di Lisa SCIORTINO
Arte francescana a Monreale
Lo studio dell’esperienza artistica da parte di religiosi, la cui produzione spesso rimane anonima o sconosce l’originaria provenienza, è fondamentale giacché le opere risultano spesso prive di tutela e corrono il reale rischio di essere disperse nel mercato antiquario, smarrendo di fatto una parte importante del patrimonio artistico locale.
La storia dei manufatti realizzati da religiosi, spesso suore o frati non meglio identificati, rinvia ad un mondo tramontato di devozione diffusa, di poche risorse ma di grande creatività[1]. Da qui nascono invenzioni come, ad esempio, l’uso della paglia al posto dei filati in oro nei paliotti, con volute e cartigli rispondenti ai sontuosi repertori del Barocco e del Rococò, oppure il ricorso a paste vitree policrome in luogo di gemme preziose, oppure ancora l’impiego di ornamenti di facile reperimento come le conchiglie o grani di madreperla che completavano le teche contenenti Bambinelli in cera di devozione domestica. La semplicità delle materie utilizzate si riscatta sia nella tecnica elevata sia, soprattutto, nella ricchezza del pegno sacrale racchiuso nel manufatto.
Tra i tanti manufatti variamente custoditi nel complesso monumentale del Palazzo Arcivescovile di Monreale, ve ne sono anche alcuni realizzati proprio da religiosi come la serie di tre inediti paliotti nei colori liturgici del rosso, del bianco e del nero, pregevoli opere dell’arte cappuccina. Decorati con paglia finemente lavorata, materiale povero per eccellenza che nelle mani esperte dei frati del tempo diventa una elegante grafia, i paliotti in esame sono esempi di arte votiva ascrivibili alla fine del XVIII secolo. Le opere si aggiungono al corpus di simili esemplari verosimilmente riconducibili a Padre Antonio da Bisacquino, scomparso nel 1778, annoverato da P. Gandolfo da Polizzi Generosa quale “bravo costruttore di pallii d’altare decorati con fili di paglia”[2].
L’uso del paliotto, o antependium come era chiamato nel Medioevo, risale ad epoca romana quando, a causa della persecuzione dei cristiani, l’altare della messa doveva certamente essere mobile ma non per questo privo di dignità e decoro[3]. Con l’edificazione delle Cattedrali, il paliotto, ormai fisso e parte integrante dell’altare, divenne il fulcro della mensa sacra, realizzato con metalli preziosi, bronzi, intarsi lignei, marmi policromi. Tuttavia, il paliotto mobile, prevalentemente realizzato con pregiati tessuti e raffinati ricami resistette al tempo e sostituì quello fisso occultandolo in alcuni momenti dell’anno liturgico o per particolari celebrazioni.
Il paliotto rosso (fig. 1 a-b), in ottimo stato di conservazione ed esposto al Museo Diocesano, presenta un ornato simmetrico che si sviluppa attorno alla centrale colomba dello Spirito Santo, circondata da raggi e da una cornice poligonale, con sinuosi ed esili elementi vegetali.
Ilpaliotto bianco mostra diverse lacerazioni del tessuto di fondo oltre alla scellerata decurtazione del centrale Agnello sul libro dei sette sigilli, circondato da una cornice ovale completata da foglie disposte a raggiera. Sottili steli fioriti si intrecciano a linee geometriche, primi segni di quel gusto neoclassico che comincia a manifestarsi tra gli ornati, assieme ai vasi fioriti impreziositi da festoni. In basso, pampini di vite circondano simbolici grappoli d’uva (fig. 2).
Il paliotto nero (fig. 3) reca al centro un repositorio poligonale sotto il quale è inserita una croce entro un cerchio.
Da qui si snodano ornati fitomorfi che invadono tutta la superficie dell’opera, intervallati da elementi geometrici che si ripetono nella cornice del paliotto. Le opere, provenienti dalla chiesa dei Cappuccini di Monreale, non risultano citati nei documenti e negli inventari consultati presso l’Archivio Storico Diocesano[4].
Il convento dei cappuccini fu edificato nella cittadina normanna a partire dal 1581 per volontà dell’Arcivescovo Ludovico I Torres[5] (fig. 4). Anche il nipote, il Cardinale Ludovico II Torres (fig. 5), chiamato alla guida della Diocesi dal 1588 al 1609[6], ebbe cura del convento continuando la benevolenza e la generosità dello zio, suo predecessore.
Un ritratto del porporato, già custodito nella sacrestia del convento, riportava la seguente iscrizione: Ludovicus secundus Cardinalis de Torres, Archiepiscopus et Dominus Civitati Montis Regalis, Ludovici primi Nepos, summa pietate Cappuccinos adamavit, necessaria praebuitque alimenta. Ecclesiam hanc altius et in meliorem formam erexit ac magna solenmitate consecravit[7].
Lauto benefattore del convento monrealese fu anche l’Arcivescovo Giovanni Torresiglia (fig. 6),
a Monreale dal 1644 al 1648, il quale nel 1646 impreziosì la chiesa con l’Adorazione dei pastori del pittore fiammingo Matthias Stomer[8] (fig. 7).
Nelle Brevi notizie dei Padri Cappuccini…, di Padre Bernardo da Cammarata nel 1710 circa, si legge:
“Per amore de Cappuccini poi spogliossi [Giovanni Torresiglia] della più bella e preziosa gioia, che aveva, dico del quadro della Natività, volendo che se ne adornasse l’Altare Maggiore della nostra chiesa: così si lege nella Iscrizione sotto il suo ritratto: D. Joannes Toresiglia Hyspanus, Archiepiscopus, et Dominus Montis Regalis, sic pietate, non minus quam nomine, Illustri de Torres Familiae adhaesit, ut Maiorum exempla sequutus ingravescente aetate, priusquam e vita migraret, eximiam hanc, ac venerabilem Nativitatis Jesu Christi Imaginem qua maius decoratur Altare, expressum suaedevotionis exemplar reliquit”[9].
Il dipinto rimase nella chiesa dei Cappuccini fino al 1871 quando, in seguito alle soppressioni conventuali e dopo delibera comunale sull’istituzione della pinacoteca, passò al Comune di Monreale[10]. Il convento fu inoltre arricchito dalle due tele complete di grandi e articolate cornici lignee, oggi custodite nei saloni del Palazzo Arcivescovile, raffiguranti La Madonna col Bambino fra Santi cappuccini (fig. 8) e San Francesco in estasi, realizzate da Padre Fedele da San Biagio Platani[11], ancora un religioso-artista al servizio della fede.
Tornando agli inediti d’arte francescana, non si possono non citare le quattro tele complete di cornici lignee realizzate da Fra’ Felice da Sambuca [12], già collocate nell’antisacrestia della chiesa dei Cappuccini di Bisacquino[13], oggi trasformata in Museo Civico. Costruito a partire dal 1633[14], nel 1637 l’edificio poté accogliere i primi frati e nel 1640 ospitò San Bernardo da Corleone[15], canonizzato da Giovanni Paolo II il 10 giugno 2001.
La chiesa conta diverse opere realizzate dal frate di Sambuca, come la grande tela raffigurante la Madonna in trono con Santi e Frati Cappuccini[16], quella con San Bernardo da Corleone ripreso in punto di morte[17], la Madonna della Confusione[18] posta in sacrestia, oltre a quella perduta con l’Addolorata, San Giovanni e la Maddalena, e a quelle più volte riproposte della Morte del giusto o Buona Morte e della Morte del peccatore o Mala Morte[19]. Tale iconografia è notoriamente ispirata al poema didascalico Lu giovini adduttrinatu di Padre Fedele da San Biagio [20], un elogio della predicazione cappuccina incentrata sulla rinuncia dei beni materiali per il conseguimento della felicità ultraterrena[21]. L’inedito dipinto raffigurante Il Peccatore pentito (fig. 9) di Monreale è affine, per tematica e impostazione iconografica, a quello custodito presso il refettorio del Santuario di Gibilmanna e a quello della chiesa della Concezione di Sambuca.
I temi iconografici fortemente ripetitivi esprimono tuttavia l’immediatezza di una fede che Fra’ Falice riesce sempre a trasmettere agli altri. Secondo Teresa Pugliatti
“il frate siciliano appare del tutto indipendente nei suoi modi che sembrano voler rifiutar qualsiasi ricerca che vada oltre l’eloquio diretto e la sostanza dei contenuti. […] il solo intento è quello di offrire al pubblico una semplice narrazione visiva delle storie sacre, e lo fa senza impacci o preoccupazioni di stile”[22].
Antonio Paolucci, pur tra gli apprezzamenti, a proposito della pittura di Fra’ Felice non manca di sottolinearne la naïveté e le sgrammaticature[23]. Nel dipinto in esame, la Vergine abbraccia con amorevole gesto l’uomo che, convertito, piange. La corona di spine sul capo e la corda del flagello attorno al collo sono i simboli del suo pentimento.
L’abbraccio di Maria fa sentire al devoto la forza della consolazione divina e l’intensità della sua gioia non è solo espressa dalla commozione del viso, rigato dalle lacrime, ma anche dalle mani che si aggrappano con fede al Rosario. In secondo piano, due angeli assistono alla scena.
Non vi sono dubbi che l’altra tela di Monreale sia un Autoritratto di Fra’ Felice (fig. 10).
Il volto del frate, infatti, è facilmente identificabile poiché compare spesso tra i personaggi dei suoi dipinti quale estatico spettatore in adorazione di Gesù e Maria. Il dipinto lo mostra in contemplazione del Crocifisso che regge con la mano sinistra. Osserva Gaetano Bongiovanni:
“Tutto è quotidiano nella pittura di Fra’ Felice il miracolo, il dogma, il rapimento estatico sono rappresentati con forza veristica senza astrazione e ricorso a simboli. La verità pittorica costituisce quindi nel Cappuccino il dato peculiare ma anche il limite del suo linguaggio di pittore”[24].
L’inedita tela con Santa Rosalia in preghiera (fig. 11) raffigura l’eremita che stringe il Crocifisso tra le mani. La posa del volto rievoca quella di alcune inconfondibili Madonne dipinte da Fra’ Felice, secondo uno schema preciso e ripetitivo, con lo sguardo rivolto verso il basso in atteggiamento di umiltà e il viso leggermente reclinato. La Santa è coronata di rose e reca sul mantello la conchiglia del pellegrino. Il suo attributo iconografico più presente e caratterizzante è la corona di rose, quasi sempre poggiata sul capo a mo’ di aureola. Le rose, che pure sono simbolo mariano, rimandano direttamente al nome Rosalia e al rosario, legando ulteriormente la Santa palermitana alla Madonna. Altri elementi iconografici ricordano il pellegrinaggio di Rosalia, ad esempio la ciotola per attingere l’acqua dal pozzo, la bisaccia e la conchiglia. Questa, posta quale borchia sul mantello dei fedeli che si recavano nel santuario di San Giacomo maggiore a Santiago di Compostela, divenne simbolo generico del pellegrino[25]. Nell’esperienza mistica della vergine palermitana, solitaria e in contemplazione su Monte Pellegrino, Santa Rosalia sembra riproporre il cammino di Gesù nella sua ascesa al Calvario, ripercorrendo quel martirio che porta al riscatto e alla beatificazione finale.
Raffigurato secondo la tradizionale iconografia, San Gaetano Thiene (fig. 12), cofondatore dell’Ordine dei Chierici Regolari Teatini, è accompagnato dal consueto giglio bianco e ripreso nell’atto di tenere tra le braccia Gesù Bambino. Non si conoscono ritratti contemporanei che abbiano potuto tramandare anche approssimativamente la sua fisionomia; del Santo rimane una sommaria descrizione fatta da Erasmo Danese che lo definisce di “statura mediocre (…), viso tondo, bell’occhi, bocca piena di soavità”[26]. Gli artisti, pertanto, si sono ispirati ad un episodio narrato da Gaetano in una lettera indirizzata a Laura Mignani, religiosa agostiniana del monastero di Santa Croce a Brescia[27]: in essa il Gaetano racconta che durante il periodo di Natale del 1517, presso l’altare del Presepe nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, venne rapito in estasi ed assistette al miracoloso parto della Madonna [28]. Per tale motivo è solitamente raffigurato con il Bambino Gesù tra le braccia o nell’atto di riceverlo dalle mani della Vergine. Il dipinto in esame, bisognoso di restauro, presenta vistose lacune dovute al distacco della pellicola pittorica.
Studiati per la prima volta in questa sede sono i due paliotti d’altare settecenteschi in cuoio dipinto provenienti dalla chiesa di Santa Maria di Gesù di Corleone[29] e probabilmente riconducibili ad artisti francescani (fig. 13).
Le preziose opere presentano un importante deterioramento delle pelli pur mantenendo pressoché inalterate le cromie. Sono, pertanto, in attesa di quel restauro per la salvaguardia e la tutela del bene già proposto con ottimi risultati per il coevo paliotto[30] in cuoio del Santuario del SS. Crocifisso di Papardura a Enna, impreziosito con la scena della Crocifissione di Cristo con la Vergine e San Giovanni. Le opere di Monreale, realizzate con cuoio punzonato e foglia d’argento, presentano un ricco ornato vegetale dipinto ad olio, con simbolica varietà floreale e accesa policromia, racchiuso in una elegante cornice pittorica arricchita da conchiglie e carnose volute secondo la moda del tempo.
Lisa SCIORTINO Palermo 4 Febbraio 2024
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