutazione con cui si è analizzato nel tempo il Canova e la sua opera (“il gusto neoclassico, il canone winckelmanniano, la poetica del sublime, e naturalmente la filosofia di Platone”) costringendolo in un cliché che non gli si addice del tutto, affermando che spesso non si è posta attenzione su due punti essenziali: il rapporto personale dell’artista con la realtà del mondo in cui visse e operò, e il suo rapporto con la materia lavorata, con la sua essenza mutevole, attraverso la quale egli manifesta una reazione artistica all’instabilità della sua epoca.
E ancora, riguardo alle basi filosofiche della poetica del Canova, l’autrice rileva l’evidenza che egli avesse guardato a Platone; l’artista stesso parla della sua Psiche (stante) come “divinità tutta platonica”. Ma, come giustamente rimarca la Panzera, lo scultore parla di se stesso in termini di “artefice” e tiene a precisare che la sua dea ad Amore dona una farfalla, attributo simbolico del suo significato in greco, ovvero “anima”. E tiene moltissimo a far sapere che quella farfalla è stata una sua idea, ne rivendica la paternità a dispetto di tutte le altre rappresentazioni del soggetto in cui questo elemento non viene inserito benché, scrive Canova, “psiche significa anima in greco idioma, e dell’anima per simbolo [ha] la farfalla.”
Una rivendicazione che denota quanto in realtà con quella invenzione l’artista si fosse discostato sia dalla fiaba di Apuleio (rispettata invece nella redazione di Amore e Psiche che si abbracciano) sia dal canone platonico, che in nessun caso riferisce dell’anima in forma di farfalla (semmai di biga alata). Mentre ne riferisce in forma di farfalla Plutarco. Il che, secondo la Panzera, potrebbe indicare che Canova, nel periodo di realizzazione delle due versioni di Amore e Psiche, avesse attinto non solo da Winckelmann ma anche da altre fonti filosofiche per interpretare in tal modo il canone platonico di Psiche.
E proprio al fine di individuare le basi culturali del Canova e le fonti da cui trasse l’interpretazione delle due opere in esame, la Panzera spulcia tra i 2575 volumi della biblioteca dell’artista (che lui amava mettere a disposizione dei suoi concittadini), per fortuna conservati fino ai nostri giorni, considerando quelli che per data di pubblicazione potevano già essere in possesso dello scultore nel momento dell’ideazione delle opere, ed escludendo tutti quelli successivi a quel periodo. Una tale mole di libri attesta anzitutto che Canova fosse un uomo colto, a dispetto del solito cliché dell’artista illetterato, non influenzato dalle varie teorie estetiche e per questo geniale.
Nella sua biblioteca erano presenti testi di archeologia, trattati, critica e tecnica, letteratura, filosofia, storia e religione, nonché autori antichi e moderni, anche in lingua straniera. Tra questi volumi anche due “lessici” (una sorta di dizionari) greco-latini, che testimoniano probabilmente la volontà dell’artista di comprendere in maniera autonoma il significato degli scritti classici. Inoltre erano presenti alcuni testi specifici che trattavano in particolare il mito di Amore e Psiche in più versioni e interpretazioni. Ovviamente era presente un volume di Winckelmann, in cui si parla proprio di poesia e favola, che per l’artista sono il campo di scelta dei propri soggetti.
Ma non potevano certo mancare volumi sulla filosofia di Platone, la cui interpretazione in senso cristiano era dovuta alla larghissima diffusione di una traduzione in latino dal testo greco fatta nel Quattrocento, dalla quale si ricavava l’idea di un Platone precursore del cristianesimo. Nel resto d’Europa il greco si studiava di più e anche l’interpretazione della filosofia platonica era meglio determinata.
Uno dei pochi intellettuali italiani che operò una rilettura critica di Platone, studiandolo dal greco e non dal latino, fu Antonio Conti nel 1743, il quale arrivò alla conclusione che l’idea di Dio teorizzata dal filosofo greco (“artefice del mondo ma non signore del mondo”) fosse addirittura incompatibile con quella cristiano-cattolica. Questo è importante per tentare di capire quale fosse il neo platonismo accolto eventualmente dal Canova, visto che nel suo periodo di attività circolavano diverse interpretazioni del filoso greco. Egli potrebbe aver assimilato le nuove teorie nei salotti che frequentava o direttamente dagli intellettuali che frequentavano il suo atelier.
D’altra parte, come fa notare la Panzera, la biografia ufficiale di Missirini fu scritta post mortem, e l’abate ebbe accesso allo studio dello scultore ma non ricevette le informazioni da lui; anzi, si trovano nel suo testo dei presunti riporti orali, e quindi non verificabili, che hanno sapore aneddotico e che sembrano enfatizzare certi aspetti “canonici” della poetica e del pensiero artistico dello scultore. Tuttavia nel testo di Missirini si trovano diversi passaggi canoviani (veri o presunti) da cui si evince quello spirito innovatore e personale, quell’atteggiamento di indagine critica degli autori classici, a testimonianza di un approccio simile a quello operato dal filosofo Conti.
La Panzera ipotizza che il tramite tra Conti e Canova possa essere stato l’intellettuale scienziato Giuseppe Toaldo, con cui lo scultore intrattenne una corrispondenza epistolare tra il 1794 e il 1795. Toaldo scrive a Canova le sue critiche su alcuni bassorilievi eseguiti dallo scultore e pervenuti a Padova, e sembra entusiasta dell’effetto evocativo sui sentimenti, sull’emozione che essi suscitano; tutti elementi negati dalla filosofia di Platone, che pure – invece – proprio in quei bassorilievi è presente, dal Fedone in particolare, di cui riprende la narrazione alla lettera, pur manifestando una interpretazione molto personale di quei canoni estetici ritenuti inoppugnabili, e che invece nelle mani dello scultore assumevano un carattere più empatico, conferendo a certe figure atteggiamenti e movenze ritenute non in linea col personaggio o con l’azione che stava svolgendo. Ad esempio la figura di Pirro rappresentato in una posa leggera quasi da danzatore, mentre invece era l’assassino di un vecchio re (Priamo). Questo era però un intento preciso dello scultore, che agiva in maniera indipendente sia dai canoni classici che dalle mode del momento o dalle specifiche richieste dei committenti, e ne chiedeva opinione ad amici e critici, accettando anche consigli e suggerimenti.
Sempre Toaldo, esponendo la sua critica della Psiche stante, rileva nella rappresentazione languida, nella posa e nell’atteggiamento della figura una certa condiscendenza al bello ideale a scapito della naturalezza. Mentre invece un altro intellettuale, Gherardo De Rossi, riscontra proprio in quegli elementi così fortemente evocativi ed empatici, i segni di uno studio dal naturale (immagina addirittura il solletico delle zampette della farfalla sulla mano). Da ciò si evidenzia che spesso la critica dipende dalla sensibilità di chi osserva l’opera e ne recepisce il senso secondo il proprio modo di intendere, secondo le proprie conoscenze e le varie interpretazioni correnti (o ricorrenti) della tematica trattata. E il tema di Amore e Psiche, nel tempo, aveva subito molteplici interpretazioni, ora in senso religioso ora in senso laico. Se per Socrate “lo scultore deve rendere attraverso la forma esteriore l’attività dell’anima”, per Platone è l’esatto contrario; l’artista deve riuscire a scindere l’anima dalla sua essenza ed espressione materiale, per elevarsi oltre, verso la dimensione eterna.
E allora come leggere l’interpretazione di Amore e Psiche da parte di Canova, si chiede la Panzera: come una rappresentazione dell’anima in quanto elemento legato al corpo, oppure come separato da esso? Ma poteva, si chiede l’autrice, un artista così originale e indipendente, che della levigatezza palpabile delle superfici – e dei corpi umani in particolare – aveva fatto il suo elemento distintivo, escludere i sensi dalla sua opera? La curatrice trova nella rappresentazione della farfalla della Psiche stante la soluzione dello stigma, in quell’idea di volo “sfuggente e imprevedibile” che certamente non apparteneva a Platone, e non necessariamente doveva rimandare a una ascesi verso dimensioni ultraterrene.
Peraltro, il mito va analizzato anche nella dualità del rapporto uomo-donna, sia dal punto di vista artistico (compositivo e scultoreo) sia da quello narrativo, dove Psiche-donna è protagonista, ma è ancora Amore-uomo che la “salva”, affrancandola dalla morte ed elevandola a una dimensione superiore. Una separazione concettuale e semantica che però, nella prima versione del soggetto scultoreo giacente, era trasfusa di una passionalità ed erotismo molto “terreni”, che aveva suscitato più di una perplessità, e che Canova superò nella seconda versione stante ponendo i due personaggi in piedi, sullo stesso piano, e dove Psiche è già sottratta alla morte ed è lei che fa dono ad Amore di una farfalla simbolo di volo, di alterità spaziale, ed evocativa di dimensioni celesti. Il secondo gruppo scultoreo risulta quindi vagamente più “platonico” dal punto di vista compositivo: stante e non dinamico; inoltre trasfuso di un sentimento più spirituale che carnale, rispetto alla prima versione.
Fu probabilmente un espediente dell’artista per compiacere il committente, non del tutto convinto della prima versione che, per composizione e interpretazione del soggetto mitologico, risultava piuttosto distante dalla lettura convenzionale. Questa seconda versione, invece, non sollecitava i sensi come la prima, non presentava alcuna iperbole compositiva; composta, lineare e “verticale”, suggeriva piuttosto
“una profondità tutta concettuale, accostabile a quel sublime che poteva essere forzato in una dimensione oltreumana.”
Potenza della creazione: la pluralità semantica che un’opera, anche dopo secoli, può suscitare nel riguardante. La libertà interpretativa che non è solo dell’artista rispetto al soggetto, ma anche e soprattutto di chi osserva, nel tempo e nel luogo in cui osserva. Ed è altresì la testimonianza di una creatività poderosa, di una profonda capacità di pensiero, rivendicata con forza dall’artista attraverso un piccolo elemento della composizione che diventa chiave di lettura, il “passepartout” che apre tutte le porte della conoscenza.
E dunque, no… “Non devesi però tacere della farfalla”.
©Francesca Saraceno, Catania 7 gennaio 2024