Caravaggio? Più sì che no. Riflessioni di un caravaggista sulla “Presa di Cristo” dopo la mostra ad Ariccia

di Fabio SCALETTI

Ha appena chiuso i battenti la mostra di Ariccia, dove, nelle sale di Palazzo Chigi, è stato per tre mesi esposto al pubblico un quadro molto noto agli studiosi del Caravaggio, la cosiddetta versione già Ruffo di Calabria ed ex Sannini della Presa di Cristo nell’orto (figg. 1, 3 e 4, intero e particolari), dal 2003 nella raccolta romana di Mario Bigetti, che la acquistò dalla collezione Ruffo di Calabria (nel 1943, al tempo del ritrovamento, ubicata a Firenze e rappresentata dell’avvocato Sannini, da cui appunto la denominazione tradizionale).

1 Presa di Cristo già Ruffo, ex Sannini, coll. M. Bigetti, Roma
fig 3 Presa di Cristo, coll. Bigetti, part. Cristo e Giuda (post restauro)
fig 4 Presa di Cristo, coll. Bigetti, part. Autoritratto

In questo articolo non ci occuperemo in dettaglio della storia dell’opera, del suo stile, della sua iconografia, delle analisi tecniche a cui è stata sottoposta e del suo rapporto con l’esemplare scoperto nel 1993 e conservato alla National Gallery of Ireland di Dublino (fig. 2), che gran parte della critica, sottoscritto compreso, considera originale, tutti aspetti ampiamente ed approfonditamente soppesati nel munito catalogo curato da Francesco Petrucci, a cui si rimanda (e nel quale si trovano i riferimenti alla nutrita letteratura esistente[1]), limitandoci ad alcune concise riflessioni di carattere generale, anche se con inevitabili risvolti – di cui si è coscienti e scaturiti da un punto di vista sempre personale – sulla questione della sua autografia (originale, replica o copia?), il tutto nell’ambito del mio lavoro di catalogazione delle opere del Caravaggio in base agli studi specialistici[2].

fig. 2 Presa di Cristo, Dublino, National Gallery

Oggidì l’intestazione di un dipinto a Michelangelo Merisi detto il Caravaggio viene effettuata guardando l’opera, confrontando i documenti storici e vagliando gli esami scientifici, il che corrisponde ai tre pilastri dell’attribuzione che ho altrove definito come le tre “P” (Perizie, Pedigree e Prove).

Diciamo subito che l’occhio, anche del conoscitore, non basta più, specialmente nell’ambito dei “doppi” – dove l’iconografia è fissata esistendo già un autografo accettato – per cui non si tratta di stabilire se l’artista ha potuto inventare una composizione del genere, oppure se questa non rientra nelle sue corde[3]. Giudicare a vista la qualità di un dipinto è certo possibile e lecito ma ai nostri tempi, specialmente riguardo i grandi maestri, non si può pensare di autenticare un’opera accontentandosi di contemplarla, anche con la lente d’ingrandimento.

Nell’arte ogni valutazione è soggettiva, e qui lo sarebbe ancora di più. E difatti accade che per ogni parere positivo possano essercene altrettanti di segno contrario, e ciò che uno qualifica come magnifico o di alta qualità per un altro è passabile e discreto e per un altro ancora mediocre e di livello basso, situazione che puntualmente si è per certi versi verificata anche per il dipinto qui in oggetto (teniamo comunque sempre presente l’incidenza dei restauri, sistematicamente diversi, che mettono capo a manufatti differenti, talvolta difficilmente confrontabili).

Quasi tutti gli studiosi, me compreso, concordano nel ritenere che esso è meno bello – naturalmente è impossibile discutere ora il significato di questo termine –, raffinato e definito dell’esemplare di Dublino [4], ma forse è anche più vero, spontaneo, e non dimentichiamo che Caravaggio non è un pittore che punta direttamente al virtuosismo, per cui la tela romana potrebbe essere una prima redazione più istintiva, dalla conduzione più sciolta e pittorica, e quella irlandese una seconda redazione più meditata, frutto di una stesura più controllata e perfezionata (duplice esecuzione che i recenti studi sul Merisi stanno accertando pure per altre creazioni). Il fondo buio neutro e privo di ambientazione della prima, oltre a essere consono al Nostro, potrebbe confermare questa ipotesi.

Una minore soggettività dovrebbe riscontrarsi nella stima dei documenti scritti, cioè delle fonti, delle carte d’archivio, dei percorsi collezionistici (il dato sicuro è che il “Cristo preso all’orto” fu commissionato dai Mattei nel 1602 ed esordì nella storiografia nel 1638, quando Gaspare Celio lo menzionò nel loro palazzo romano), ma anche qui emergono delle divergenze di opinioni, e se per il nostro quadro si è riusciti ultimamente a risalire, sia pure con qualche vuoto, indietro nel tempo, retrocedendo dalla collezione Ruffo di Calabria a quella Colonna di Stigliano di Napoli e a quella di Ferdinando Vandeneynden (membro di una famiglia di banchieri operanti a Roma) inventariata nel 1688 da Luca Giordano sempre nella città partenopea, continua a non esserci accordo sull’abbinamento dei due dipinti, quello già Ruffo e quello della National Gallery, alle varie voci inventariali dei Mattei e alle cornici lì indicate (quella “nera rabescata d’oro” oppure quella tutta “dorata”), e mentre per qualcuno si tratta di uno stesso quadro a cui è stata sostituita la cornice, per qualcun altro i quadri sono due (dagli archivi familiari i pezzi risulterebbero anche tre o quattro, a causa dell’attività dei copisti, assodata e intensa – sono agli atti diciassette copie antiche, tutte peraltro aventi come modello la versione dublinese).

A mio modo di vedere, la presenza nella versione Bigetti di quella che sembra essere la cornice originale (al di là che tale cornice sia stata confezionata o meno dallo stesso Caravaggio come è stato proposto) è un punto che ha un suo peso. Un altro esempio di lettura documentale contrastante è quello relativo alla serie di argomento cristologico commissionata da Asdrubale Mattei a diversi pittori intorno al 1625: per i sostenitori del quadro romano, il fatto che i dipinti ordinati siano simili ad esso come dimensioni (e non alla tela di Dublino che è più piccola) significa che quel quadro, data l’importanza dell’autore, scomparso quindici anni prima, ha fatto da modello; secondo altri, invece, potrebbe trattarsi proprio della copia pagata nel 1626 a Giovanni d’Attilio dal Mattei, che, evidentemente non avendo più l’originale, la voleva inserire in quel ciclo neotestamentario, da cui mutuava il formato allargato allora scelto.

Un campo dove le idee individuali dovrebbero, per definizione, condizionare il meno possibile il giudizio è quello delle indagini scientifiche, ma anche qui le discussioni non mancano, sia nell’interpretazione dei singoli dati forniti (incisioni, abbozzi, modifiche, contorni a risparmio, sovrapposizioni, preparazione, pigmenti, ecc.) sia sul valore da assegnare agli stessi, e quello che per alcuni è un corposo cambiamento (chiamato “pentimento”), indice di autografia, per altri è una leggera correzione in corso d’opera propria di un copista.

Per quanto mi riguarda, fatico a immaginarmi un copista (se la versione Ruffo è tratta da quella irlandese e tenendo presente che questo non è stato decurtato) che ingrandisce di circa mezzo metro – caso unico fra le svariate copie (e ci si dovrebbe chiedere perché) – il modello da riprodurre, specialmente quando sotto una parte di quell’ampliamento della composizione, e mi riferisco alle braccia del San Giovanni in fuga, si rinviene una diversa inclinazione degli arti, così come appare ardua da spiegare la sparizione, nella stesura visibile, di una figura dietro il portatore di lanterna (il cosiddetto autoritratto) sulla destra, esecuzione prima, e cancellazione poi, che solitamente (necessariamente?) spettano all’autore di un originale.

Dunque Caravaggio? Più sì che no.

A questo punto sarebbe opportuno che la Presa di Cristo ex Sannini, ex Ruffo o meglio di collezione romana, approdasse in un museo (anche perché nel 2004 è stata notificata dallo Stato Italiano), magari –  perché no? – proprio trasformando il prestito temporaneo per la appena conclusa mostra di Ariccia in un deposito permanente: come ho già avuto modo di scrivere, l’ospitalità a tempo indeterminato di un’opera in un’istituzione museale, pubblica o privata che sia, permettendo un più comodo e spassionato apprezzamento, è un buon viatico per agevolarne l’ingresso anche nel corpus degli autografi.

Fabio SCALETTI  Milano 21  Gennaio 2024

NOTE

[1] F. Petrucci (a cura di), Caravaggio. La Presa di Cristo dalla Collezione Ruffo, catalogo della mostra, Roma, 2023.
[2] F. Scaletti, Caravaggio. Catalogo ragionato delle opere autografe, attribuite e controverse, 2 voll., Napoli, 2017 (è in corso di preparazione l’edizione in lingua inglese).
[3] Un mio recente aggiornamento sui fondamenti dell’attribuzione e sulla problematica dei “doppi” è in Rossi – Papa – Randolfi (a cura di), 1951-2021. L’enigma Caravaggio. Nuovi studi a confronto, atti del convegno, Foligno (Perugia), 2023, pp. 53-65.
[4] Per inciso, all’esemplare finito oltremanica nell’Ottocento sono particolarmente legato essendo stato il primo quadro di Caravaggio che ho visto di persona.