di Luca CALENNE
Fino al 31 agosto romani e ospiti della Città Eterna potranno incontrare nella chiesa di Santa Maria dei Miracoli (una delle due celebri chiese gemelle di piazza del Popolo) le sculture di Marco Manzo, in un percorso allestito da “Il Cigno GG Edizioni”. Si tratta di una sorta di laica Via Crucis – dedicata alla violenza contro le donne – che raddoppia quella dedicata alla Passione di Cristo che sotto forma di quadretti normalmente scandisce i muri interni delle chiese, ma quella di Manzo per via della sua pronunciata tridimensionalità incombe sul visitatore in maniera assai poco rassicurante.
Infatti, poco al di sopra della nostra testa, decine di mani di marmo con il loro avambraccio si allungano verso di noi, a volte armate, a volte legate, compiendo un gesto ingiurioso oppure chiedendo pietà [fig. 1, fig. 2].
Le mani sorgono da specchi, che opportunamente le isolano dal resto delle decorazioni della chiesa, mettendole così in risalto, mentre le frasi apposte sul bordo inferiore dello specchio, ispirate ai Salmi o ad altri testi biblici, possono apparire un poco ridondanti, ma era un passo da fare per esportare nel cuore della Roma papale e barocca un’installazione nata sotto altri cieli, ossia la LXIII Biennale di Arte di Venezia del 2019, dove le stesse braccia sorgevano da una parete parimenti bianca, realizzando un più convincente effetto avvolgente e claustrofobico, soprattutto quando tra di esse si posizionavano i corpi di vere donne [fig. 3].
Ma il vero incontro con l’arte di Manzo avviene qualche secondo dopo, quando ci si accorge che su queste sculture è meticolosamente riportata ogni grinza della pelle, ogni poro, ogni linea del palmo della mano, e – soprattutto – che sono tatuate. Una ragnatela di linee formata da microscopici puntini incisi copre queste sculture, componendo sinuosi disegni geometrici, che rivelano la formazione dell’artista, che da più di trenta anni opera a Roma come tatuatore.
Può sembrare sorprendente che proprio da un luogo di culto, storico ricettacolo di valori tradizionali che sono considerati “alti”, sia venuto un tale endorsement al mondo del tatuaggio, visto ancora con sospetto in Occidente per il fatto di incarnare spesso varie forme di subcultura, non di rado malavitosa, degni al massimo dell’interesse di antropologi come Cesare Lombroso.
In alternativa, il tatuaggio è considerato un volgare prodotto commerciale – sdoganato da calciatori e cantanti – che può fare magari il suo ingresso nel paniere dell’ISTAT ma non può aspirare al rango di opera d’arte. Indubbiamente il tatuaggio è anche questo, e basta una passeggiata su una spiaggia d’agosto per averne contezza, ma è veramente difficile negare la patente di artista a un professionista che realizza tappeti grafici della complessità di quelli che propone Manzo [fig. 4], soprattutto se riteniamo che la manualità abbia ancora diritto di cittadinanza nel mondo dell’espressione artistica. Stupisce comunque l’apertura della Chiesa, in genere riluttante ad accettare l’ostentazione del corpo.
In realtà, nei suoi documenti ufficiali la Chiesa Cattolica non si è mai espressa contro il tatuaggio, nonostante esso sia vietato chiaramente in Levitico, 19,28, ma si tratta di una delle tante prescrizioni ebraiche finalizzate a impedire l’imitazione dei culti stranieri, vale a dire un divieto che la Chiesa è sempre stata restia ad accogliere in senso assoluto. Del resto, la Chiesa difficilmente poteva essere a priori contro i tatuaggi, pensando alla schiena martoriata di Cristo dopo la flagellazione, ai tanti segni impressi nei corpi dei suoi santi e dei suoi penitenti, e all’intenso versetto di Isaia, 49, 15-16 («Ti porto tatuato sui palmi delle mie mani»). Sono semmai alcuni soggetti dei tatuaggi ad impensierire, o il poco rispetto mostrato verso il corpo (considerato dai cristiani un dono di Dio) ma non l’ago sterilizzato del tatuatore. Per il resto, la questione riguarda più il buon senso e il buon gusto, che la dottrina.
Risolto questo fraintendimento, le sculture tatuate di Marco Manzo hanno preso posto lungo il perimetro della chiesa di Santa Maria dei Miracoli, e anche al suo centro, dove è stata collocata la statua di una donna distesa in terra, con la schiena scoperta e tatuata in bella vista; sulla donna campeggia una grande croce [fig. 5].
Questo accostamento individua la giacente come la Maddalena, secondo i codici dell’iconografia cristiana, e si potrebbe pure collegare la sua presenza al tema della violenza di genere, sebbene essa non appaia disperata e dolente come in tante opere del Rinascimento, ma beatamente assopita come Arianna sull’isola di Nasso, “pacificata” per la grazia ricevuta dal suo Salvatore, e c’è da chiedersi se nel perdono accordato a questa peccatrice non si alluda – più o meno inconsapevolmente – pure al riscatto e alla redenzione dell’arte del tatuaggio. Sulla schiena della statua si sovrappone una fitta trama di motivi che ricordano gli antichi damaschi e soprattutto i merletti realizzati al tombolo, che hanno una dignità sartoriale, frutto delle sue incursioni nel mondo della moda. Si tratta di un bell’esempio di quello «stile ornamentale», volutamente aniconico, che Manzo ha scelto come sua sigla stilistica personale, prendendo talvolta ispirazione pure dai mandala indiani o dai broccati del Settecento, e con cui “veste” elegantemente gli arti e i corpi (delle statue e delle donne) assecondandone la forma [fig. 6].
A qualcuno l’arte di Manzo potrebbe sembrare l’ennesimo oltraggio portato alla scultura antropomorfa, ipostasi dei valori e delle autorità del passato, ovvero un intervento ironico e rivitalizzante condotto su “una lingua morta”, alla stregua dello smalto e del rossetto applicati sui marmi romani da Francesco Vezzoli, o delle statue vestite da hipster di Léo Caillard e Alexis Persani (ogni riferimento alla Petite danseuse de quatorze ans di Degas è voluto!), e soprattutto avrà trovato un’affinità con i torsi tatuati di Fabio Viale, ma l’operazione di Manzo è assai più originale e radicale, nonché più autenticamente da scultore. A ben vedere, le opere di Viale – peraltro non poco affascinanti ed evocative – da una parte inseguono la dimensione romantica e nostalgica del frammento, assecondando fin troppo le suggestioni di Rodin e Mitoraj, dall’altra la pittura, blandendo filologi e specialisti attraverso l’ovvio collegamento alla (perduta) policromia della statuaria antica, sulla scia di un revival che dal ristretto mondo accademico è riuscito ormai a conquistare anche il grande pubblico. Ma il repertorio dei pittogrammi di Viale e dei suoi tanti emuli può considerarsi la negazione del connubio tra pennello e scalpello reso celebre da Nicia e Prassitele: cuori trafitti e sanguinanti, carpe squamose, immagini mariane, lunghi draghi cinesi e rose con le spine sono scelti con uno scopo volutamente antifrastico se non persino desacralizzante, rendendo attuali le perplessità espresse nel 1837 da Charles Robert Cockrell sui colori dei templi greci che l’archeologia stava rivelando, i quali – qualora avessero avuto ragione i sostenitori più entusiasti della policromia – dovevano apparire come «un Ercole tatuato»; così nel testo:
«a doric edifice so embellished must have resembled not so much a Hercules wreathed with flowers, as a Hercules tattoed from head to foot, or covered, like a barbarian pict, with grotesque figures painted on the skin».
Al contrario, Manzo non fa mistero della sua diffidenza verso il colore, e mira invece a lasciare un segno più durevole, che replichi sulla statua un vero tatuaggio, il quale – come è noto – non si ferma alla superficie ma è inciso nella carne, e in questo caso nel marmo. Questi cerchi, queste catenelle, questi filamenti, non sono quindi in discontinuità con la superfice del braccio o della mano, ma la trasformano in una sorta di mappa in rilievo, trasfigurandola, così come un vero tatuaggio aspira a superare attraverso l’arte la caducità della pelle, ma non verniciandola bensì entrando nel suo interno. Il gesto del tatuatore, come quello dello scultore di michelangiolesca o beniniana accezione (quello dello scàlpere, per capirci, che in latino vuol dire «incidere, tagliare»), è sempre definitivo, senza ritorno, non ammette ripensamenti o errori; sicuramente più facile è applicare alla scultura un caschetto da ciclista, un fiocco, un poco di trucco agli occhi, o dipingerla con l’inchiostro.
In un piccolo locale adiacente alla chiesa è stata anche allestita una piccola mostra retrospettiva di Manzo, pochi pezzi per illustrare un’attività quasi trentennale, tra cui alcune delle sue lastre radiografiche tatuate che hanno già ricevuto tanto interesse da parte della critica, ma su tutte le opere esposte si impone una piccola scultura, raffigurante una mano tatuata, prototipo di tutte quelle che lui ha creato dopo [fig. 7].
Questa prima prova rientra a pieno titolo nella riflessione sulla mano dell’artista, oggi così feconda (penso soprattutto ai saggi di Herman Parret e di Mariacarla Gadebusch Bondio) e che ha avuto uno snodo fondamentale un secolo fa negli scritti di Henri Focillon e nelle iconiche mani scolpite a più riprese da Rodin, con le quali però la mano di Manzo ha solo delle affinità superficiali. A mio parere, c’è una parentela ben più stretta – forse sconosciuta allo stesso artista – con le mani riprodotte dai ceroplasti anatomici del Settecento, in particolare con quelle eccezionali di Anna Morandi Manzolini esposte a Bologna [fig. 8], che non si compiacciono delle levigatezze idealizzanti di un Canova o di un Bartolini, ma imitano la texture dell’epidermide, con tutte le sue piccole grinze e imperfezioni, che sanno tanto di caduco e di umano.
Su una siffatta membrana – stavolta lapidea e non di cera – campeggiano come piccole costellazioni i tatuaggi di Marco Manzo.
Luca CALENNE Roma 5 Maggio 2024