di Marco BUSSAGLI
Settant’anni dopo Caravaggio.
Ci volevano tutto l’entusiasmo e l’effervescenza intellettuale di un trio come quello di Sergio Rossi, Rodolfo Papa e Rita Randolfi (curatori) per dar vita a un convegno – che non esiterei a definire titanico – ancora condizionato dagli esiti della pandemia come quello intitolato L’enigma Caravaggio. Nuovi studi a confronto che si tenne online fra il 12 e il 28 gennaio del 2022 e di cui ora sono usciti gli Atti in splendida veste editoriale, per i tipi della EtGraphie.
Del contenuto parlerà, in maniera assai circostanziata, lo stesso Sergio Rossi nell’intervista rilasciata ad About Art, che segue questa mia riflessione sul tema caravaggesco. Sarà appena il caso di ricordare che la fortuna del Merisi, negletto per secoli, si deve agli studi di Roberto Longhi che, fra gli altri, ebbe il merito di recuperare alla critica del secondo Novecento, la personalità artistica del pittore impostasi al mondo dopo la celebre mostra allestita a Milano (Palazzo Reale) dall’aprile del 1951, fino al giugno di quell’anno. Non è infatti un caso che il titolo appena citato sia preceduto dalle due cifre, 1951-2021, che rappresentano le date – iniziale e finale – del mezzo secolo di ricerche per l’appunto scaturito dall’impulso che Roberto Longhi dette a questi studi con quell’esposizione.
L’omaggio a quel momento epocale, scelto significativamente dal trio dei curatori del Convegno, deriva dalle caratteristiche pressoché irripetibili di quella mostra, basata sul confronto fra opere caravaggesche che oggi sono praticamente inamovibili, messe insieme dal grande storico dell’arte che riuscì a creare un’atmosfera di cui si può avere sentore leggendo un testo di recente pubblicazione (Patrizio Aiello, Caravaggio 1951, Officina Libraria, Milano 2019). Da lì, fu avviata una metodologia nuova, ossia quella di avvalersi dei risultati di una novità tecnologica, fino ad allora, mai applicata alle opere d’arte. Mi riferisco all’uso della radiografia per indagare quel che sta sotto la pelle pittorica finale.
Si trattò di una vera e propria rivoluzione perché gli studiosi di tutto il mondo poterono vedere con i propri occhi quelle che erano state le versioni fino ad allora sconosciute che avevano preceduto quella definitiva, per esempio, di capolavori come la Medusa o il Martirio di San Matteo di cui si rivelò il tormento e l’incertezza di quell’articolato percorso creativo. Un metodo che sfociò nella mostra del 1985, Caravaggio e il suo tempo, tenutasi fra Napoli e New York (The Age of Caravaggio) e che è a tutt’oggi seguito.
L’altra novità della grande esposizione di Milano fu l’irruzione – ad evento ormai avviato – di un capolavoro come la Giuditta e Oloferne oggi nella collezione di Palazzo Barberini. La vicenda è nota. Del dipinto ricordato dal biografo Baglione si erano perse le tracce per secoli, finché venne ritrovato, quasi per caso, solo nel 1951 dal restauratore Pico Cellini (figura di spicco della cultura artistica romana di quegli anni insieme alla moglie Nava – conosciuti personalmente da chi scrive – e punta di diamante dei laboratori di restauro del Vaticano) presso la famiglia Coppi che – del tutto ignara – ne era in possesso. Il quadro, segnalato al critico Roberto Longhi, fu restaurato dallo stesso Cellini ed esposto quando la mostra era già stata inaugurata. Si trattò di un vero coup de théâtre che, in certo senso, enfatizzò ancor di più la teatralità del quadro stesso e dell’esposizione che, per questa straordinaria novità, fu prorogata di due mesi.
Un altro punto di snodo nella vicenda critica di Caravaggio fu la grande mostra alle Scuderie del Quirinale che, nel 2010, celebrò i quattro secoli dalla scomparsa dell’artista. Un’iniziativa inevitabile e auspicata da tutti, ma anche criticata da studiosi di assoluto spessore come Maurizio Marini che la considerò un’occasione mancata (nonostante i 600.000 visitatori), anche perché – paradossalmente –, lui non fu coinvolto nella grande e meritoria iniziativa. Certo è che l’esposizione, con il concorso di autorevoli studiosi ad iniziare da Claudio Strinati (curatore), ripercorreva per summa fastigia la vicenda artistica del grande artista a partire dalla Fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphilj a Roma, per concludersi con il Davide e Golia della Galleria Borghese, testo pittorico d’ispirazione (ed espiazione) autobiografica per la tragica vicenda della morte di Ranuccio Tomassoni che, indirettamente, fu la causa della drammatica e prematura scomparsa dell’artista spentosi il 18 luglio 1610, a soli 38 anni d’età – probabilmente per una febbre malarica – nell’ospedale di Santa Maria Ausiliatrice a Porto Ercole.
Al di là delle apodittiche parole del suo nemico giurato Giovanni Baglione che chiosò la biografia del pittore lombardo con parole di disprezzo («morì malamente come appunto male havea vissuto»), i dispacci che ne annunciavano la scomparsa inaspettata piangevano la dipartita di Caravaggio «pittore famoso et eccellentissimo». Una dipartita che presenta ancora dei punti oscuri e un dibattito tutt’altro che sopito.
La vicenda è stata ben ricostruita da vari studiosi, a cominciare da Stefania Macioce che scrive come l’ansia di Caravaggio di rientrare a Roma con la concreta speranza di ricevere la grazia papale, lo spinse ad imbarcarsi su una feluca fra il 10 e l’11 luglio di quell’anno maledetto. Lo scalo previsto a Palo (oggi Ladispoli), una località sul litorale, a metà fra la città di Civitavecchia e la foce del Tevere, si risolse in un problema perché l’artista fu trattenuto dalla guardia costiera. Pagata un’onerosa cauzione, riebbe la libertà, ma non aveva altra scelta che raggiungere a piedi Porto Ercole dove, nel frattempo, aveva attraccato la feluca con quel prezioso carico di opere che Caravaggio voleva donare al pontefice, vale a dire la Maddalena e il San Giovannino che il pittore aveva realizzato sotto la protezione della marchesa Costanza Colonna. Quando il maestro giunse a destinazione, stanco e malandato, però, la feluca era già ripartita con a bordo tutti i quadri che, infatti, non erano stati recuperati da nessuno. Allora, deluso e provato, Caravaggio si lasciò andare al suo destino.
Tuttavia – di recente – c’è stato chi, come Vincenzo Pacelli, ritiene che – nonostante il documento ritrovato nel 2001 che attesta la morte a Porto Ercole – l’artista si sia spento nella città di Civitavecchia, sulla base della biografia scritta da Giulio Mancini il quale, poi, avrebbe cancellato il nome del porto laziale per sostituirlo con quello dell’altra località. Del resto, Pacelli già dal 1994 proponeva una versione diversa della vicenda finale dell’artista che sfociava nell’ipotesi di un crudele assassinio ai danni del grande pittore – L’ultimo Caravaggio. Dalla Maddalena a mezza figura ai due San Giovanni (1606-1610), Ediart, Todi 1994 –, consumatosi proprio nel Castello di Palo su commissione dell’Ordine di Malta e il tacito assenso della Curia. Altri studiosi come Roberto di Tomasi (Gli ultimi giorni di Caravaggio. Da Napoli a Palo, Universitalia, Roma 2022), è tornato sull’argomento con uno studio pubblicato per la collana di monografie dell’Università di Tor Vergata denominata Horti Hesperidum, dove chiarisce che lo scalo di Palo era extraterritoriale rispetto all’allora Stato della Chiesa (e quindi più sicuro per il pittore), giacché proprietà di Virginio Orsini cugino di Costanza Colonna, e che, nonostante questa condizione, nacquero i problemi che abbiamo già descritto. Il motivo fu, probabilmente, l’assenza dell’Orsini, duca di Bracciano, recatosi a Roma per curare la gotta. Non solo, ma Tomasi pubblica un documento emerso dagli archivi Farnese di Parma relativo all’accordo notarile tra il Merisi e Giovan Francesco Tomassoni, fratello di Ranuccio, vittima nel duello dell’estate del 1606, da cui si evince un tentativo di riconciliazione con la famiglia, utile ad ottenere più in fretta il perdono del papa.
A tutto questo va aggiunto il ritrovamento dei supposti resti del grande pittore a Porto Ercole ad opera di Silvano Vinceti e della sua più che qualificata equipe (composta da Giorgio Gruppioni, ordinario di antropologia all’università di Bologna, da Francesco Mallegni, ordinario di micro-biologia dell’università di Pisa, da Lucio Calcagnile dell’università di Lecce, ordinario di fisica applicata, datazione e diagnostica, da Luciano Garofano ex responsabile del Ris di Parma, nonché dallo storico e critico d’arte Maurizio Marini) che – fra l’altro –, sollevò gli strali di Tomaso Montanari, nonostante nelle ossa siano state trovate le tracce di piombo dovute, nel caso che l’identificazione fosse corretta, all’uso di colori tossici (per es. il bianco di piombo) da parte del grande artista (S. Vinceti, G. Gruppioni, L’enigma Caravaggio. Ipotesi scientifiche sulla morte del pittore, Armando Editore, Roma 2010). Come si vede, c’è sempre molto fermento intorno alle vicende del grande artista e, del resto, il tema della tecnica e delle scelte metodologiche di Caravaggio nella sua pittura è sempre stato un altro argomento al centro del grande dibattito sul Merisi. Non si possono non ricordare le ricerche di Roberta Lapucci (intervistata di recente dal nostro Direttore Pietro Di Loreto, cui rimandiamo per ogni dettaglio: Come riconoscere Caravaggio? ‘Questa’ diagnostica non basta più! Il parere di Roberta Lapucci, in About Art on line, marzo 2018) che ha rilevato in alcune opere la presenza di sali di mercurio, come sostanza fotosensibile, su cui dovevano impressionarsi soggetti opportunamente illuminati, grazie all’uso della camera oscura (Caravaggio and the Alchemy of Painting, in D. Hockney, J. T. Spike, S. Grundy, R. Lapucci, F. Camerota, C.M. Falco, C. Pernechele, a cura di, Painted Optics Symposium. Re-examining the Hockney-Falco thesis 7 years on, Firenze, Palazzo dei Cartelloni, 7-9 settembre 2008, Fondazione Giorgio Ronchi, Firenze 2009, p. 51).
Una riflessione che, sia pure con un’impronta più spiccatamente ottica, fu ripresa da Rossella Vodret in una memorabile mostra negli ambienti a piano terra di Palazzo Venezia a Roma (C. Falcucci, a cura di, La bottega del genio, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Venezia, 22 dicembre 2010 – 29 maggio 2011, L’Herma di Bretschneider, Roma 2010). Quello del maestro, infatti, fu un percorso per tappe che, tuttavia, iniziò fin da subito con l’uso di strumenti ottici, sia pure semplici come uno specchio. Credo di averlo potuto dimostrare nell’analisi del Fanciullo con il cesto di frutta, pubblicata proprio negli atti di cui potrete leggere più avanti (pp. 87-92). Qui, il giovane Merisi si sperimentò in un autoritratto allo specchio realizzato reggendo contemporaneamente il cesto con la sinistra (che risulterà destra nel quadro) e disegnando con la destra. Il che vuol dire che fu costretto a tenere il cesto con una mano sola. Traccia di questo sforzo rimane nella rappresentazione della spalla destra del dipinto con il muscolo deltoide oltremodo turgido, ossia in una condizione affatto ingiustificata se avesse sostenuto il peso con due mani.
A dispetto della pletora di studi, perciò, alcuni aspetti rimangono ancora oscuri o non del tutto chiariti, a cominciare dalla necessità di dover abbandonare l’idea che l’artista si sia dedicato soltanto ad opere uniche, quando invece, sono documentate repliche e varianti autografe, come per esempio quelle relative al Davide e Golia già ricordato, nella versione della Galleria Borghese, del Kunsthistorisches Museum di Vienna cui, oggi, dopo il restauro, si può aggiungere pure quella del Prado.
In tutte e tre le opere risulta la presenza del quinto incisivo nella chiostra dentaria inferiore. Un’iconografia cui ho dedicato molto tempo ed energie che è sfociata nella recente pubblicazione di uno studio intitolato Il male in bocca. La lunga storia di un’iconografia dimenticata cui Nica Fiori, proprio su queste pagine, ha dedicato una circostanziata recensione cui rimando (“Il male in bocca”. Il libro di Marco Bussagli sulla lunga storia di un’iconografia dentaria dimenticata, in About Art on line, 10 dicembre 2023). Questo tema iconografico, dall’arco cronologico estremamente vasto (dal V sec. a.C. al XX secolo) non è estraneo al Merisi, in quanto segno di peccato. La presenza nella bocca di Golia, che sempre ricalca la fisionomia dell’artista (pure nella versione originaria del Prado, coperta dalla versione finale, come hanno dimostrato le indagini diagnostiche a rx) assume il valore significativo di una voluta auto-condanna e del desiderio d’espiazione.
Al contrario, non ricopre alcun rilievo autobiografico la sua presenza nella bocca del Suonatore di liuto di San Pietroburgo (che ha addirittura il morso inverso) dove la musica assume la dimensione della metafora della lascivia, mentre l’opera con lo stesso soggetto, conservata al Metropolitan di New York rappresenta quella della musica come allegoria della bellezza armonica del cosmo dove il musico non ha affatto quella anomalia dentaria. Così, al di là delle due diverse collezioni di provenienza, Giustiniani e Del Monte, le due tele vanno lette insieme almeno dal punto di vista simbolico, coerentemente con la cultura musicale dell’epoca che oscillava fra i due estremi emblematici divisi fra peccato e virtù. Da questa breve, ma ritengo, densa ricognizione, si comprende bene come le problematiche intorno alla figura di Caravaggio siano tutt’altro che pacifiche e scontate. Al contrario, la fortuna critica sull’artista, sebbene unanime nell’apprezzarne la genialità indiscussa, risulta ancora in evoluzione. Nonostante la spinta agli studi e la scoperta di un gran numero di documenti ulteriormente ampliati, come mostra l’ultima edizione di un’opera ormai indispensabile quale quella di Stefania Macioce (Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti fonti e inventari 1513-1883, Ugo Bozzi editoriale, Roma 2023), la figura del grande artista suscita ancora molti interrogativi. A questo punto, è perfettamente chiaro il motivo per il quale il titolo del Convegno di cui leggerete sia stato l’Enigma Caravaggio.
Marco BUSSAGLI Roma 7 Febbraio 2024