di Nica FIORI
La progressiva riflessione sul concetto di verità ha contraddistinto la cultura americana degli ultimi anni, facendo riscoprire in campo artistico il gusto per il realismo, per la manualità e per la pittura figurativa, che si affianca a ricerche di arte elettronica, a installazioni video, alla fotografia, assottigliando i confini tra tecniche e linguaggi che un tempo erano ben distinti.
Una mostra che fa il punto sulle ultime tendenze nella pittura e nella scultura statunitensi, sia dal punto di vista operativo che delle tematiche emergenti, dal femminismo alla questione razziale, ai diritti dei gay, ai disastri climatici e ad altre inquietanti realtà è “Effetto notte. Nuovo realismo americano”, ospitata fino al 14 luglio 2024 presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica, a Palazzo Barberini.
L’esposizione, a cura di Massimiliano Gioni e Flaminia Gennari Santori, ex direttrice delle Gallerie nazionali Barberini-Corsini, ora guidate da Thomas Clement Salomon, presenta più di 150 opere, tutte provenienti dalla collezione di Aïshti Foundation, una delle più importanti istituzioni di arte contemporanea sulla scena internazionale (con sede a Beirut), fondata 25 anni fa dall’imprenditore italo-libanese Tony Salamé e dalla moglie Elham. Questa collezione di arte è iniziata proprio in Italia, quando Salamé, che si occupa di moda, ha comprato alcune opere di Lucio Fontana e Alberto Burri. La passione lo ha spinto poi ad acquistare ca. 3000 opere in giro per il mondo e soprattutto negli USA.
Il titolo della mostra trae spunto da una delle opere esposte, realizzata dall’artista newyorkese Lorna Simpson e intitolata Day For Night: un’espressione traducibile con “Effetto notte”, usata in campo cinematografico per indicare un procedimento che permette di girare di giorno delle scene notturne e resa celebre dall’omonimo film del 1973 di François Truffaut. In francese l’effetto notte si chiama “Nuit Américaine” (notte americana): definizione che ben si addice alle visioni in chiaroscuro di quegli artisti che negli ultimi decenni hanno cercato di interpretare le ambigue e controverse realtà della società americana.
Allo stesso tempo non dobbiamo dimenticare che Palazzo Barberini ospita la più grande collezione al mondo di artisti caravaggeschi, ovvero tutti quei pittori che, giunti a Roma all’inizio del Seicento, furono letteralmente folgorati dal rivoluzionario naturalismo di Caravaggio, del quale la Galleria possiede la straordinaria Giuditta e Oloferne, il celebre Narciso (da alcuni attribuito allo Spadarino) e un San Giovanni Battista. L’arte contemporanea americana, pertanto, può dialogare con i capolavori del realismo secentesco, ma a debita distanza, senza avere la pretesa di paragonarsi ad essi.
Il percorso si snoda tra dodici sale dello Spazio Mostre al piano terra per poi proseguire in alcuni ambienti barocchi del piano nobile – Atrio Bernini, Sala Ovale, Sala Marmi e Atrio Borromini – e concludersi infine nel cosiddetto Appartamento del Settecento, al secondo piano di Palazzo Barberini, che in occasione della mostra viene aperto per la prima volta al pubblico in maniera continuativa.
Le prime cose che ci accolgono nel corridoio d’ingresso dello Spazio Mostre sono un bidone della spazzatura, raccolto da Klara Lidén ed esposto come readymade (cioè un oggetto già fatto, ma privato della sua funzione), piccole sculture in cemento di Kaarl Upson, che simulano lattine di Pepsi collocate per terra, e le lettere del neon dipinte di nero da Glenn Ligon: non sono opere propriamente esaltanti, ma indubbiamente evocano lo scenario urbano delle odierne metropoli.
Entriamo a questo punto in una sala dove sono esposte le opere di artisti di generazioni e formazioni diverse, ma tutti attratti dall’estetica del grottesco. Dana Schutz propone il suo gusto per il bizzarro nel ritratto di due gemelli, inquietanti come bambole senza vita. Ancora di più catturano il nostro sguardo le opere (sculture e dipinti) di Nicole Eisenman caratterizzate da citazioni della pittura tedesca di inizio Novecento e da ricordi fumettistici, in particolare Dark light (luce oscura), un quadro il cui protagonista imbraccia una torcia elettrica per fare luce nella notte. Potrebbe essere un’allegoria contemporanea del ruolo dell’artista, che si aggira per la città alla ricerca della verità, così come Diogene cercava l’uomo con la sua lanterna. Ci si potrebbe trovare, secondo i curatori, anche una significativa corrispondenza con la luce di Caravaggio e dei suoi seguaci, che veniva drammaticamente utilizzata per evidenziare la realtà.
Segue una sala dedicata ai ritratti di Karen Kilimnik e Nicolas Party, che richiamano, ciascuno a suo modo, quelli del Settecento, mentre al centro si contorcono i corpi mutanti e grotteschi di Louise Bonnet, sotto lo sguardo voyeuristico di Judith Eisler.
L’indagine sui corpi e in particolare sul nudo (come nel caso dei tre autoritratti intimi e monumentali di Joan Semmel), l’incursione nel quotidiano, le relazioni di coppia e la vita familiare sono temi trattati nelle sale successive, per arrivare poi al dibattito tra le tensioni razziali nell’America di oggi e nella sua storia secolare.
Tra gli artisti più noti presenti nella mostra citiamo Richard Prince, che, rifacendosi all’espressionismo astratto di Willem de Kooning, propone figure di donne distorte ed ectoplasmatiche, fondendo pittura, fotografia e collage. Quella di rifarsi a esempi precedenti, al ricordo di altri tempi e altri luoghi è una caratteristica presente anche in altri artisti, che a volte sembrano rifarsi alla cultura totemica primitiva, e allo stesso tempo a visioni futuristiche.
Tra le opere che affrontano la questione razziale particolarmente emblematico è il trittico di Henry Taylor, realizzato per la Biennale di Venezia del 2019. Raffigura sulla sinistra Toussaint Louverture, il rivoluzionario afroamericano che nel 1791 guidò l’insurrezione degli schiavi contro la Francia nella colonia di Saint-Domingue (oggi Haiti); al centro è un lungo scritto che comincia con le parole “Remember the rivolution”, mentre sulla destra un ritratto di gruppo, tratto da una fotografia degli anni Sessanta del Novecento durante le proteste dei neri d’America nel sud degli USA, sembra suggerire una continuità storica nel loro processo di emancipazione.
Di Faith Ringgold, un artista fondamentale nella storia dell’arte e dei diritti civili degli anni Sessanta, è presente in mostra un’opera del 1967, Man, della Black Light Series, mentre di Arthur Jafa, una delle voci più importanti dell’ultimo decennio, è presente La Rage del 2017, una sorta di autoritratto scultoreo nero (stampa a colori su Dibond, supporto in lastra di alluminio), che ricorda la rabbia dell’Incredible Hulk.
Nel pluralismo dei temi, trattati sempre con assoluta libertà, è presente anche la pittura di paesaggio, come nella serie di Nate Lowman dedicata alla minacciosa presenza di uragani, come pure i paesaggi interiori di artisti quali Shara Hughes, Josh Smith e Matthew Wong, che affrontano in modo diverso le proprie realtà. “Il risultato – secondo i curatori – è un nuovo realismo magico che contraddistingue molta arte americana contemporanea, scissa tra desiderio di fuga e critica sociale”.
Al piano superiore è maggiormente evidente il desiderio di mettere a confronto l’arte americana degli ultimi decenni con la grande arte presente nella Galleria di Palazzo Barberini, che tra l’altro ospita in contemporanea, in altre sale, 50 capolavori provenienti dalla Galleria Borghese, grazie a un felice accordo tra le due gallerie dovuto ai lavori di rinnovamento riguardanti la Borghese.
L’allestimento di “Effetto notte” è stato curato in modo da inserire le opere nelle architetture del Palazzo senza traumi (non c’è un singolo chiodo applicato alle pareti storiche); un ambiente espositivo in particolare, quello della Sala Marmi, appare particolarmente riuscito, perché richiama l’idea di una quadreria antica, con una punta di divertente ironia su quelli che potrebbero essere i nuovi antenati. Ben 61 opere, a volte caricaturali, rendono in modo giocoso l’idea della passione compulsiva che spinge i collezionisti a non lasciare nessuno spazio vuoto, in una sorta di horror vacui che ha precedenti già in età classica. Giusto per fare due nomi di artisti americani, vorrei citare Walter Robinson, autore dell’opera The dilemma del 2021 (acrilico su tela), raffigurante un’infermiera con la mano accostata al volto in atteggiamento pensieroso, e Ferrari Sheppard che nella grande tela Walking together del 2022 ha usato, oltre all’acrilico e al carboncino, l’oro a 24 carati.
Una scultura che inaspettatamente ci viene incontro nella sala è quella del Tagliaerba di Duane Danson (maestro dell’iperrealismo americano già a partire dagli anni Settanta), che ha realizzato quest’opera in bronzo policromo dando un’idea del tipico americano di provincia.
In questo contesto potrebbe dialogare con il virtuosismo settecentesco della scultura di Antonio Corradini La Vestale Tuccia (detta anche La Velata) collocata nell’Atrio Bernini, invitando a una riflessione sull’illusionismo nell’arte antica e in quella contemporanea, sia nel caso di soggetti aulici sia in quelli più umili.
Il realismo inquietante della figura di Hanson può essere accostato anche ai piccioni di Maurizio Cattelan, dei veri “intrusi” collocati in alto a ricordare proprio l’estetica barocca dell’illusionismo, di casa a Palazzo Barberini.
Pur essendo maggiormente presenti i dipinti, le opere che colpiscono maggiormente i visitatori della mostra sono alcune sculture scenograficamente collocate in modo da attirare l’attenzione, come l’Arcangelo di Charles Ray, realizzato in fibra di vetro nel 2018. Il suo colore bianco sembra intonarsi con l’architettura della Sala Ovale, nella quale è esposto. Parliamo di una gigantesca scultura che raffigura un surfista californiano a braccia aperte, ma potrebbe essere visto come un angelo (privo di ali) piovuto dal cielo, magari staccatosi dal vicino affresco con il Trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona (sic!), come ha ironicamente suggerito Massimiliano Gioni.
L’artista ha utilizzato un modello molto attraente, l’ha fatto stare in piedi su una scatola di legno sulla quale picchiava con un bastone per dare instabilità alla figura, della quale ha creato un calco partendo da fotografie digitali. A causa della traduzione tra i diversi media ha ottenuto quest’opera dalle strane sfumature che la rendono molto realistica, ma allo stesso tempo quasi aliena.
Nell’Atrio Borromini, che conduce alla scalinata elicoidale del genio dell’architettura barocca Francesco Borromini, è stata collocata una scultura in alluminio e acciaio galvanizzato, che appare come un monumento equestre mutante. È un’opera del 2013 di Urs Fischer, un artista che usa photoshop per creare la sua realtà. In quest’opera non c’è il cavaliere, ma è il solo cavallo a dare vita a una sorta di robot da film di fantascienza.
La mostra prosegue al secondo piano negli ambienti rococò dell’appartamento settecentesco, aperti per l’occasione, ma con l’accesso limitato a massimo 25 visitatori per volta. Nella Sala dei Fasti Colonna troviamo alcune strane sculture e la grande opera (cm 170,2 x 508) di Lorna Simpson Day For Night (2017), realizzata a inchiostro e acrilico su legno gessato e caratterizzata da un’atmosfera misteriosa, che nasconde probabilmente un pericolo per una donna, della quale s’intravede solo la parte inferiore, in bilico sul davanzale di una finestra.
Le stanze successive accolgono opere di artisti afroamericani (Peter Bradley, Jack Witten, Frank Bowling e altri), che a partire dagli anni Sessanta hanno cercato nell’astrazione un linguaggio con il quale rivendicare la propria libertà espressiva, e anche dei video, tra cui Warm up: Hermitage State Theater (2014) di Klara Lidén, una artista gay che si confronta goffamente con le ballerine classiche in una scuola di danza.
Troviamo in mostra anche le opere di tre libanesi: in particolare ci colpiscono le finestre azzurrine di Raianne Tabet, un giovane artista che vive a San Francisco. L’opera è ispirata a una delle tristi tradizioni del suo Paese di origine, quando, durante la guerra civile, si metteva un filtro azzurro alle finestre per nascondere la luce dell’interno ed evitare di essere colpiti dai cecchini durante il coprifuoco.
Nella Sala delle Marine due bellissime fotografie di Cindy Sherman sono peculiari della sua arte della finzione e del travestimento: i suoi non sono autoritratti, ma, come dichiara l’artista, ritratti di persone che vivono dentro di lei. La Sala da Pranzo, infine, ospita un affascinante video dell’artista islandese Ragnar Kjartansson, intitolato Bliss (2020), che ci induce nuovamente a riflettere sul travestimento nell’arte. Realizzato nel teatro Walt Disney di Los Angeles, è relativo alla performance dell’ultima aria delle Nozze di Figaro di Mozart e sembra perfettamente a suo agio nel contesto dell’appartamento settecentesco della principessa Cornelia Costanza Barberini e del marito Giulio Cesare Colonna di Sciarra.
Nica FIORI Roma 28 Aprile 2024
Effetto notte: Nuovo realismo americano
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane 13, Roma
14 aprile – 14 luglio 2024
Orario: martedì – domenica, ore 10.00 – 19.00. Ultimo ingresso alle ore 18.00
Info: www.barberinicorsini.org