di Beatrice RICCARDO
La natura morta: da “oggetti di ferma” a oggetti viventi.
Il Convegno 1951-2021 L’Enigma Caravaggio, Nuovi Studi a confronto, tenutosi dal 12 al 28 gennaio 2022, in modalità remota, ideato dal Prof. Sergio Rossi e coordinato dal Prof. Rodolfo Papa, ha esplorato a 360° il mondo caravaggesco, soffermandosi su tutti quegli aspetti che già a partire dalle cronache dell’epoca avevano suscitato particolare “scandalo” in relazione non solo alla vita fuori da ogni regola del nostro geniale artista ma anche alla sua enorme e improvvisa notorietà a livello europeo, che ha avuto la potenza di modificare in modo irreversibile il corso di uno stile accademico assuefatto alle regole e ai compiacimenti dei committenti. Intendiamoci, nel corso dei secoli sul Caravaggio, uno degli artisti più amati e insieme controversi dell’arte occidentale, è stato scritto tutto e il contrario di tutto.
Sicuramente questo volume, sulla scia di quello di poco precedente dello stesso Sergio Rossi,[1] sa cogliere l’autentica essenza della sua arte, che è quella di un pittore colto, assolutamente inserito all’interno della Weltanschauung della sua epoca ed allo stesso tempo cattolico e peccatore, ribaltando così definitivamente quell’immagine di un Merisi attaccabrighe e illetterato, che dipinge solo quello che ha davanti agli occhi, quasi un bohémien ante litteram, violento, assassino, pederasta, ed infine filo luterano se non addirittura miscredente, che ancora continua ad infestare tanta cattiva letteratura su di lui. Perché se è vero che egli ha avuto un’esistenza particolarmente drammatica e avventurosa, essa va contestualizzata all’interno dell’epoca in cui egli visse, e perché egli era, al di là di ogni ragionevole dubbio, un cattolico e un peccatore alla continua ricerca della Grazia e della redenzione, come questi Atti dimostrano in modo ineccepibile. E viene smentita anche l’altra “favola” del pittore semianalfabeta perché Caravaggio era al contrario un artista dotato di straordinaria cultura e memoria visiva, “nato sotto Saturno”, ed in grado di conciliare come pochi religiosità ed esoterismo.
Ma di questo aspetto hanno scritto su questo numero gli altri redattori che mi hanno preceduto.
Io invece intendo soffermarmi su un altro tema anch’esso sviscerato negli Atti sotto diversi punti di vista, quello della Natura Morta. Si tratta di un genere che fino al ‘500 aveva un’importanza marginale nella pittura dal Medioevo al Rinascimento, essendo considerato come un elemento decorativo e tutt’al più di supporto rispetto ai messaggi principali che si volevano evidenziare. A partire dal Concilio di Trento del 1563 però, la statica natura assume un valore simbolico potente, al fine di diffondere un messaggio devozionale e soprattutto di monito, divenendo da “morta” una natura vivente e, soprattutto, parlante. La controriforma dettava precise regole di severità, per contrastare le accuse di cupidigia e superbia provenienti dalla classe protestante.
Anche la produzione artistica assume un ruolo fondamentale in questo processo di rifondazione morale. La Chiesa, soprattutto i Cardinal Nepoti e l’alta borghesia sono i principali committenti degli artisti e nessuno di loro poteva contraddire, se voleva lavorare, i severi dettami della Controriforma, in quel preciso momento storico. Si è quindi passati da oggetti inanimati atti a fungere da contorno o da riempitivo di una composizione figurativa a essere protagonisti assoluti di un dipinto. La pittura olandese e fiamminga in questo ha molto da insegnare. Tuttavia la staticità e la minuziosità della pittura d’oltralpe, nella perfezione della disposizione dei fiori e dei frutti raffigurati in una mostra di oggetti “fermi”, è molto lontana dal suscitare nello spettatore emozioni come quelle derivanti dai dipinti del Caravaggio, considerato il precursore della natura morta italiana. Fino ad allora la stessa natura morta doveva essere rappresentata nel massimo del suo rigoglio, nascondendo le fasi di decadenza, così come si raffiguravano i committenti nel massimo della loro bellezza ideale, escludendo qualsiasi difetto fisiognomico naturale. Caravaggio ribalta il senso del significato di “natura”, proprio come riferito da Bellori “sdegnando ogn’altro precetto, riputava sommo artificio il non essere obligato all’arte”[2].
Filippo Baldinucci ci insegna, nel suo Vocabolario toscano dell’arte del disegno, che
“Naturale: Chiamano i pittori quell’Uomo, che ignudo o vestito, sta fermo, per essere ritratto; chiamanlo anche modello, propriamente però colui, che per tale effetto è pagato dal pubblico dell’Accademia del Disegno. E lo star fermo per tale effetto d’esser ritratto, dicono stare al naturale. E fatto dal naturale; per esempio uomo, albero, mano, aria, &c. fatta al naturale, vale rappresentato in disegno, in pittura, o in scultura, con aver tenuto il modello, o naturale, per ricavarlo. E fatto al naturale vale rappresentato in disegno, pittura, o scultura, simigliante assai alla natura della cosa rappresentata”.[3]
Lo storiografo distingue esattamente le due pratiche pittoriche: “dal naturale”, attraverso l’utilizzo del modello in posa e “al naturale” attraverso il raggiungimento di un effetto il più naturalistico possibile. E Caravaggio assimila entrambe le tecniche: dipingendo “dal vero” egli cerca di arrivare ad un effetto totalmente naturalistico.
Fin alle prime opere del Merisi, la natura morta assume un ruolo fondamentale, nel solco dei dettami del Concilio. Dipinge la Canestra di frutta dell’Ambrosiana di Milano con lo stesso fervore con cui dipinge le grandi pale della cappella Contarelli. Le foglie avvizzite, la frutta troppo matura e ormai, in alcuni punti, quasi rancida, sono portavoce di specifici messaggi cristologici. Maurizio Calvesi ammirava tale opera descrivendola come un rotondo volume cui partecipa anche il cumulo dei frutti, ciascuno dei quali riecheggia quell’ideale sfericità a cui concorrono tutte le parti del dipinto:
«ma l’occhio avvertirà al contempo che, intorno a queste forme accentrate come in un unico nucleo plastico, i gambi e le foglie sporgenti, svolgendosi e capovolgendosi in ritmi alterni tra ombra e luce, creano altrettante varianti, cenni di movimento, una danza di profili frastaglianti nella leggerezza dell’aria, ovvero del fondo modulato in chiaro».”[4]
Come un antesignano di Bernini, il quale gioca con le figure marmoree che si contorcono nelle nicchie strette in cui sono state costrette, così la canestra di frutta sfora il piano di appoggio, proiettandosi allo spettatore che rimane incantato ad ammirare ogni singolo particolare dell’opera. Ed ecco che la natura morta diviene non solo più uno sfondo o un contorno alla figura rappresentata, o un particolare oggetto identificativo del committente, relegato in un angolo del dipinto o ai suoi piedi, ma la sola e assoluta protagonista che pervade di significato devozionale tutta l’opera.
“Uva nera, osservavo, come allusione al sacrificio di Gesù, uva chiara come notorio simbolo positivo di questo stesso sacrificio.”.[5]
Come ho appena rimarcato Caravaggio riesce comunque a conferire pregnante attualità e assoluto spessore drammatico a tutto ciò che raffigura, perfino alla solo apparentemente inanimata Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana su cui voglio spendere qualche considerazione aggiuntiva. Appartenuta al cardinal Federico Borromeo essa-come osserva Sergio Rossi
«non può essere considerata un semplice quadro “dal vero”, come pure qualcuno ancor oggi sostiene, perché è evidente il suo significato allegorico, proprio del resto a tutte le nature morte di quest’epoca»[6].
Ma ad esso va sotteso anche, sulla scorta degli studi di Maurizio Calvesi già da me appena citati, un messaggio di natura religiosa confermato anche da Rodolfo Papa che osserva come l’opera riposi
«non soltanto sull’evidenza dei frutti rappresentati, ma sfrutta il loro significato, che allude a qualcosa di ulteriore, come la mela allude al peccato, l’uva al vino e quindi per estensione al sangue di Cristo»[7]
e in definitiva al suo sacrificio e alla sua redenzione.
La conferma più inequivocabile che siamo di fronte ad una allegoria cristologica-continua Rossi
«viene comunque dal confronto tra questa natura morta e quella che compare in bella vista nella Cena in Emmaus della National Gallery di Londra. Intanto i due cesti di vimini sono praticamente identici ed entrambi posti quasi in bilico sulle tavole che li sostengono; ma anche la frutta che essi contengono è praticamente la stessa e per di più collocata nella medesima posizione, con solo qualche piccola differenza: la presenza di una pesca, che a seconda delle varietà si può cogliere in luglio e agosto, nella versione dell’Ambrosiana al posto del melograno e il maggior risalto dell’uva bianca sull’uva nera nel dipinto ora a Londra, come a voler rimarcare l’elemento della Rinascita rispetto a quello del sacrificio, ben comprensibile dato che il soggetto complessivo dell’opera rimanda all’apparizione ai discepoli del Cristo risorto. Al di là di questo, però, è quasi come se Caravaggio, nel dipinto Mattei, mettendo così in evidenza proprio il cesto di frutta, avesse voluto ribadire il significato “cristologico” della Fiscella; e sono convinto che tale significato fosse del tutto pacifico per il committente e gli osservatori dell’epoca, sicuramente assai più abituati a cogliere questo tipo di rimandi e dotte allusioni di quanto non lo siano tanti esegeti attuali»[8].
Negli atti del Convegno, Sergio Rossi rafforza il potere evocativo delle nature morte di Caravaggio, accostando il Mondafrutto a L’Eucarestia in una ghirlanda di frutti di Jan Davidsz de Heem del 1648, in un guizzo geniale di intuizione iconografica e iconologica. Lo studioso, infatti, esclude che esso possa considerarsi un semplice studio dal vero o che possa essere un’allegoria dei cinque sensi o delle quattro stagioni: «Più articolato è invece il discorso riguardante il sostrato moraleggiante del dipinto, che è certamente presente, anche se non in maniera esclusiva e nemmeno preponderante, dato che
“il nostro protagonista, infatti, è colto sia nell’atto di purificarsi (mondarsi) dai propri peccati, sia nel momento di scegliere, la via stretta e tortuosa della virtù rispetto a quella, solo all’apparenza, più comoda e agevole dei piaceri carnali. In ogni caso-continua Rossi-quella che Dalma Frascarelli considera una prerogativa del Ragazzo con il cesto di frutta della Galleria Borghese, e cioè di inaugurare un raffinatissimo tipo di rappresentazione, “in quel mezzo fra il devoto, et profano” [secondo la nota definizione di Ottavio Parravicino] va invece estesa al nostro dipinto, che sicuramente precede Il Fruttaiolo; l’obiettivo di entrambe le tele è comunque il medesimo, quello cioè “di incontrare un consenso diversificato, la cui complessità concettuale, godibile da pochi fruitori, si accompagnava a quella pregnanza visiva capace di rivolgersi ad un pubblico più ampio e destinata inevitabilmente, col tempo, a prevalere e ad offuscare gli originari significati”, in cui intenti pedagogici e rimandi alla dottrina cristiana si intrecciano indissolubilmente».[9]
Rodolfo Papa invece fa riferimento, sempre negli atti del Convegno, alla costante presenza del verbascum tapsum, il tasso barbasso, nell’opera caravaggesca del S. Giovanni Battista dei Musei Capitolini ed in altri dipinti del Merisi, associando
“un significato cristologico particolare, in quanto allude alla Risurrezione come evento a venire, prefigurato nella salvezza di Isacco. Per questo non è rappresentato fiorito, perché ha il significato di prefigurazione dell’Incarnazione, colta, potremmo dire, nella sua promessa”.[10]
E ancora negli atti del Convegno, ho ribadito, attraverso un excursus bibliografico, l’importanza degli elementi naturalistici rappresentati nelle tre opere autografe de “Il ragazzo morso dal ramarro”. La ciliegia interrompe il ruolo statico di frutto per divenire simbolo della tentazione e del peccato, in contrapposizione al ramarro che spunta dalle tenebre come monito. La doppia rosa raffigurata, quella florida e quella decadente come prefigurazione della morte prematura dell’artista.[11]
D’altra parte, stando alle parole del Marchese Giustiniani, Caravaggio avrebbe affermato che «tanta manifattura gl’era à fare un quadro buono di fiori, come di figure»,[12] con questo dando una giustificazione anche teorica al suo modo di operare. E al di là degli intenti provocatori, propri del nostro artista, questa frase conferma quanto siamo andati finora sostenendo circa i profondi significati morali, religiosi o in taluni casi anche cristologici che le nature morte assumevano nella pittura caravaggesca, specie se si tiene nel giusto conto che nel Seicento con il temine di “fiori” si intendevano per estensione tutti i prodotti naturali, quindi anche i frutti, le spighe le verdure in senso lato, che ritroviamo ad esempio nel Mondafrutto dello stesso Merisi o nell’Eucarestia in una ghirlanda di frutti di Jan Davidsz de Heem, citati in precedenza.
Da Caravaggio in poi l’inserimento di elementi propri della natura morta, fiori, frutti, oggetti, perde il significato di “oggetti immobili” per trasformarsi in monito sulla caducità della bellezza e fugacità della perfezione, in contrapposizione alle parole di Carlo Cesare Malvasia che, sulla scia della polemica anti caravaggesca dei classicisti, rispetto ai successori del Merisi, affermava:
«Si son posti a seguitare la strada del Caravaggio, che tutta è intenta ad oggetti di ferma, non di moti vivaci, che vengono dall’intelletto, e che si eseguono con il possesso del disegno»[13],
nell’accezione negativa della pittura di genere, considerata volgare e popolare, poi miracolosamente smentita dalla critica contemporanea.
Beatrice RICCARDO Roma 7 Febbraio 2024
NOTE