di Sergio ROSSI
Io sono nato in una città di mare, calda di vento e piena di zanzare, che da giovane ho voluto abbandonare ma dove ogni tanto mi piace ritornare per ammirare la Madonnina che da lontano benedice Messina. E, anche se ormai vivo a Roma da tempo infinito, il mare lo porto sempre dentro, e mi piace ritrovarlo nei miei viaggi e nelle mie città preferite: Barcellona, Nizza e Venezia citate nell’ordine inverso al mio gradimento.
A Nizza la Promenade des Anglais, con le sue iconiche sedie blu, è una delle passeggiate sul mare più belle del mondo dove i fagottari della domenica si bagnano insieme ai milionari del Negresco e nei piccoli locali del dedalo di viuzze del centro storico puoi gustare la salade niçoise, la pissaladière, la marmite du pêcheur, la ratatouille.
Barcellona: dal quartiere popolare della Barceloneta a Poble Nou è un trionfo di due chilometri di spiagge, splendido lungomare, locali per tutti i gusti, dove gustare tortillas di patate, gazpacho, pan amb tomat, arroz negro con calamares, butifarra: e naturalmente è anche la capitale mondiale dell’Art Nouveau e la “infinita” Sagrada Familia” da sola vale il viaggio.
Quanto a Venezia ed al suo poetico Lido lascio che sia Alexandra Mitakidis con le sue foto a celebrarla, anche se per “par condicio” non posso fare a meno di citare il bacalà mantecà, le sarde in saor, i bigoli in salsa, la zuppa di cozze o il fegato alla veneziana, da gustare magari in qualche “bacaro” via dalla pazza folla di Piazza San Marco e del Ponte di Rialto.
Come osserva Enzo Santese, anche la nostra fotografa
«è legata affettivamente al mare, alle sue atmosfere, ai suoi riflessi sulle città (soprattutto Trieste e Venezia) che da vari anni sono per lei il bacino a cui attingere spunti creativi e suggerimenti poetici. La città e la periferia costituiscono un unico ambito concettuale in cui l’obiettivo coglie combinazioni di forme architettoniche, realtà vegetali e umane, oggetti come testimonianze di una storia che scorre lungo gli itinerari percorsi dalla stessa autrice nella sua ricerca»,
che è andata poi ben oltre le sole Trieste e Venezia ed è diventata uno dei light motives della sua fotografia che io definirei insieme pittorica, poetica e cinematografica.
Pittorica perché le sue sono opere d’arte in sé compiute e dove l’immagine finale acquista una propria autonomia estetica rispetto all’iniziale punto di partenza colto dalla macchina, come in Città vecchia in movimento, dove appunto case, muri, finestre, lo stesso acciottolato della strada cessano di essere tali per divenire linee, colori, emozioni pure; o come Cerco la mia stella,
dominata da un incastro quasi ossessivo di finestre, intese- è ancora Santese a osservarlo-
«come punto di passaggio tra un interno e un esterno, riquadro di collegamento tra due aree (anche concettuali) contigue, apertura per la comunicazione diretta fra individui e gruppi sociali, in contrasto con una visione della contemporaneità impegnata ad innalzare barriere di distinzione e pretesti di conflitto».
E l’elemento pittorico diviene ancora più evidente quando le sue strade si riempiono di persone, impressionisticamente appena abbozzate e colte, quasi “futuristicamente” in movimento. Ma mentre impressionisti e futuristi stendevano i colori sulla tela attraverso stratificazioni successive, la Mitakidis, cambiando veicolo espressivo, procede invece per scatti sovrapposti, ottenendo comunque un risultato egualmente affascinante.
Se però vi è un pittore del Novecento, secondo me ingiustamente sottovalutato, che accosterei alla Mitakidis con la sua ossessione per i cieli grigi, i tetti e le finestre, anche se si tratta di Parigi e non di Venezia o Trieste, questi è Orfeo Tamburi, di cui ho avuto la fortuna di apprezzare anche le straordinarie qualità umane e capace con un tratto di matita o un gessetto colorato di disegnare un nudo di donna o un vicolo parigino, come la nostra fotografa è in grado con uno scatto al volo di tratteggiare una piazza, una via, un molo sul mare.
Ecco, il mare, da cui siamo partiti, cui Alexandra dedica alcune delle sue immagini più belle, come Kamisari, emozione poetica pura, che a me ricorda certe liriche visioni di Turner (anche lui per inciso amante di Venezia), o Viola d’estate o ancora Cammino inverso dove mare nuvole e cielo si fondono in un’unica sinfonia di azzurri e Alberi in mare dove un veliero punta dritto verso di noi; e il mare è presente anche quando non c’è, come in Cum grano salis, solo sassi e conchiglie viste in primissimo piano.
E l’uomo? Spesso nelle sue foto l’uomo è contemporaneamente presente e assente, anzi è dalla sua assenza che emerge la sua ingombrante presenza. In altri termini, per usare il linguaggio degli antropologi, è come se l’essere umano, proprio attraverso la sua (apparente) assenza, “presentificasse” il suo essere lì, ora. Sta dall’altra parte della piazza, dietro la curva di un sentiero, dentro il portone di un palazzo, in preparazione e in attesa del momento della riappropriazione della scena.
Ma sta lì anche con i suoi ricordi e le sue malinconie, come ha immortalato nelle sue canzoni, o meglio versi in musica, Charles Trenet, il più nostalgico degli chansonnier. E penso a La mer: «La mer/qu’on voit danser le long des golfes clairs/à des reflets d’argent/changeants/sous la pluie» e in Que reste-t-il: «Que reste-t-il de nos amours?/Que reste-t-il des ces beaux jours ?Une photo, vieille photo de ma jeunesse/Que reste-t-il des billets doux/des mois d’ avril, des rendez-vous/Un souvenir qui me poursuit sans cesse».
Del resto, la fotografia della Mitakidis è anche Poetica perché molte sue opere, come osservavo poc’anzi, sono vere e proprie liriche per immagine. E per una triestina il pensiero non può che rivolgersi subito a Umberto Saba, di cui riproduco l’incipit di “In riva al mare” che mi sembra in particolare sintonia con la poetica della Mitakidis:
«Eran le sei del pomeriggio, un giorno/chiaro festivo. Dietro al Faro, in quelle/ parti ove s’ode beatamente il suono d’una squilla, la voce d’un fanciullo che gioca in pace intorno alle carcasse/ di vecchie navi, presso all’ampio mare solo seduto; io giunsi, se non erro/ a un culmine del mio dolore umano. Tra i sassi che prendevo per lanciare/nell’onda (ed una galleggiante trave/ era il bersaglio), un coccio ho rinvenuto/un bel coccio marrone, un tempo gaia/utile forma nella cucinetta/con le finestre aperte al sole e al verde/ della collina. E fino a questo un uomo/può assomigliarsi, angosciosamente».
Tornando al rapporto tra arte figurativa e poesia si tratta, ovviamente, di un tema quanto mai antico che, come è noto, ha avuto già nell’Ars Poetica di Orazio la sua definizione più celebre e pregnante, quella di ut pictura poësis, per l’appunto.
Tema ampiamente ripreso nel Rinascimento quando l’assimilazione al poeta serviva all’artista anche per rivendicare appieno il proprio ruolo intellettuale, affrancando per tanto la propria attività da ogni equiparazione con le arti meccaniche. In epoca assai più recente, però, quando la funzione intellettuale della pittura non era più messa in discussione, il rapporto tra questa e la poesia ha paradossalmente rovesciato il suo assunto iniziale, divenendo così sinonimo non di razionalità e pregnanza concettuale ma al contrario di pura emozionalità. Per l’estetica crociana, ad esempio, tanto più in un’opera d’arte vi è “poesia” quanto più il suo autore rinuncia ad ogni impalcatura di tipo intellettuale e si abbandona alla propria ispirazione fantastica e alla propria intuizione lirica.
Oggi è ormai venuto il tempo di superare questa dicotomia, del tutto artificiosa, tra razionalità e fantasia, insieme all’altra contrapposizione tra manualità ed intelletto, inglobando il tutto nel concetto di “arte come fatica di mente” la cui prima definizione spetta addirittura a quell’anticipatore del futuro che è stato Leonardo da Vinci e che io, “si parva licet componere magnis”, ho voluto porre come titolo programmatico di un mio recente volume Arte come fatica di mente. Da Leonardo al Novecento [Roma Lithos 2012].
E se questo è vero per i pittori lo è tanto più per i fotografi che devono tradurre le intuizioni liriche attraverso un tramite altamente tecnico (e ormai tecnologico) come la macchina fotografica. Certo non basta scrivere versi per essere poeti, stendere colori su una tela per essere pittori, scattare delle foto per essere dei fotografi; ma rovesciando in positivo questo assunto si può essere poeti usando una Nikon o “dipingere” attraverso le parole. Ed è quello che Alexandra è riuscita a fare nel suo libro del 2021 Scatti haiku al suono di figure e parole così presentato da Antonella Barina:
«Tre sillogi, quattro elementi, una musica: SCATTI HAIKU di Alexandra Mitakidis è un percorso di iniziazione che dalla forma haiku più classica e conosciuta, quella descrittiva legata alle stagioni, approda a quesiti aperti sul trattamento dell’anima. Un territorio poco frequentato: nessun manuale tratta dello stordirsi quotidiano nell’agitato vociare interno e nell’apparente tranquillità con cui ci rapportiamo all’esterno».
Si tratta di un concerto per silenzio e macchina fotografica articolato nei classici tre tempi, allegro, adagio, andante con moto che qui si intitolano: “I quattro elementi”; “Spartito virtuale”; “Sole d’oriente”, dove il primo verso di ogni haiku è anche il titolo della fotografia con cui è abbinato e dove l’eleganza calligrafica orientale si salda con un cromatismo acido e manieristicamente cangiante con i suoi verdi squillanti, arancioni gridati, azzurri improbabili, che a me ricordano il Pontormo del Trasporto di Santa Felicita che avevano fatto dire a Vasari che Jacopo
“pensando a cose nuove lo condusse senz’ombre e con un colorito chiaro e tanto unito, che a pena si riconosce il lume dal mezzo e il mezzo dagli scuri” aggiungendo che l’artista “andava investigando strani concetti e stravaganti modi di fare”
che tradotto in un linguaggio moderno vuol dire che Pontormo stava sostanzialmente sperimentando un nuovo linguaggio, cosa che, mutatis mutandis anche la Mitakidis intende proporre.
E come osserva ancora la Barina:
«La sensibilità al colore, affinata dall’esercizio alla fotografia, torna bene all’autrice che percepisce, sotto al ghiaccio, il “blu indaco” e altri colori, prima che forme, intuiti, anzi visualizzati dietro il velo dell’apparenza. Altrettanto dicasi per la sensibilità al movimento: il volo radente della rondine, il declivio del vento, coniugano in modo non scontato quello che l’occhio abituato a guardare coglie con prontezza».
Non posso certo sintetizzare in poche parole più di ottanta haiku e altrettante immagini, per cui mi limiterò a citarne alcune che mi hanno particolarmente colpito. Brilla la luna/ mattino fresco/soffia il vento, che in realtà evoca “l’incendio sordo lunare” di una delle più belle poesie di Dino Campana. Dune di sabbia/il falcone/vigila/la presa corre, che sembra scattata in pieno giorno nella Death Valley. Ali a punta/sfreccia una rondine/volo radente, incantevole nella sua lirica semplicità che ritroviamo in Gocce appese/ ragnatela oscilla/brezza estiva o Luce distorta/la goccia di rugiada/ora riflette, pura sinfonia di verde, così come Luce riflessa/in una pozzanghera/specchio di sole è una pura sinfonia di azzurri e di blu. In Un foglio bianco/e la penna indugia/la mente vaga un semplice foglio accartocciato, che in realtà è viola, assume la dimensione di una dimensione di una montagna.
E per finire Il maestro zen/lo spirito urlante/forza sottile tutto giocato sui gialli, arancioni e verdi marci dove un maestoso albero è avviluppato da un ingombrante intrico di radici.
Tornando a quella “sensibilità al movimento” di cui scriveva la Barina, la fotografia della nostra artista è anche cinematografica, perché il suo è un racconto per immagini in sequenza che si snoda nello spazio e nel tempo con una cadenza quasi da video art. Ma se dobbiamo parlare dei film che possono averla ispirata o che le si possono accostare, più che allo scontato Visconti di Senso o di Morte a Venezia, riferimento ineludibile per chiunque voglia occuparsi artisticamente di Venezia, penso al capolavoro tardo di Akira Kurosawa Sogni e allo struggente e incompreso Matthias & Maxime dell’ex enfant prodige del cinema canadese Xavier Dolan, che ho rivisto proprio mentre scrivevo queste pagine e dove certe splendide immagini dei boschi e dei laghi del Quebec mi hanno ricordato in modo impressionante certe foto di Alexandra.
Per concludere mi piace citare alcune interessanti riflessioni che colleghi artisti e storici dell’arte hanno dedicato alla Mitakidis, iniziando da Lado Jakša:
«Luci e ombre della realtà sono visioni dove Alexandra Mitakidis passeggia con la sua fotocamera da Trieste a Venezia tra piazze, vie, città e paesaggi naturali. L’artista è sempre alla ricerca di diverse prospettive tra luci e ombre attraverso i colori digitali, giocando con la tecnologia che accompagna i colori delle sue immagini di vita reale. A volte ricerca ampi elementi, a volte si concentra su piccoli dettagli che in ogni caso conservano la realtà obiettiva dell’oggetto. Così il colore, invece, diventa originale. Ci stupisce con i giochi vibranti di colori, per esempio con gli scogli che ci trasmettono una particolare energia, quasi musicale – non è strano, quindi, che in alcune fotografie osserviamo immagini di musicisti, dove la musica e il colore viaggiano paralleli».
«I racconti di vita sono strappati al flusso del tempo e restituiti in una dimensione in apparenza immobile, in cui persone, paesaggi e cose si celano protetti da colori vividi, quasi a voler mantenere il loro segreto» (Linda Mavian).
«Mi piace molto la tua fotografia anche perché non c’è solamente una ricerca dal lato fotografico quella di cogliere il luogo o l’attimo ma c’è anche una ricerca sul colore. In effetti va oltre la foto e secondo me va verso la ricerca pittorica. Mi piacciono molto queste esplosioni di colori, di effetti in cui le forme quasi si dissolvono, bellissimi i riflessi della città nell’acqua» (Ivano Visman).
E terminando con Enzo Santese:
«La Mitakidis ha sempre cercato di ampliare la conoscenza del mezzo e di aggiornarsi sulle sue potenzialità di resa, creando un linguaggio fotografico atto a scoprire nuove possibilità di visione e interpretarle secondo la propria dotazione tecnico-poetica. Pertanto, sulla scorta di una lunga consuetudine con l’obiettivo, ama cogliere spunti della realtà che solitamente sfuggono all’attenzione: è per questo che uno scorcio architettonico, un oggetto d’uso quotidiano, un’imbarcazione, una porzione di paesaggio punteggiata occasionalmente da elementi estranei, al suo occhio, diventano protagonisti di un’inquadratura dalle forti connotazioni scenografiche. Il lavoro è stratificato infatti dai tempi della progettazione che prevede un contatto diretto con la realtà dei luoghi, all’interno dei quali l’autrice attende l’occasione propizia per fissare con la sua macchina il soggetto pensato e trovato nelle condizioni di luce volute. In tal modo gli scatti inanellano una serie nutrita di scorci entro i quali, di volta in volta, si affermano i concetti di storia passata collegata con la cronaca presente, legati insieme da un tema unificante. Questo avviene anche con alcuni dettagli (una gomena, una gru, una pozzanghera, una vetrina, una decora zione architettonica), ripresi in risultati di deciso contrasto chiaroscurale».
Sergio ROSSI Roma 12 Maggio 2024