redazione
L’intervista a Sergio Rossi, curatore con Rodolfo Papa e Rita Randolfi del volume degli Atti (etgraphiae.com 2023) del convegno on line tenutosi via zoom dal 12 al 28 gennaio del 2022 chiarisce quali caratteristiche e quali novità ha espresso l’evento. In questa articolata intervista ha potuto approfondire e chiarire le novità e gli ulteriori elementi di analisi sul tema del caravaggismo emersi nel corso del convegno. A seguire, gli interventi di Marco Bussagli, Rita Randolfi e Beatrice Riccardo fanno il punto su alcuni dei temi più importanti affrontati arricchendoli con ulteriori argomentazioni.
Il volume “L’Enigma Caravaggio. Nuovi studi a confronto” è disponibile ed è possibile richiederlo presso Libroco.com
– Il convegno online 1951-2021. L’enigma Caravaggio. Nuovi studi a confronto ha riscosso un notevole successo. Nel dicembre del 2023 per i tipi della casa editrice etraphiae a cura tua, di Rodolfo Papa e di Rita Randolfi, è uscito invece questo importante tomo di oltre 300 pagine dal medesimo titolo, con splendide illustrazioni a colori e che del Convegno costituisce il naturale epilogo. Ma sarebbe riduttivo considerare questo libro come dei semplici Atti di Convegno perché rappresenta un’opera del tutto autonoma e che si inserisce a pieno titolo nell’ambito delle molteplici pubblicazioni legate alle celebrazioni per i 450 anni della nascita del grande pittore, segnalandosi già nel titolo per la sua particolarità e originalità.
R: Infatti la data che apre il libro, 1951 e non 1571, potrebbe sembrare un refuso e, come ti ricorderai, tale era stato inizialmente considerato da qualcuno. In realtà il 1951 è invece la data della prima grande mostra su Caravaggio organizzata al Palazzo Reale di Milano sotto l’impulso decisivo di Roberto Longhi e che ha segnato una svolta sugli studi del Merisi. Ma Caravaggio, come recita appunto il nostro titolo, nonostante l’enorme massa di studi che si sono succeduti in questi ultimi settant’anni rimane comunque un “Enigma” che certo questo libro non ha la pretesa di sciogliere, senza però neppure rinunciare a mettere alcuni paletti e punti fermi ormai unanimemente riconosciuti.
Tuttavia, prima di continuare, permettimi qualche ringraziamento d’obbligo. Innanzi tutto, per quel che riguarda il Convegno, a Sira v. Waldner e Aion Art per la promozione e diffusione dell’evento col supporto tecnico di Beryllium. Ai membri del COMITATO D’ONORE: Silvia Danesi Squarzina; Marcello Fagiolo; Barbara Jatta; Herwarth Röttgen; Sybille Hebert Shifferer; Andrea Spiriti; Claudio Strinati e a quelli del COMITATO SCIENTIFICO: Marco Bussagli; Mariano Carbonell; Stefania Macioce; Bert Treffers; Rossella Vodret; Alessandro Zuccari. Io sono stato l’ideatore e promotore scientifico dell’evento e Rodolfo Papa il suo coordinatore. Naturalmente il ringraziamento va esteso a tutti coloro che, numerosissimi, hanno assistito alle dieci sessioni del Convegno. Per quel che riguarda il volume è d’obbligo citare Il Castello dei Landriani. Beni Culturali e la Pinacoteca Civica della Città di Troina per il loro contributo e La Fondazione Roma Sapienza e Illegio, Associazione Culturale Comitato San Floriano per il loro patrocinio. E infine, last but not least, il grafico Giampiero Badiali e il tipografo Roberto Colli per l’ottimo lavoro svolto in tempi veramente da record.
– Ricordo che Maurizio Calvesi, proprio nel presentare un tuo libro, scriveva che la prima tentazione da evitare era quella di provare e farne il riassunto. E questo vale a maggior ragione per un volume con trentadue saggi e un’amplissima bibliografia (a cura di Rita Randolfi). Ma senza descriverci nel dettaglio, uno per uno, i singoli contributi, che indicazione puoi cominciare a darci partendo proprio da quelli che consideri i principali meriti di questo libro.
R: Il primo merito è proprio quello che tu hai appena ricordato. Non si tratta cioè di semplici Atti di Convegno ma di un volume pienamente autonomo e a sé stante che naturalmente dal Convegno è partito ma per andare oltre, per porsi come una ricognizione a 360 gradi degli studi caravaggeschi, anche tenendo conto dei contributi che sono usciti dopo il gennaio del 2022 e di cui parla diffusamente Rita Randolfi nel suo articolato e puntuale contributo: «Tutto chiede salvezza: Caravaggio peccatore in cerca di redenzione». Mi riferisco in particolare al monumentale tomo di Bert Treffers (quasi 700 pagine) Caravaggio. Arte e fede. Forma e Funzione, Editori Paparo, Napoli, uscito nel marzo del 2022, dove si sottolinea come la pittura caravaggesca sia inspiegabile al di fuori della fede cattolica che ne sottintende la maggior parte delle opere, anche quelle di solito interpretate come puri esercizi di genere.
Analisi corroborata dalla impressionante conoscenza dello studioso dei testi della Patristica, dei Gesuiti e degli Oratoriani messi a confronto in modo ineccepibile con alcuni dei principali dipinti del Merisi, che vengono così calati nella reale dimensione culturale del XVI e XVII secolo e sottratti a quei fumosi e incongrui accostamenti con epoche, come quelle dei pittori realisti dell’Ottocento, che con il Nostro non hanno niente a che fare. Profonda religiosità che fa da sfondo anche al bellissimo saggio di Treffers in questi Atti: In viaggio con Caravaggio: un itinerario spirituale, che riprende in modo fedele, con i dovuti aggiustamenti, l’appassionato e appassionante intervento dello studioso olandese nel Convegno e che aveva suscitato un autentico entusiasmo tra gli uditori, specie quelli più giovani.
Mi riferisco poi, se mi è consentita un’autocitazione, al mio ultimo volume Caravaggio alla specchio tra salvezza e dannazione, sempre edito da Paparo nel medesimo lasso di tempo, punto di arrivo dei miei trentennali studi caravaggeschi. Questo libro, cito dal saggio della Randolfi
«è una monografia, ma non di quelle tradizionali, bensì incentrata sui problemi, su quei nodi tematici che la storiografia, in particolare dell’ultimo secolo, ha lasciato insoluti e ai quali l’autore ha fornito le proprie convincenti risposte. Infatti Rossi, dimostrando una capillare conoscenza delle fonti, dei documenti, della vasta bibliografia sull’argomento, frutto dei suoi lunghi anni di studio, partendo dal presupposto longhiano di considerare il quadro alla stregua di un documento scritto, propone un’interpretazione critica di ampio respiro della produzione merisiana, svincolandola dagli eventi meramente biografici o da etichette restrittive e penalizzanti e arrivando a comprendere che Caravaggio è stato per tutta la vita un peccatore in cerca di salvezza e che i suoi quadri potevano contemporaneamente rinviare alla cultura classica e significare concetti profondamente religiosi e filosofici».
– Da quello che hai appena detto emerge che quello della religiosità, anzi del “cattolicesimo” di Caravaggio è stato uno dei temi fondamentali del Convegno prima e di questi Atti ora.
R: Certamente. Infatti i titoli delle due sessioni della prima giornata del Simposio erano proprio Caravaggio e la fede e Moralia. Caravaggio era sicuramente un peccatore, ma alla continua ricerca della salvezza e del perdono, come il suo capolavoro tardo del David e Golia della Galleria Borghese [fig.1] testimonia in modo decisivo. Il grido disperato che lancia il Caravaggio/Golia è anche un’invocazione di aiuto che in qualche modo il Caravaggio/David non ancora tocco dal peccato, con la sua espressione di pietas, sembra volere accogliere e dunque, per dirla con le parole di Papa Francesco, il nostro artista era peccatore sì, ma corrotto mai. E come tale è stato invece presentato da troppa cattiva letteratura su di lui, che insistendo sul suo carattere violento, sulla sua presunta omosessualità, ma soprattutto presentandolo come agnostico o addirittura ateo ha completamente travisato il suo pensiero e la sua arte.
Tornando ai nostri Atti, oltre al già citato saggio di Treffers, anche gli interventi di Rodolfo Papa: Questioni su “San Giovanni Battista” in Caravaggio; di Dalma Frascarelli Caravaggio e la pittura tra incredulità e Controriforma; di Matteo Gargiulo: I modelli bizantini nella pittura di Caravaggio; di Daniel M. Ungher: Tra Nazareth e Loreto: la fusione del tempo nella Madonna di Loreto di Caravaggio; di Michele Dolz: L’ambiente spirituale e religioso nella Milano borromaica ai tempi del giovane Caravaggio; di Flavio Colusso: Un doppio “esercizio spirituale” napoletano: le Opere di Misericordia, hanno il tema della religiosità come elemento centrale, ora analizzato in modo più generale, ora calato nello specifico di singoli quadri. E si tratta di interventi tutti di grande profondità di analisi e originalità di approccio metodologico, che già da soli, lasciamelo dire, varrebbero l’acquisto di questo volume, anche se in realtà ne rappresentano un quarto.
E mi piace chiudere questa parte dedicata a “Caravaggio e la fede” con una citazione del testo della Frascarelli:
«Le espressioni e i gesti che Caravaggio prende dalla realtà fattuale e assegna alle figure sacre rispondono all’esigenza di comunicare il sacro in termini di verità, più che alla volontà di infrangere i principi del decoro. L’angelo “che, invece di comparire sulla solita nuvoletta, soccorre Francesco come se avesse un malore, allentandogli la cintura” o Giuseppe che regge la partitura coi piedi infreddoliti”[1] servono a far vivere al fedele il turbamento estatico di Francesco o la stanchezza di Giuseppe al fine di dimostrare che il sacro non è relegabile nel recinto del racconto o del mito, ma riguarda la realtà concreta nella quale Dio stesso si è incarnato. Vista in questa luce, la scelta operata da Caravaggio sembra assolutamente in linea con la cultura della controriforma, piuttosto che con quella di un dissenso dissacratorio».
– Prima parlavi dei volumi usciti di recente e tu dedichi l’intero tuo saggio di chiusura alla terza recentissima edizione aggiornata del libro, monumentale anche questo, di Stefania Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1883.[2]
R: Il titolo del mio intervento è: Addenda Finali. Caravaggio, l’Accademia di San Luca, le “donne”, la morte. In effetti ho approfittato del bel libro della Macioce, veramente impressionante per i dati raccolti ma anche da apprezzare per l’equilibrio e la pacatezza delle argomentazioni, per tornare su alcuni temi che avevo affrontato nel Convegno ma ho dovuto tralasciare nel mio testo di apertura degli Atti, tutto incentrato sulle questioni attributive e in particolare sul problema dei doppi, delle repliche autografe, delle copie che è ormai diventato un argomento centrale degli studi caravaggeschi e su cui tornerò in seguito. Innanzi tutto ho ribadito come la data dell’arrivo a Roma del Merisi, che in seguito ad un documento pubblicato per la prima volta per intero nel volume Caravaggio a Roma. Una vita dal vero,[3] è stato spostato al 1596, in realtà dimostra solo ciò che tutti già sapevamo e cioè che il Merisi fosse già a Roma nella data su indicata, ma non prova assolutamente che egli non vi si trovasse già prima.
In effetti la stessa Macioce, molto più prudentemente, parla del 1595 come probabile data della presenza del Caravaggio presso la bottega del Cavalier d’Arpino, il che porta a spostare il suo arrivo a Roma ad almeno un anno e mezzo prima. Per quel che concerne il rapporto del nostro artista con l’Accademia di San Luca, negato recisamente da Antonella Pampalone nel libro del 2011, ma senza che venga portata alcuna prova al riguardo, io ho riproposto un documento da me scoperto nel 1996.[4] Nel Libro degli introiti dell’Accademia di San Luca, dove venivano registrati i nomi di tutti i pittori che si erano immatricolati a Roma a partire dal 1554, ai fogli 97 e 98 recto si legge: “Michele Milanese deve per il suo introito”; purtroppo manca poi però la data esatta di iscrizione e la somma da versare cosicché il Michele suddetto rimane per il momento uno dei tanti “pittori senza volto” della nostra storia artistica. Ciò non deve comunque stupire, perché in tutta questa sua ultima parte il volume accademico è particolarmente confuso, con oscillazioni e accavallamenti di date che vanno addirittura dal 1581 al 1604. Ora che il Michele Milanese sia Caravaggio, allo stato, non lo si può certo provare ma nemmeno escludere, anche perché i termini di “milanese” e “lombardo” nel linguaggio del tempo erano praticamente sinonimi. E vi è anche da aggiungere che il Bellori, nella sua Biografia, chiama il nostro pittore “Michele” per una buona metà del suo scritto, a conferma che evidentemente questi era noto anche con questo termine, oltre che con quelli di “Michelagnolo” (preferito dal Baglione) o di “Caravaggio” usato in alternativa dallo stesso Bellori.
Quanto alle “donne del Caravaggio”, cioè amanti dell’artista, l’unica che nei documenti compare con questo appellativo è quella “Lena che sta in piedi a piazza Roma” (cioè che abita ai piedi di piazza Navona e non che si prostituisce nella piazza) citata dal notaio Pasqualone nella sua celebre denuncia contro il Merisi nel luglio del 1605: ed è senza dubbio la ragazza che ha fatto da modella per La Madonna dei Pellegrini [fig.2] e per La Madonna dei Palafrenieri. Si tratti o meno di una certa Maddalena Antognetti, ancora non meglio identificata nonostante un’abbondante letteratura al riguardo, che Lena sia stata l’amante dell’artista è un dato inoppugnabile che una certa pruderie a scoppio ritardato tenderebbe oggi a negare.
–Torniamo al tema degli “enigmi” o se vogliamo degli equivoci che questo volume tende a sfatare.
R: Senz’altro. E partirei, come scrive nella sua Prefazione Claudio Strinati, da quella che fino a poco tempo fa sembrava una certezza. Quella del genio solitario che non ha mai avuto una scuola e non ha mai replicato le sue composizioni. Ma se nel 1603 si scatena contro il Merisi un processo per diffamazione richiesto da Giovanni Baglione! E non viene forse denunciato il Caravaggio proprio in associazione con altri per tale presunta attività diffamatoria? Da quel processo risulta lampante che sono a scontrarsi schieramenti di amici e nemici nella vita quotidiana ma soprattutto nella professione e che il Caravaggio viene individuato come una sorta di leader in un ambiente conflittuale e fervidissimo che sembra anticipare realtà molto più recenti. Il Merisi come Paganini che non concede mai il bis? Ma ormai sono universalmente riconosciuti come repliche autografe, e il Convegno ne ha ampiamente reso conto, alcuni dipinti che prima erano considerate repliche di bottega. Ma se la bottega non esisteva, allora come la mettiamo? Ecco una contraddizione di cui studiosi pervasi da una eccessiva acribia nemmeno si sono resi conto per tantissimo tempo. Del Ragazzo morso da una lucertola (e non da un ramarro, come ho precisato già nel Convegno) esistono almeno tre versioni che aspirano al rango di originali e lo stesso per il S. Francesco in meditazione, mentre per L’incredulità di S. Tommaso e per La cattura di Cristo nell’Orto i possibili originali sono almeno due, come nel libro viene documentato in modo ineccepibile, così come viene ribadita la piena autografia del bellissimo e tardo S. Giovannino disteso di collezione privata.
E questo pittore, presentato da certa letteratura come una sorta bohémien fuori di testa e che in effetti non risulta essersi mai sposato né avere avuto relazioni stabili è stato però uno dei più grandi cantori dell’amore materno e della famiglia in capolavori quali il Riposo nella fuga in Egitto Doria Pamphilj, La Madonna dei Palafrenieri della Galleria Borghese, la Madonna dei Pellegrini in Sant’Agostino. E ancora Strinati osserva, assolutamente in linea con quanto ho appena sostenuto:
«Caravaggio ateo o filo luterano? Ecco un’altra “leggenda” che il volume sfata definitivamente, attraverso un’intera sezione dedicata appunto ad approfondire la profonda radice cattolica che sottintende una gran parte dei dipinti caravaggeschi. Certo quello del Nostro era un cattolicesimo sofferto e sempre messo in discussione da una persona eternamente in bilico tra salvezza e perdizione, ma non per questo meno autentico e capace di generare eterni capolavori».
-Venendo all’articolazione del volume, che sempre Strinati definisce, secondo me con due aggettivi molto appropriati “polifonico e interdisciplinare” un primo gruppo di interventi riguarda proprio gli esordi del nostro artista.
R: Esatto. E partirei dall’interessantissimo saggio di Silvia Danesi Squarzina: Caravaggio e Peterzano, che affronta proprio con elementi inediti, il cruciale rapporto dell’artista col suo primo Maestro. Quindi Clovis Withfield in Drawing in Caravaggio si occupa dell’annosa questione del Caravaggio disegnatore esaminata soprattutto nell’ambito delle opere giovanili. Ed a seguire due interventi concentrati su singole opere. E cioè Marco Bussagli con Il ragazzo col cesto di frutta: novità e riflessioni e Beatrice Riccardo che in Novità e precisazioni sul giovane Caravaggio analizza in particolare le diverse versioni del Mondafrutto e del Ragazzo morso da una lucertola. E sempre in rapporto agli esordi del Merisi citerei ora la sezione che in realtà chiude il volume ma si occupa proprio dei luoghi dove il pittore si è formato: Artisti dei laghi ai tempi del Caravaggio, che offre un contributo originale e che credo impreziosisca ulteriormente il nostro volume. Ecco allora il Canton Ticino tra Cinque e Seicento raccontato da Claudio Metzger in A lu sguisii ul Caravaggio. E poi Andrea Spiriti con Caravaggio e gli artisti dei laghi a Milano; Laura Facchin con Caravaggio e gli artisti dei laghi a Roma: spunti di riflessione e Simona Capelli con Le copie caravaggesche e il caravaggismo nel territorio lariano.
– E mi pare che anche da un punto di vista strettamente geografico il volume spazi, come suol dirsi, a 360 gradi.
R: Sicuramente hai centrato una delle caratteristiche di cui vado più fiero. Questo spostarsi da Milano e dalla “terra dei laghi” a Roma; dalla Sicilia a Napoli e poi ancora in Spagna, Francia, Fiandre, Sardegna, fino a quella che considero un’autentica chicca e novità assoluta: i rapporti col Perù e l’America Latina. Entro nello specifico. Di Milano e del Ticino ho già parlato. Del Merisi a Siracusa si occupa Paolo Giansiracusa con il suo Caravaggio, Mario Minniti e Vincenzo Mirabella, un saggio documentatissimo ed emotivamente coinvolgente, come dimostra la sua chiusa finale:
«Lungo la pista da Napoli a Roma l’artista è agitato da una passione incontenibile, una passione che rende vive le scene pittoriche: si sente l’odore di umanità, il lamento della folla, si coglie la polvere che si alza dai luoghi affollati. Caravaggio non aveva mai dipinto Trasfigurazioni o Assunzioni, aveva sempre raccontato col colore storie vere, umane, vicende terrene. Così ancora a Malta e in Sicilia, portando all’eccesso il senso del disfacimento dell’essere, nonché la dimensione della morte e della sconfitta umana. Condannato alla pena capitale, sente sul collo la lama fredda dei carnefici. E’ forse per questo che il tema dei decapitati (Giovanni Battista, Lucia…) lo muove a compassione, calandosi egli stesso, come nel caso della tela siracusana [fig.3], tra gli astanti, per un ultimo sguardo a Lucia morta, con la consapevolezza che Lucia viva è di nuovo tra gli uomini».
Subito a seguire Valentina Certo in Caravaggio a Messina: fonti, documenti e opere di un “tumultuoso” pittore, anche attraverso un’importante documentazione inedita, ricostruisce il soggiorno del Nostro, breve ma significativo, nella città dello stretto, cui forse finora non si è data la dovuta importanza.
Quanto alla Spagna, non potevamo che affidarci a quello che è considerato il massimo esperto dell’argomento, Joan Ramón Triadó, che in Caravaggio come modello; Caravaggio come riferimento nei pittori spagnoli del primo terzo del Seicento dimostra tutto il suo sapere e la sua finezza interpretativa, spaziando dai pittori italiani in Spagna ai pittori spagnoli in Italia con esempi che vanno da G. B. Maino, a L. Tristán, da Velázquez a Pedro de Orrente, solo per fare alcuni nomi. E assolutamente rimarchevole per originalità di approccio e per quantità e qualità degli esempi proposti è il saggio di Michela Gianfranceschi: Luci e ombre nelle stampe di primo Seicento: aspetti della diffusione del caravaggismo. Mentre dei rapporti del Merisi con la Francia si occupa, sia pure indirettamente, Alessandra Rodolfo nel suo Un inedito Vignon, che tratteggia la figura ancora sfuggente di questo artista, definito il “pittore più disinvolto del Seicento francese, ma anche il più sconcertante”. Ancora da segnalare per l’originalità dell’argomento ma anche per l’ampiezza della documentazione raccolta è Tracce del naturalismo seicentesco in Sardegna di Luigi Agus; ed eccomi così arrivato a quella che ho definita un’autentica chicca: Il tema della Vergine del Latte nell’arte latinoamericana del 600 e del 700, di Laura Vargas Murcia.
Partendo da una riflessione contenuta nel mio libro su Caravaggio circa la strana assonanza iconografica tra l’immagine della Carità romana delle Sette opere di Misericordia [fig.4] e l’immagine della Vergine che allatta San Pedro Nolasco, presente in numerose tele peruviane del ‘600, la studiosa affronta il tema, da noi assolutamente inesplorato, delle eventuali tracce di caravaggismo, o meglio di naturalismo, nell’arte latinoamericana dei secoli XVII e XVIII, presentando anche alcuni esempi di grande interesse, come la presenza nella Cattedrale di Lima di un dipinto di anonimo seicentesco derivato alla lettera da un’incisione di Rubens [figg.5a, 5b, 5c] dedicata appunto al tema della Carità romana.
5a Anónimo, Caridad romana, Lima, Catedral de Lima, Siglo XVII. Foto: Banco de Crédito del Perú y PESSCA.; 5b Peter Paul Rubens y Cornelis van Caukercken, Cimón y Pero o Caridad romana, Londres, British Museum, 1650-1660. Foto: © The Trustees of the British Museum; 5c Peter Paul Rubens, Caridad romana o Cimón y Pero, San Petersburgo, Museo del Hermitage, Ca. 1612.
E dal momento che uno dei compiti di un volume come il presente non è solo quello di presentare un bilancio degli studi esistenti ma anche di aprire nuovi fronti di ricerca, penso che questo della Vargas sia un argomento che merita sicuramente nuovi approfondimenti che spero noi possiamo aver stimolato.
– Finora non hai parlato dei due saggi che, insieme a quello della Randolfi, aprono il volume, il tuo e quello di Fabio Scaletti, entrambi dedicati soprattutto alle questioni attributive.
R: E l’ho fatto a ragion veduta perché si tratta delle “questioni” su cui ora voglio soffermarmi maggiormente.
Ed inizierei dal saggio di Scaletti, emblematico fin dal titolo: La questione attributiva, perché su diversi dipinti io e lo studioso siamo arrivati alle medesime conclusioni in modo assolutamente indipendente l’uno dall’altro.
Mi riferisco ad esempio al San Francesco in meditazione (ex Cecconi) [fig.6], interessato – come osserva Scaletti- da corposi “pentimenti” e che potrebbe essere il prototipo di quella, originale, di Carpineto Romano, e di quella, forse lavoro di collaborazione, della Chiesa dei Cappuccini di Roma:
«Il dipinto ex Cecconi ha tutti i crismi di una prima versione. Mi riferisco in primo luogo ai cambiamenti in corso d’opera, visibili tramite le indagini diagnostiche, con il teschio che prima era in basso al posto della pietra e che andava a sostituire un libro in precedenza tenuto tra le mani, e con il crocifisso che era stato piazzato in alto, e, in secondo luogo, all’impiego della tela inizialmente lasciata in riserva inchiodata oltre il bordo destro del telaio, pronta per essere liberata e adoperata quando la composizione in via di sviluppo necessitava di maggior spazio, uno stratagemma proprio di chi, come Caravaggio, non progetta l’opera con disegni su carta (e quindi da riprodurre fluidamente sulla tela già preparata) e utilizzato in altre occasioni (si pensi al celebre caso della Flagellazione di Cristo del Museo di Capodimonte a Napoli). Si tratta di aspetti, tutti questi, incompatibili con lo status di una copia, e anzi, come detto, chiaramente interpretabili come propri di un archetipo. All’autografia del resto rimandano la presenza di incisioni per impostare le linee generali della composizione, l’abbozzo a base di biacca (bianco di piombo), lo sfruttamento dei contorni a risparmio (aree del fondo lasciate a vista per velocizzare l’esecuzione) e le caratteristiche dei materiali impiegati, come la tela di supporto, le componenti dell’imprimitura e i pigmenti degli strati pittorici, senza contare la peculiarità del ductus, che dimostra l’alta qualità e direi la personalità del dipinto, in altre parole la sua bellezza».
Già nel mio volume del 2022, cui rimando per l’analisi dettagliata del dipinto, ho avanzato per primo l’ipotesi che proprio la versione ex Cecconi sia il prototipo eseguito da Caravaggio mentre si trovava presso la famiglia Mattei nel 1603, e che da questa derivino sia la copia commissionata da Francesco de’ Rustici nello stesso anno, probabilmente a Prospero Orsi, e conservata in Santa Maria della Concezione, sia quella autografa del Merisi, eseguita a memoria nel 1606 e conservata a Palazzo Barberini. Anche perché la predilezione di Ciriaco Mattei verso Caravaggio derivava non solo dall’apprezzamento delle sue qualità estetiche ma anche da una comune sensibilità religiosa che ci riporta proprio nell’ambito della spiritualità francescana. Già il cardinale Girolamo, fratello di Ciriaco, era membro dell’Arciconfraternita del Gonfalone e protettore dei Francescani e del convento dell’Aracoeli, mentre di Ciriaco sappiamo che era, fra l’altro, amico personale di san Filippo Neri. Se poi aggiungiamo che Girolamo muore proprio nel 1603, allora possiamo ritenere che il S. Francesco in meditazione sia stato commissionato dai parenti del cardinale come una sorta di ex voto per celebrare la sua devozione verso l’Assisiate.
Anzi, rifacendoci proprio alla testimonianza del Gentileschi nel famoso processo del 1603, possiamo collocare questo dipinto entro un arco di tempo che va all’incirca dal febbraio al settembre di quell’anno, mentre riteniamo che il Merisi abbia poi abbia ripreso a memoria l’immagine di S. Francesco nella successiva versione ora a Palazzo Barberini. Un interessante studio di Marco Pupillo su Francesco de’ Rustici, il committente della copia dei Cappuccini, avvalora la mia ricostruzione circa il collegamento tra la versione ex Cecconi e la famiglia Mattei. Il de’ Rustici, infatti, risulta assiduo frequentatore della SS. Trinità dei Pellegrini, ed in contatto con l’ambiente oratoriano legato a S. Filippo Neri e con molti committenti del Caravaggio, come le famiglie Massimi e Cavalletti; ma soprattutto egli era in strettissimo rapporto con Ciriaco Mattei e proprio nel periodo 1601-1603, quando Caravaggio abitava nel palazzo del nobile romano. Per cui, secondo me, Francesco ha potuto vedere l’originale caravaggesco proprio presso i Mattei e farlo copiare a Prosperino Orsi, definito già ab antiquo dal Baglione col termine di “turcimanno del Caravaggio” ed in contatto anch’egli con la famiglia Mattei. Ma al di là di queste considerazioni, come ha osservato Scaletti, è proprio “l’alta qualità e direi la personalità del dipinto, in altre parole la sua bellezza” a testimoniarne il suo status di prototipo autografo.
Ma anche su altri due importanti dipinti l’opinione mia e di Scaletti coincide, corroborata inoltre dall’autorevole parere di Bert Treffers e Claudio Strinati: si tratta dell’Incredulità di S. Tommaso ora in collezione privata svizzera [fig.7],
molto probabilmente prototipo del dipinto dal medesimo soggetto ora a Potsdam, Sanssouci – Staatliche Schlösser und Gärten [fig.8],
e del S. Giovannino disteso ora in collezione privata a Monaco di Baviera [fig.9].
A proposito di questo dipinto esso compare in un articolo di Tyler Coates su “The Hollywood Reporter” del dicembre del 2023 dedicato al premio oscar Emerald Fennel e al suo recentissimo film, di cui è sceneggiatrice e regista, Saltburn definito “un racconto selvaggio e seducente di dissolutezza, erotismo e potere”. Ebbene la Fennel dichiara di essere stata sempre molto colpita dalle diverse immagini del S. Giovannino di Caravaggio da lei definite molto sexy. Il contrasto tra la pelle bianca e il tessuto rosso ha sempre attirato l’attenzione della regista e quell’estetica è stata utilizzata anche negli interni della tenuta di Saltburn. E il fatto che come esempio nell’articolo sia stato scelto proprio il dipinto di Monaco di Baviera è senz’altro una ulteriore testimonianza del suo fascino e della sua illanguidita potenza visiva.
Per quel che riguarda l’Incredulità di S. Tommaso, invece, rimando agli Atti per ricostruirne le complesse vicende, a partire da quanto scrive al proposito Giovanni Baglione:
«Per il Marchese Vincenzo Gustiniani fece un Cupido a sedere dal naturale ritratto, ben colorito sì, ch’egli delle opere del Caravaggio fuor de’ termini invaghissi; et il quadro d’un certo s. Matteo, che prima havea fatto per quell’altare di s. Luigi, e non era a veruno piaciuto, egli per esser opera di Michelagnolo, se’l prese; et in questa opinione entrò il Marchese per li gran schiamazzi, che del Caravaggio, da per tutto, faceva Prosperino delle grottesche, turcimanno di Michelagnolo, e mal affetto co ‘l Cavaliere Gioseppe [l’Arpino]. Anzi fe cadere al romore anche il Signor Ciriaco Mattei, a cui il Caravaggio havea dipinto un s. Gio. Battista, e quando N. Signore andò in Emaus, et all’hora che s. Thomaso toccò co ‘l dito il costato del Salvadore; e intaccò quel signore di molte centinaia di scudi».
Qui posso solo ricordare come Ciriaco Mattei, presso il quale Caravaggio ha alloggiato tra il 1601 ed il 1603, all’inizio del 1602 commissiona al pittore un’Incredulità di S. Tommaso della quale i Giustiniani si fanno immediatamente fare una replica autografa, che è quella che dopo vari passaggi finisce a Potsdam dove tuttora si trova; successivamente (ed entro il settembre del 1607) per motivi a noi allo stato sconosciuti anche la prima versione cessa di essere di proprietà dei Mattei (che comunque si fanno fare una copia da Prospero Orsi) magari andando in prima istanza, come opportunamente nota Scaletti, a qualche collezionista già proprietario di altre opere del Merisi come del Monte, Ludovisi, o Costa, oppure approdando direttamente ai Massimo, anch’essi ammiratori e committenti del Merisi. Ed i termini della questione sostanzialmente non cambierebbero se fossero stati i Giustiniani a commissionare per primi il quadro ed i Mattei, dove Caravaggio alloggiava, a volerne un’altra versione. E’ comunque quello che Roberto Longhi chiamava il “documento di prima”, cioè l’analisi stilistica del dipinto, a garantire l’assoluta autografia della tela ex Massimi o se si preferisce ex Mattei.
In primis la splendida figura di Cristo, vera e propria apparizione fantasmatica e surreale, per usare un termine moderno, rispetto all’analoga figura di Potsdam, più naturalistica e “vera”, ma proprio per questo “inverosimile”, secondo la nota distinzione aristotelica, dato che è un miracolo quello che si sta rappresentando. Figura apprezzata particolarmente da Mina Gregori, che alla luce delle analisi radiografiche e dei pigmenti, per le quali si rimanda alle puntuali osservazioni di Fabio Scaletti, ha affermato di poter
«sostenere in convinzione che l’opera in questione sia totalmente autografa di Michelangelo Merisi detto il “Caravaggio”, in tutte le sue parti. A mio giudizio essa è stata eseguita presso i Mattei in contemporanea con il dipinto dello stesso soggetto commissionato dai Giustiniani ed è in buono stato di conservazione. L’esame effettuato all’infrarosso ha permesso inoltre di leggere il disegno preparatorio, nonché alcuni pentimenti; il più significativo è quello riferentesi al manto del Cristo»[5].
Da grande studiosa qual è, in poche righe la Gregori riesce a riassumere in modo perfetto la questione nei suoi termini essenziali: il dipinto ex Massimo è quello eseguito per i Mattei ed è totalmente autografo in tutte le sue parti, sgomberando il campo dall’ipotesi che Caravaggio, nella stesura dell’opera, possa essersi fatto aiutare da qualche suo presunto e imprecisato (perché imprecisabile) collaboratore, cosa che egli non ha mai fatto in vita sua, nonostante di tanto in tanto si provi a considerare anche come improbabili aiutanti nell’esecuzione di alcuni dipinti i suoi amici e compagni di scorribande notturne.
Tornando alla figura del Cristo le pieghe del suo candido manto scendono morbide e ondivaghe, quasi seguendo il movimento per cerchi concentrici dei quattro protagonisti della scena; ed a questo proposito va notato come le loro teste siano più ravvicinate rispetto a Potsdam, senza alcuno spazio intermedio, creando un effetto di ancor maggiore coinvolgimento emotivo; è comunque la possente mano di Gesù che guida il dito incerto di Tommaso ad essere il vero fulcro della tela e che costituisce la migliore prova della autografia del dipinto, perché nessun altro artista coevo avrebbe saputo dipingerla con tale pregnanza visiva. In definitiva, come osserva acutamente Claudio Strinati:
«quello che distingue fortemente la versione di Potsdam da quella qui in esame è che quest’ultima ha una stesura di tipo marcatamente veneto, molto morbida nel modellato, intensissima nella descrizione dei diversi stati d’animo dei personaggi, delicatamente chiaroscurata»[6].
Quella già Giustiniani è invece più accentuata nei contrasti luministici, forse per assecondare meglio i gusti del marchese che l’aveva commissionata e perché questa era la cifra stilistica che in questo periodo stava procurando al Merisi una fama immediata e sorprendente; e non è un caso che sarà proprio questa la versione dalla quale deriveranno poi tutte le copie seguenti dove tra l’altro, come nota Scaletti in questi stessi Atti, la fronte di San Tommaso presenta sei rughe (come nella tela già Giustiniani) e non sette come in quella già Massimo e che io non esiterei a definire Mattei. Ebbene, proprio queste sette rughe che increspano il volto di Tommaso costituiscono un’altra “firma” di Caravaggio, aumentando l’intensità emotiva della scena ed il dubbio dell’apostolo e degli altri due astanti, incerti fino all’ultimo momento sulla reale entità del miracolo cui stanno assistendo. E’ ancora una volta la mano di Cristo che li guida e li rassicura, la stessa mano che aveva indicato all’incerto Matteo la vera via da seguire nella Conversione Contarelli o che fende l’aria in quel gesto benedicente e in qualche modo definitivo nella Cena in Emmaus di Londra. D’altra parte nessun copista si sarebbe preso la briga di aggiungere una piega nella fronte dell’Apostolo, mutando profondamente la sua espressione e quindi questa non può che essere stata una scelta dello stesso Caravaggio.
L’altro dipinto sulla cui autografia coincidono non solo le opinioni mia, di Scaletti, Treffers e Strinati, ma anche quelle di Maurizio Marini, Federico Zeri, Mina Gregori, Peter Robb, Steve Pepper, John Spike, Nicole Hartje, Leonard Slatkes, Michael Stoughton, Vincenzo Pacelli, è appunto Il S. Giovannino disteso citato in precedenza. Consenso generale della critica supportato anche dalle analisi tecniche e diagnostiche per le quali rimando all’attenta analisi di due grandi restauratori come Carlo Giantomassi e Donatella Zari.[7] Certo il nostro Battista non ha l’efebica e provocante bellezza del giovanile S. Giovannino dei Musei Capitolini, né l’ammiccante sfrontatezza dell’analogo soggetto della Borghese, anche se il modello forse è lo stesso, uno scugnizzo napoletano gracile e ingobbito, la testa un po’ troppo grande rispetto al busto, muscolarmente più tonico ed agile nella versione romana, quasi spolpato e ridotto a pura essenza spirituale nel nostro caso. E questo mi conforta nella convinzione che vado ribadendo dall’inizio dei miei studi: i modelli per Caravaggio (e siano essi nature morte o esseri umani) sono spesso un puro pretesto per le sue musicali variazioni sul tema, che ritornano più o meno simili anche a distanza di anni, come la Maddalena Doria e l’analogo soggetto che assiste Maria nella Morte della Vergine del Louvre; come i due autoritratti di profilo, pressoché identici, della Cattura di Cristo nell’Orto del 1602 e del Martirio di Sant’Orsola di otto anni più tardi o ancora il volto di David della Borghese che riprende idealizzandolo, a quasi dieci anni di distanza, l’autoritratto del Martirio di S. Matteo. I suoi modelli Caravaggio non li aveva solo e sempre davanti agli occhi ma spesso dentro la mente e, come da un cilindro magico, li faceva uscire a piacimento e li faceva rivivere sulla tela.
La stessa cosa Merisi ha fatto con i due San Giovannin0 citati in precedenza, quello della Borghese e quello in collezione privata: i due quadri si distanziano non di molti anni, ma di pochi mesi o forse giorni e non potrebbero essere più simili e nello stesso tempo più differenti. Tanto è vivo, palpitante, provocatorio il primo, quanto è etereo e spirituale quello di Monaco: egli ci appare disteso su un povero giaciglio appena percepibile nell’oscurità generale, con uno sperone roccioso che si intravede nello sfondo, rischiarato appena da una luce nascente dall’aurora; in primissimo piano vi è una croce formata da due esili canne appena sovrapposte tra loro e subito dietro si incendia il rosso del drappo che copre appena la parte inferiore del busto e le pudenda del nostro fanciullo e fa anche da lungo lenzuolo oltre che marcare in modo altamente drammatico l’intera composizione. Il Battista è seminudo, le gambe distese, in evidenza solo le cosce, il busto semi sollevato con le braccia incrociate, il volto di profilo immerso nella penombra. La luce che illumina solo parte del suo corpo è resa come attraverso veri e propri lampi improvvisi, che tanto più si accendono quanto più intorno regna l’oscurità, e modellano e torniscono le membra con un virtuosismo pittorico di rara potenza e insieme di assoluta semplicità. Egli sembra dunque consapevole che la Grazia, cui allude il chiarore aurorale che si intravede nel fondo della scena, potrà essere raggiunta solo dopo il suo estremo sacrificio, che Giovanni accetterà volentieri ad imitationem Christi.
Ed è anche quello che in qualche modo intende fare Caravaggio, che già si era identificato col Battista nella Decollazione [fig.10] di Malta e che nel David e Golia della Borghese compie una sorta di auto decapitazione virtuale o metaforica tesa a cancellare i propri delitti e presentarsi come un peccatore penitente davanti al giudizio di Dio e degli uomini. E qui torniamo alla differenza tra corrotto e peccatore di cui si parlava all’inizio. Dal momento che è ormai acquisito che quest’ultima tela è stata spedita da Napoli a Roma a corredo della domanda di grazia da sottoporre al pontefice Paolo V Borghese, o che in ogni caso era proprio questo uno dei motivi per cui è stata dipinta, sarebbe ben strano che nel chiedere il proprio perdono Caravaggio si fosse auto raffigurato solo nelle vesti di Golia, ossia come un “corrotto” la cui inclinazione al male è confermata dalla presenza di un mesiodens, cioè di un quinto incisivo, che rafforza appunto questa connotazione negativa.[8] Anzi è evidente che se così fosse stato il Papa non avrebbe potuto che rigettare ogni richiesta di clemenza. Ma il nostro artista, come vado sostenendo ormai dal lontano 1989[9], nel dipinto compie invece una doppia auto raffigurazione, perché egli è contemporaneamente Golia, con i lineamenti quasi sconvolti che aveva effettivamente nel 1609, ma anche David, fanciullo non ancora tocco dal peccato e che invece ha le fattezze del Merisi giovane, quello degli autoritratti del cosiddetto Bacchino malato della Galleria Borghese o dell’autoritratto che compare nel Martirio di San Matteo in San Luigi dei Francesi e che, in qualche misura, uccidendo metaforicamente la parte di sé ormai proiettata verso il male, si riscatta alla luce di Cristo. E quindi lo stesso Golia, il cui urlo disperato può leggersi come un’invocazione di aiuto e verso cui David indirizza uno sguardo pervaso di pietas, accettando il proprio sacrificio può essere ancora in grado di ricevere la Grazia divina.
– Nei vostri interventi sia che tu che Strinati sostenete che è ormai accertato che Caravaggio non era, come si è pensato a lungo, una sorta di Paganini che non concedeva mai il bis, ma che sono molte le repliche autografe eseguite dal pittore. Del San Francesco in contemplazione e dell’ Incredulità di S. Tommaso hai già parlato, ma tu fai anche altri esempi, attinenti in particolare al periodo giovanile.
R: Il caso più emblematico è proprio quello del cosiddetto Mondafrutto, da molti considerato il più antico tra i dipinti del Merisi che ci sono pervenuti e di cui esistono addirittura dodici versioni che aspirano, alcune in effetti senza alcun titolo, al rango di originali. Tra queste, quella che io propongo come autografa, anzi come un vero e proprio incunabolo, è quella ex Sabin [fig.11], ora in collezione privata svizzera, che anche Scaletti attribuisce al nostro artista e che appare ancora molto legata alla matrice lombarda del pittore, come ha sottolineato in una lucida e puntualissima scheda sul dipinto Mina Gregori, evidenziando come la morbidezza dell’impasto cromatico ed anche alcune incertezze della stesura pittorica ci suggeriscano di considerare questa tela come una primizia assoluta tra tutti i dipinti conosciuti di Caravaggio, ancora legato alla maniera del Peterzano, e rimarcando ancora come sia difficile credere che brani così tipicamente lombardi come il frutto e le mani accuratamente resi, con il loro colore rosato e i loro vari giochi di luce, possano essere opera di un copista.[10]
Venendo al sostrato religioso del dipinto, ho ribadito quella che io considero (senza falsa modestia) una tra le osservazioni più interessanti del mio volume del 2022, quando accosto, e sono l’unico a farlo, il nostro Mondafrutto con un dipinto raffigurante L’Eucaristia in una ghirlanda di frutti di Jan Davidsz de Heem, datato al 1648 e conservato a Vienna nel Kunsthistorisches Museum, in cui il calice con l’ostia consacrata compare in una nicchia circondata da una ghirlanda composta da fasci di spighe di avena, grappoli d’uva, pannocchie di mais, ciliegie, fichi, limoni, pesche e pere: gli stessi identici frutti, se si eccettuano susine e albicocche al posto di uva e fichi, che connotano il nostro dipinto, il cui significato eucaristico, presente anche nel Ragazzo con un cesto di frutta della Borghese, non credo possa essere messo in dubbio. Anche il gesto del giovane che sbuccia un bergamotto o melangolo, quindi un frutto comunque amaro, rafforza il senso profondo della tela, che unisce un profondo valore religioso ad un messaggio genericamente moraleggiante. Il nostro protagonista, infatti, è colto sia nell’atto di purificarsi (mondarsi) dai propri peccati, sia nel momento di scegliere la via stretta e tortuosa della virtù rispetto a quella, solo all’apparenza più comoda e agevole dei piaceri carnali. E molto probabilmente questa versione è stata poi replicata dal pittore in un periodo successivo nella tela che ora si trova ad Hampton Court, Royal Galleries, già più “caravaggesca” nella resa più marcata delle pieghe della camicia e nell’uso più avvolgente e plasmante della luce.
Altro caso conclamato di doppio è quello del Ragazzo morso da una lucertola la cui autografia ha finora diviso la storiografia tra la versione della Fondazione Longhi di Firenze e quella della National Gallery di Londra, entrambe aspiranti a pieno titolo al rango di originali. Già nel mio libro del 2022 ed ora negli Atti io propongo di affiancare a queste due tele una terza versione, in collezione privata romana [fig.12], e che considero anzi come il prototipo da cui derivano le altre due, per tutta una serie di ragioni che posso qui solo sintetizzare al massimo. Innanzi tutto per il volto di straordinaria fattura, minuziosa resa anatomica e sottili giochi cromatici, con le bellissime sfumature di rosa della guancia destra; quindi per i sottili trapassi di ocra che marcano le pupille, così come per il particolare dell’occhio inumidito dalle lacrime che scendono leggere e trasparenti, con tocchi di biacca dati in punta di pennello a stesura pittorica ultimata e che sono assolutamente identiche alla famosa “lagrimuccia sulla gota” della Maddalena Doria Pamphilj, vero virtuosismo “alla fiamminga” del tutto assente nella versione di Londra e attutito in quella fiorentina.
Plasticamente incisiva è poi la torsione della spalla abbacinata per tre quarti dalla luce e la cui linearità verticale contrasta con le pieghe ondivaghe della bianca tunica, che vanno appunto nella direzione opposta. Le mani, sia quella in primo piano sia quella più lontana, hanno una loro delicata e insieme incisiva eleganza. La caraffa piena d’acqua è resa sì con minuzia descrittiva, ma insieme con quel fare “rotondo” che è di Caravaggio e di lui solo e con un virtuosistico trapasso di grigi. Quanto alla tela della Fondazione Longhi [fig.13], ad un più attento esame, sono giunto alla conclusione che anch’essa è una replica autografa del Caravaggio, dipinta anzi strettamente a ridosso di quello che io considero il prototipo ora in collezione privata romana e quindi sempre entro il 1594, mentre la versione inglese risulta comunque leggermente più tarda, come ammesso anche dagli studiosi della National Gallery.
– Ampio spazio lo dedichi anche alla Cattura di Cristo nell’Orto ora in collezione Bigetti e recentemente esposta al Palazzo Chigi di Ariccia, di cui anche noi di About Art ci siamo occupati in diverse occasioni.
R: Si tratta di una tela [fig.14] a favore della cui autografia si sono espressi tra gli altri, oltre al sottoscritto, Denis Mahon, Mina Gregori, N. Reynolds, Maurizio Marini, Clovis Whitfield, Vincenzo Pacelli, Carla Mariani, John Spike, Jacopo Curzietti, Caterina Napoleone, Pierluigi Carofano, Carmelo Occhipinti, Anna Coliva, Francesco Petrucci, Carlo Giantomassi.
Il dipinto conserva ancora la cornice originale “nera rabescata d’oro” i cui arabeschi sono stati probabilmente dipinti dallo stesso Caravaggio o comunque eseguiti sotto la sua supervisione. Il quadro fu eseguito nel corso del 1602 e saldato al pittore il 5 gennaio del 1603 per 125 scudi comprendente anche la cornice “depinta”:
«Adj 2 di Genn.o 1603 e pui devono avere sc. cento venticinque d mo.ta di iulij x p. sc.o.p. tanti pagati à Michel Angelo di Caravaggio p. un quadro con la sua cornice depinta d’un Cristo preso all’orto devo sc. 125».
Primo a citare la nostra tela è stato Gaspare Celio nel 1638 [11], sulla base tuttavia di notizie raccolte molto tempo prima. Questi indicava tra le “Pitture nel Palazzo vecchio del Signor Marchese Matthei” – cioè Asdrubale -, tre opere di Caravaggio:
“Quelle della presa di Christo mezze figure. Quella de Emaus. Quella del Pastor friso, ad olio, di Michelangelo da Caravaggio”.
Successivamente Giovan Pietro Bellori, nel 1664 e nel 1672, ma riferendosi anch’egli ad una visione del quadro avvenuta una trentina d’anni prima scrive:
«Concorsero al diletto del suo pennello altri Signori Romani e trà questi il Marchese Asdrubale Mattei gli fece dipingere la Presa di Christo. Tiene Giuda la mano alla spalla del maestro, dopo il bacio; intanto un Soldato tutto armato stende il braccio, e la mano di ferro al petto del Signore, il quale si arresta patiente, e humile con le mani incrocicchiate avanti, fuggendo dietro San Giovanni con le braccia aperte. Imitò l’armatura rugginosa di quel soldato coperto il capo, e’ l volto dall’elmo, uscendo alquanto fuori il profilo; e dietro s’innalza una lanterna, seguitando altre due teste d’armati»[12].
E’ indubbio che questa descrizione si adatti molto meglio alla versione “rettangolare” ed espansa longitudinalmente del dipinto romano che a quella “quadrata” del medesimo soggetto conservato presso la National Gallery di Dublino e considerata anch’essa un autografo da una parte consistente della storiografia caravaggesca. Così come il pathos che la prima sa trasmettere non trova riscontro altrove. Si tratta di un dramma corale che trova il suo culmine proprio nella figura di Giovanni con le braccia aperte protese verso il vuoto. E si osservi il suo manto che descrive un ovale perfetto che continua in basso nelle braccia “incrocicchiate” del Cristo, fino a ricongiurgersi proprio con la figura del giovane evangelista. E’ come un onda continua, un vero e proprio furor compositivo senza pause e tentennamenti che non potrebbe trovarsi in una replica e meno che mai in una copia. E lo stesso dicasi per gli splendidi bagliori delle armature dei soldati che tramettono la luce anziché introiettarla, aggiungendo pathos al pathos.
Quanto ai colori, i rossi violenti e fiammeggianti, quasi intrisi di sangue, ed i neri gagliardi e “rinvigoriti”, come fatti di pece, sono assolutamente in linea col modus operandi caravaggesco di questo periodo. E con questa analisi concorda in pieno Clovis Whitfield, che con perfetta sintesi osserva:
«Questa versione [ex Sannini] è quella originale fatta per Ciriaco Mattei, distinguibile per i molti pentimenti che mostrano le difficoltà dell’artista nell’organizzare una composizione così grande con tante figure. Negli inventari Mattei è contraddistinta dalla cornice nera e oro con decorazione arabescata fornita originariamente da Caravaggio stesso insieme al quadro. Ognuna delle figure centrali è dipinta sopra quella fatta in precedenza tanto che il giallo della veste di Giuda traspare attraverso le perdite di colore dell’armatura del soldato. La figura di Cristo è stata dipinta due volte, la seconda per far spazio al drammatico gesto di San Giovanni sulla sinistra: un profilo di donna è visibile sulla destra, e fu eliminato perché inappropriato al soggetto»[13].
D.L Per concludere una domanda di rito: perché un appassionato di Caravaggio o un semplice amatore di storia dell’arte dovrebbe acquistare questo volume?
S.R. Innanzi tutto partiamo da coloro che numerosissimi hanno assistito con grande partecipazione e interesse al Convegno online. Ora in questi Atti troveranno quegli interventi aggiornati ed ampliati, nonché corredati di tutti i necessari apparati di note e bibliografia relativa. Chi il Convegno non lo ha potuto seguire troverà comunque un volume completamente autonomo e interdisciplinare, con i contributi di alcuni dei maggiori studiosi di Caravaggio, e che affronta anche temi solo apparentemente minori ma che uniti a quelli più dibattuti offre un panorama a trecentosessanta gradi di assoluto interesse. Altro motivo non secondario è il corredo di immagini veramente amplissimo e di alta qualità e che è ormai sempre più raro trovare in un volume di storia dell’arte.
Redazione Roma 7 Febbraio 2024
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