di Maria Barbara GUERRIERI BORSOI
Filippo Balbi (Napoli, 1806 – Alatri, 1890) fu certamente un pittore sui generis tra quelli attivi a Roma e nello stato papale nel corso del XIX secolo (fig.1).
Accademico nei modi, decisamente ricco di inventiva e talora molto originale nelle scelte iconografiche, dotato di grande mestiere, istruito e con interessi eclettici, filo borbonico e antirisorgimentale, irruento sino all’aggressione fisica, presuntuoso e vittimistico, amico di cardinali e di briganti, passato dalla miseria al successo e nuovamente precipitato nell’indigenza, è certamente un personaggio atipico e interessante. Recentemente è tornato in evidenza grazie ad una mostra tenutasi nel 2023 presso la Certosa di Trisulti dove è stata esposta la sua nota Testa anatomica, che fu mandata all’Esposizione universale di Parigi nel 1854 e suscitò una notevole attenzione. Essa è una difficile creazione, tra anatomia ed estro creativo, in cui una testa decorticata presenta realisticamente tutti i muscoli, ma attraverso figure umane a loro volta prive di pelle e atteggiate nelle pose più varie. Balbi fu così orgoglioso di questo tour de force da raffigurarsi accanto ad esso nell’Autoritratto del 1872, inviato in dono agli Uffizi, e farsi fotografare accanto a questa opera (fig. 2)[1].
Sin qui la fonte principale per la conoscenza del pittore era il libro di Salvatore Addeo (fig. 3), padre delle Scuole Pie di Alatri e suo buon amico, intitolata Ricordi di un vecchio pittore (Firenze 1894), frutto di una ventennale consuetudine e ricco di citazioni dalla ‘viva voce’ dell’artista e di trascrizioni di documenti che lo riguardavano, conservati dal diretto interessato.
In questo testo si fa riferimento, auspicandone la pubblicazione, all’esistenza di una parziale autobiografia scritta da Balbi, redatta in due copie che però gli furono entrambe sottratte e di cui successivamente si persero le tracce. Per quanto mi è noto essa non è stata utilizzata negli studi dedicati all’artista, in particolare nell’ampio testo di Armando Frusone (1990), né nel recente catalogo della mostra già citato[2].
Tale autobiografia però esiste ancora ed è conservata presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (manoscritto D 215), acquisita con altri materiali appartenuti al critico Diego Martelli[3].
Si tratta di un manoscritto di 200 carte, più due sulle quali è omessa la numerazione, redatto fronte e retro su fogli a quadretti, con alcune correzioni. Nella carta 63v si legge “questa addizione fu fatta dall’autore un mese prima della morte”, chiarendo che si tratta di una copia dalla stesura iniziale[4]. Inoltre il testo contiene un indice con l’indicazione della pagina di inizio dei XXVII capitoletti che non corrisponde alla trascrizione seguente (la numerazione delle carte, dunque, è successiva e indipendente dalla stesura del testo, ma ad essa si farà riferimento).
La biografia si ferma al 1848 mentre da c. 145 il testo prosegue con la trascrizione di
“giornali che per loro gentilezza hanno parlato de’ miei studi, e dei miei dipinti – e ancora qualche scritto di persona che sente e che mi ama”[5].
Questa seconda parte è importante perché fa riferimento a testi non rintracciabili per altra via, ma non sarà oggetto di presentazione in questa breve nota.
Il manoscritto nel suo complesso, dunque, integra il volume di Addeo, che invece comprende tutta l’esistenza del pittore, e si completa proprio con gli scritti dei critici contemporanei, quasi tutti concentrati nel periodo di attività a Roma di Balbi, lo scarso ventennio a cavallo della metà del secolo.
L’autobiografia è naturalmente ricca di molte notizie altrimenti ignote, ma è anche curiosamente imprecisa, omettendo sistematicamente tutte le date, sebbene alcune siano ricostruibili da notizie esterne, e talvolta anche i nomi dei personaggi citati, per esempio di alcuni committenti o protettori dell’artista. Al contrario, il testo è spesso estremamente minuzioso e prolisso su fatti tutt’altro che significativi, almeno agli occhi di un lettore moderno, talora dilungandosi su storie di amori infelici, oppure soffermandosi su argomenti indirettamente connessi con la biografia dell’artista, come una descrizione della vita a Napoli nei primi decenni del secolo, e fu chiaramente scritto con qualche ambizione letteraria.
Naturalmente, non è possibile qui proporne un’analisi dettagliata, ma si riferiranno solo alcuni passaggi interessanti.
Il tono generale è sempre improntato ad un evidente vittimismo. Balbi sottolineò le valutazioni ingiuste del suo operato, che gli impedirono di progredire, ad esempio in occasione dei concorsi per avere accesso al “pensionato” a Roma, oppure gli imbrogli patiti da alcuni committenti, la meschina retribuzione di taluni suoi lavori, a suo dire invece meritevoli di ben altro riconoscimento, poiché il pittore ebbe un’altissima opinione dei suoi meriti.
Nato dallo scultore in legno Arcangelo e da Rachele Mozzillo, figlia del pittore Angelo (1736-1810), Filippo Balbi era predestinato all’arte o, come scrisse, ebbe “sangue artistico”. Naturalmente il pittore si attribuì una strepitosa precocità e raccontò i piccoli incontri che gli permisero lentamente di intraprendere la sua strada, sino al fondamentale rapporto con il maestro, il pittore Costanzo Angelini (1760-1853), temuto e rispettato. Ricordò le prime opericciole che gli consentirono di farsi notare sino alla realizzazione della decorazione di una farmacia di cui descrisse minutamente i vari soggetti dipinti. È uno di quei casi in cui non riferisce l’anno di esecuzione del lavoro né il nome del committente, che altre fonti identificano in Gennaro Pepe[6].
L’epoca si ricostruisce però dalla sequenza narrativa e fu realizzata immediatamente prima del 1835, quando il pittore si trasferì per lavoro a Forio, sull’isola d’Ischia [7]. Il committente lasciò piena libertà all’artista che si sbizzarrì in modo sorprendente (cc. 57v-58v). Su due pilastri dipinse figure grandi la metà del vero con il Merito e il Premio, sull’architrave “la machina idropneumatica per la sintisi dell’acqua, ed è tutta invenzione del mio prefato amico il quale era anche buon fisico”. Tale congegno era attivato da due putti: l’Invenzione e l’Ingegno; nel primo scomparto del soffitto figuravano “in figure terzine”, la Medicina, la Virtù, la Prudenza; nel secondo l’interno del laboratorio
“con tutte le macchine di fisica e tutti quegli arnesi che servono alle operazioni chimiche cioè storte, tubi ecc. e in mezzo dipinsi il ritratto del farmacista il quale dimostrai nell’atto che presentava ai suoi giovani l’esperimento galvanico”
e naturalmente il ritratto riuscì somigliantissimo; nel terzo scompartimento la Fisica, la Perfezione, la Scienza; nella fascia della cornice, su un fondo a smalto, i Carri dei pianeti in monocromo;
“sulla base delle colonne che dividevano le cristalliere rappresentai gli emblemi de’ sedici fiumi volendo figurarvi le acque minerali; sul pavimento un intreccio di vipere e di serpi i quali furono dipinti a fuoco nel mattone”.
L’esito fu così felice che l’esigente maestro disse al proprietario “Voi non avete più una farmacia ma un gabinetto d’arte”.
Troviamo in quest’opera non più esistente quell’accostamento di elementi simbolici e scene di vita quotidiana, figure con oggetti e animali, uso di varie tecniche che furono caratteristici del pittore, ad esempio nella cappella della Certosa a Tor Pignattara e nella notissima farmacia di Trisulti (fig. 4).
Il trasferimento definitivo a Roma fu preceduto da un paio di brevi soggiorni, di cui Balbi non indica l’epoca, e accompagnato dall’esecuzione a Napoli di altre opere sacre create autonomamente, tra le quali un’Immacolata Concezione e un’Orazione nell’orto. Probabilmente nel 1844 il pittore era ormai residente nella città papale e ricevette la commissione per la pala d’altare destinata alla chiesa della Madonna della neve a Frosinone, che gli procurò una perdita economica e una grave lite con il priore committente, ma che fu anche la sua prima opera censita dai giornali del tempo[8].
Subito dopo, quindi nel 1845, entrò in contatto con i certosini di S. Maria degli Angeli, presso i quali soggiornò e dipinse piccole opere, ad esempio “alcune carte, un soffietto, ed un fazzoletto”, sulla cappa della dispensa, un ben riuscito tromp l’oeil, di fatto una delle sue specialità di cui esistono numerose altre testimonianze (fig. 5).
Soprattutto, con i certosini, in particolare con il priore Benedetto Mesicuzzi, instaurò rapporti di amicizia e con loro si recò per la prima volta a Trisulti[9], chiamato per restaurare un quadro del Cavalier d’Arpino, mentre una decina di anni più tardi dipinse nel chiostro romano una delle sue opere più note, il ritratto di Fra Fercoldo (fig. 6).
Nel 1846 cominciò a lavorare nella nuova cappella della villa Certosa a Tor Pignattara, una “grangia”, ovvero una fattoria, dei certosini, decorazione che concluse due anni dopo. Quest’opera fu certamente significativa per Balbi e lo fece conoscere a Roma, tanto che, in seguito, per decidere se affidargli lavori in S. Maria sopra Minerva una commissione di esperti si recò proprio a vedere questa cappella. I dipinti sono stati in buona parte staccati intorno al 1930 dalla famiglia di Fabrizio Apollonj Ghetti, che li pubblicò in due articoli, e sono attualmente divisi tra gli eredi[10].
Si trattò certamente di un insieme molto originale e significativo, dipinto con la tecnica dell’olio su muro che Balbi aveva già messo a punto a Napoli e usò più volte nella sua vita. Le invenzioni iconografiche, varie e originali, tese a suscitare la meraviglia dell’osservatore, sono accuratamente descritte in un articolo del 1849 di Filippo Maria Gerardi [11], stranamente trascurato negli studi, che ci permette di integrare, almeno in questo modo, le sole figure sopravvissute. Anche qui sorprendenti tromp l’oeil, imitazioni di sculture e oggetti in metallo, effetti di controluce, inquadrature goticheggianti facevano da contorno a figure e scene sacre. Tra queste emerge per qualità la grande lunetta con Cristo morto adorato da san Bruno e dal beato Niccolò Albergati (fig. 7), di cui Balbi era particolarmente orgoglioso[12].
Il pittore si impegnò a dimostrare le sue capacità nella bella composizione, nella quale la croce atterrata e sporgente verso l’esterno e il santo prostrato evidenziano la perizia prospettica mentre il corpo di Cristo palesa le eccellenti cognizioni anatomiche dell’artista (fig. 8).
Particolarmente efficace è la figura del beato Albergati, con il volto contratto in una smorfia di violento dolore (fig. 9).
Il tono quasi monocromo giova ad evidenziare la drammaticità del momento e le forme di impongono nella loro volumetria, qui così come nelle figure dei santi inseriti nelle finte nicchie (fig. 10).
I dipinti della villa Certosa furono eseguiti in un momento drammatico della storia di Roma e del Risorgimento, dopo l’elezione di Pio IX, accompagnata da generale entusiasmo e speranze di cambiamento, sino alle rivolte di piazza che portarono all’assassinio del primo ministro Pellegrino Rossi (15 novembre 1848).
Balbi si sofferma a lungo su questi avvenimenti politici, schierandosi contro i ‘rivoluzionari’, ma soprattutto fornisce notizie inedite, sebbene difficili da verificare. Proprio nella villa Certosa si sarebbe nascosto per alcuni giorni il cardinale Luigi Lambruschini, particolarmente inviso ai progressisti perché decisamente contrario ad ogni riforma e cambiamento, sorvegliato e protetto attivamente da Balbi, che più tardi lo aiutò a salvarsi quando la sua residenza nel palazzo della Consulta fu assaltata dai rivoltosi. Il 16 novembre 1848 il cardinale abbandonò Roma, diretto a Gaeta, e passò per Tor Pignattara, luogo che evidentemente conosceva, e Balbi ebbe un rimborso dal segretario del porporato “pel suo ritorno a Roma”. Appare dunque probabile che quanto raccontato sia vero, tanto più che Balbi conservava nel suo variopinto studio un cappello del cardinale in una scatola con sopra scritto “Ingratitudine”, perché Lambruschini non lo beneficiò per l’aiuto avuto[13].
Nell’autobiografia Balbi afferma anche che la dimora di campagna sarebbe stata visitata più volte, mentre egli vi dipingeva, da Pio IX che avrebbe garantito di volerla benedire alla fine dei lavori, ma ne fu impedito dal precipitare degli eventi.
Balbi non racconta invece la fuga del papa a Gaeta (24 novembre 1848), né la successiva Repubblica romana, quasi che lo scrivere di tali argomenti gli fosse insopportabile. La biografia si interrompe a questo punto e siamo così privati della sua diretta testimonianza per gli anni Cinquanta, quelli di massima operosità e riconoscimento a Roma, per il successivo periodo passato a Trisulti e per il trentennio trascorso ad Alatri in condizioni di crescente isolamento e povertà.
[1] M. Ritarossi (a cura di), Il corpo e l’idea. La Testa anatomica di Filippo Balbi (catalogo della mostra, Certosa di Trisulti, 5 agosto – 29 ottobre 2023), Alatri 2023. E. Schmidt, Tra gli autoritratti degli Uffizi, un accademico inaspettato, in “Imagines”, 9 , 2023, pp. 6-11.
[2] A. Frusone, Filippo Balbi: Napoli 1806 Alatri 1890 (catalogo della mostra), Alatri 1990; si veda anche il recentissimo articolo di M. Bussagli, Filippo Balbi nella Certosa di Trisulti a Collepardo, in “Art e dossier”, 37, 2023, n. 413, pp. 42-47.
[3] Il manoscritto non ha titolo e sulla prima carta ci sono solo alcuni versi dedicati a Balbi da Giuseppe Maria Palombi delle Scuole Pie, copia di uno scritto redatto ad Alatri il 19 aprile 1864.
[4] La grafia, confrontata con la lettera di Balbi conservata a Bologna, in casa Carducci, sembrerebbe quella del pittore.
[5] Gli articoli dedicati a Balbi, tra stampati e da lui trascritti, a me noti sono almeno quindici e tornerò su questo argomento in altra occasione.
[6] Così Frusone 1990, p. 221, con rimando a G. Signorini, L. Meddi, S. Turbiglio, S. Addeo, Opuscolo commemorativo nel trigesimo della morte di Filippo Balbi, Alatri 1890, opera che non sono riuscita a rintracciare.
[7] La data deriva da G. D’ascia, Storia dell’isola di Ischia, Napoli 1867, p. 387.
[8] F.M. Gerardi, La Madonna della cintura quadro a olio di Filippo Balbi napoletano, in “L’Album”, 12, 1845, 29, 13 settembre, pp. 230-231.
[9] Un paesaggio firmato e datato 1847 raffigurante Trisulti è pubblicato in Frusone 1990, p. 56, ma è probabile che il primo viaggio sia avvenuto nel 1846, vista la sequenza dell’autobiografia.
[10] F.M. Apollonj Ghetti, Filippo Balbi e la decorazione della cappella della villa romana “La Certosa”, in “L’Urbe”, 1969, pp. 1-7; N.S. 33, 1970, 1, pp. 1-10. Per la commissione giudicatrice si veda Frusone 1990, p. 88.
Ringrazio Stefano Aluffi Pentini per il cortese aiuto che mi dato in questa occasione.
[11] F.M. Gerardi, Di alcune pitture ad olio su muro, condotte da Filippo Balbi entro la cappella esistente nella vigna dei Certosini, fuori Porta Pia, in “L’Album”, 1849, 39, 17, novembre, pp. 305-308.
[12] Si legge in Addeo 1894, p. 68.
[13] L. Manzini, Il cardinale Luigi Lambruschini, Città del Vaticano 1960, p. 400 nota 502 accenna al supposto intervento di Balbi durante l’attacco al palazzo della Consulta, non al soggiorno presso villa Certosa. Per il cappello del cardinale Addeo 1894, p. 184.