di Sergio ROSSI
Il Cristo di Dalí a Roma
Dopo il giubileo della Misericordia del 2015/16 ecco il Giubileo della Speranza che cade in un momento particolarmente drammatico per un mondo percorso (come ormai da tempo non accadeva) da terribili venti di guerra. E a ben vedere Misericordia e Speranza possono essere interpretate come due facce della stessa medaglia, anzi si può intendere la misericordia come speranza per un mondo che a questi venti cerchi comunque di sottrarsi.
Ma il Giubileo, come ha giustamente scritto monsignor Rino Fisichella è anche cultura, come testimonia questo percorso di eventi d’arte dal nome “I cieli aperti” che accompagnano la preparazione e poi la celebrazione del Giubileo 2025. Ed è in questo conteso che si pone la mostra Il Cristo di Dalí a Roma che si svolge dal 13 maggio al 23 giugno presso la Chiesa di S. Marcello al Corso e già la scelta di questa sede è particolarmente significativa. Infatti il 22 maggio del 1519 un incendio distrusse la vecchia chiesa e si salvò solo un antico crocifisso ligneo del XIV secolo, evento che si ritenne subito miracoloso. E questa convinzione si rafforzò quando nel 1552 Roma fu colpita da una pestilenza e il crocifisso fu portato in processione per la città per ben 16 giorni, al termine dei quali l’epidemia cessò.
Oggi la chiesa appare completamente rinnovata ma conserva importanti testimonianze pittoriche, specialmente del Manierismo, con dipinti di Perin del Vaga e Francesco Salviati, ma soprattutto con la Cappella Frangipani, eseguita da Taddeo e Federico Zuccari dal 1558 al 1568 con storie di San Paolo. Su tutte si segnala la pala centrale con La conversione di Saulo, eseguita con l’insolita tecnica della pittura ad olio su lavagna, già usata anni prima da Sebastiano del Piombo.
Qui Taddeo sa coniugare come pochi altri a questa data raffaellismo, nella parte superiore del dipinto, con Dio padre inserito entro uno splendido cerchio luminoso, e michelangiolismo nella zona sottostante, con i personaggi che si affollano intorno a Saulo come pervasi da un insolito furor tradotto visivamente in un drammatico serpentinato; ma il bellissimo cavallo bianco al centro della scena è ancora mutuato da Giulio Romano e dalla Battaglia di Ponte Milvio nella Stanze Vaticane.
Venendo alla mostra essa presenta per la prima volta insieme il Cristo di San Juan de la Cruz dipinto nel 1951 da Salvador Dalí e proveniente dal Kelvingrove Art Gallery Museum di Glasgow e il Disegno reliquia del Cristo Crocifisso (1572/1575) eseguito da San Giovanni della Croce e conservato presso il Monasterio de la Encarnacion di Ávila e che ha appunto ispirato il capolavoro daliano.
In questa tela Cristo appare ripreso dall’alto con uno scorcio illusionistico degno del Mantegna, quasi a formare un perfetto triangolo equilatero ai cui vertici opposti sono i capelli ed i piedi, con il corpo pervaso da una luce irreale che squarcia la circostante oscurità; esso sfida ogni regola di gravità perché mancano i chiodi a sostenerlo alla croce, come del resto mancano gli altri attributi della sua tribolazione, corona di spine, sangue:
« ... e la stessa iscrizione apposta sul patibolo per disposto di Ponzio Pilato s’è trasformata in un cartiglio senza scrittura leggibile. Eppure non v’è dubbio che quello sia Cristo e che sia religiosissima l’atmosfera che regna nell’arcana immagine. E il messaggio è commovente: Egli sta in croce e offre se stesso volontariamente, per libera scelta d’amore, non perché condannato e costretto: Nessuno, come si legge nel dialogo con Pilato riportato dai Vangeli, avrebbe potuto togliere la vita a Cristo, se lui stesso non avesse voluto, in consonanza con il Padre, per farne dono per riscattare l’umanità. Qui il Dalí teologo supera perfino il Dalí pittore». (A. Geretti)
Quanto a quest’ultimo, Zurbaran e Velázquez sono le sue fonti evidenti, con la medesima capacità di scolpire il corpo attraverso la luce, mentre risale a Caravaggio il contrasto tra la luce intesa come Grazia e le tenebre intese come il peccato, contrasto che vediamo sublimato proprio nelle Sette Opere di Misericordia di Napoli, tanto per tornare al discorso fatto in precedenza.
Anche in questa tela il Merisi scolpisce con la luce che crea un autentico turbine che parte in alto dalla figura della Vergine e del Bambino circondati dagli Angeli del Bene e del Male e si trasmette alle figure circostanti in un messaggio di altissima fede cattolica che sicuramente Dalí deve avere conosciuto e apprezzato e che troppa storiografia continua ancora a fraintendere, scorgendovi addirittura simpatie protestanti.
Ma è proprio il paradosso luterano, che vi possano cioè essere delle “opere buone” che in realtà si rivelano cattive, che Caravaggio (e i suoi committenti) respingono in maniera assoluta. Le Opere di Misericordia sono certamente buone in sé e la differenza consiste proprio nel farle o nel non farle. Tuttavia esse da sole non sono sufficienti per raggiungere una volta per tutte la “grazia”, perché questa è strettamente collegata, innanzi tutto, con il libero arbitrio e cioè con la scelta tra il bene ed il male, ma va poi costantemente supportata attraverso le opere, appunto, perché anche il più puro degli uomini può sempre cadere in tentazione e cedere al peccato (come la sterminata serie di pitture con il Demonio tentatore conferma), mentre anche il più incallito dei peccatori, se il suo pentimento è sincero e il suo cambiamento reale e confermato attraverso le opere, può redimersi.
Come ben argomenta lo splendido catalogo della nostra mostra curato da don Alessio Geretti il rapporto del Dalí con i pittori del Seicento citati in precedenza non si limita certo al Cristo ora in S. Marcello al Corso ma rappresenta una costante della sua pittura già dalla fine degli Anni venti come testimoniano le sue numerose nature morte anch’esse intrise, come del resto la celebre Fiscella caravaggesca della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, di profondi significati religiosi ed eucaristici: o come l’altro Cristo del Corpus ipercubicus del 1954 ora al Metropolitan di New York, basato sul trattato sulla forma cubica di Juan Herrera, dove il rischio che la speculazione intellettuale prevalga sulla qualità pittorica, o almeno la offuschi (come a volte al nostro pittore capita) viene superato in extremis dall’assoluta purezza delle forme e dalla lineare semplicità dell’assunto creativo.
E tuttavia, rispetto anche ad altre opere citate nel Catalogo, come La Madonna di Port Lligat o L’Assumpta Corpuscularia Lapislazzulina, il Cristo di San Juan de la Cruz svetta per la purezza della sua forza poetica e il magnetismo che coinvolge lo spettatore quasi come una calamita non solo estetica ma anche mistica e questo rende la mostra romana ancora più meritoria. Probabilmente questo magnetismo dipende anche dalla fonte che ha ispirato Dalí, il minuscolo disegno di San Juan de la Cruz che molto opportunamente viene esposto accanto al capolavoro daliano e che per la prima volta esce dal Monasterio de la Encarnacion di Avila proprio per questa occasione, come osserva ancora don Geretti:
«Il disegno coglie il momento in cui Cristo muore sulla croce rendendo lo spirito, le mani lacerate dall’apertura dei chiodi e dal peso del corpo inerte che cade in avanti, la testa reclinata, quasi crollata sul petto, il volto appena visibile, i fianchi molto contratti dalla mancanza di respiro e dallo sforzo estremo e le gambe che non riescono più a sostenere il peso delle membra esangui. E tutto ciò appare di scorcio, in una prospettiva obliqua da un punto di vista che si trova nell’angolo in alto a destra-il che è senza dubbio la cosa più sorprendente del disegno».
Disegno che pure nella sua dimensione miscroscopica di pochi centimetri sa trasmetterci anch’esso delle forti emozioni spirituali.
Tornando al capolavoro di Dalí, finora mi sono occupato solo della sua parte superiore, dominata dalla figura del Cristo ripresa dall’alto, mentre ora debbo concentrarmi sulla metà inferiore, che appare invece come ripresa dal basso e che aggiunge ulteriore forza poetica al dipinto, innanzi tutto per quello spicchio di azzurrissimo cielo che squarcia le tenebre e illumina anche il bellissimo paesaggio posto proprio al limite inferire della tela.
E’ una veduta di Port Lligat con il suo mare turchese, le sue colline nello sfondo che sulla sinistra assumono le sembianze di un profilo metafisico dello stesso pittore e con ancora un pescatore che getta una rete e un marinaio ritto in piedi accanto alla sua barca, figure anch’esse mutuate da un disegno di Velázquez e da un dipinto dei fratelli le Nain in quel dialogo continuo con la pittura del Seicento che è come una cifra inconfondibile del nostro artista. E il paesaggio appena descritto è certo ispirato con perfetta mimesis al villaggio catalano dove Dalí viveva, ma esso allude anche in modo del tutto evidente alla Galilea a quel lago di Tiberiade
«dove l’avventura di Gesù di Nazareth iniziò con la chiamata dei suoi primi apostoli…e i discepoli del Cristo, come i pescatori di Port Lligat, sono emblema di tutti i poveri che diventano grandi al contatto col messia» (don Geretti).
Con il Giubileo alle porte i “pellegrini di speranza” che già in questi giorni affollano Roma, come in un enorme libro a cielo aperto squadernato per loro possono, già adesso ripercorrere quattro secoli di storia sacra seguendo i percorsi dei vari Anni Santi.
Cominceranno così dai capolavori medioevali del Cavallini in S. Maria in Trastevere e in Santa Cecilia. Saltando più di un secolo si potranno recare in S. Clemente con gli affreschi di Masolino e Masaccio per il Giubileo del 1423. Si sposteranno poi nella Cappella Niccolina in Vaticano con le storie di Santo Stefano e San Silvestro dipinte dal Beato Angelico per Giubileo del 1450. Ecco poi Antoniazzo Romano in Santa Croce in Gerusalemme e Santa Maria sopra Minerva per Giubileo del 1500. Sebastiano del Piombo in S. Pietro in Montorio per Giubileo del 1525. Daniele da Volterra in Trinità dei Monti, per Giubileo del 1550. Il capolavoro collettivo dell’Oratorio del Gonfalone per il Giubileo del 1575. E ancora Caravaggio protagonista del Giubileo del 1600: con la Cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi, la Cappella Cerasi in S. Maria del Popolo e La Madonna dei Pellegrini in S. Agostino. Domenichino e Giovanni Lanfranco in S. Andrea della Valle per il Giubileo del 1625. Pietro da Cortona in Santa Maria in Vallicella per il Giubileo del 1650. Il Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio nella Chiesa del Gesù per il Giubileo del 1675. Per concludere con l’apoteosi di Andrea Pozzo in S. Ignazio per il Giubileo del 1700.
Sergio ROSSI Roma 9 Giugno 2024