“Della Polvere il Canto si Levò”. Un “Pasticciaccio a due” che evoca geniali invenzioni nel “Teatro immaginato” di ‘Coucou, Sèlavy’.

di Marco FIORAMANTI

DELLA POLVERE IL CANTO SI LEVÒ Pasticciaccio a due ispirato a versi di: Shakespeare, Majakovskij, Rimbaud, Campana, Leopardi, Wilde.

di / con Coucou, Sèlavy (Francesco Vigna Taglianti e Silvia Pegah Scaglione)

Domenica d’agosto, che caldo fa! / La spiaggia è un girarrosto non servirà / bere una bibita se in fondo all’anima sogno l’oceano Splash! Ondeggiano le palme da dattero / nel cielo un volo di fenicotteri / sopra lo scoglio c’è una ragazza che ride e si tuffa giù, Splash!

Splash! Di nuovo Ophelia, nel gorgo muta. Eccolo che ritorna, in pieno buio tipo musicarello, l’incubo, giocoso, macabro, cantilenante dell’atto finale nel tempo, stavolta, della decadenza ludica e vacua fin-de-siècle. Di nuovo è domenica, afosa e calda, e noi siamo pronti al rito funebre.

Finalmente uno spazio scenico nei seminterrati di vecchie cantine, al teatro romano Ygramul a San Basilio. Gli spettatori pronti a stupirsi e a prendere coscienza di un’altra, ipotetica, fantastica, liberatoria realtà, oltre quella quotidiana elementare. La piccola sala è piena, il palcoscenico è essenziale, circondato da pareti squadrate da grandi drappi neri. Sulla scena una sedia, e sulla sedia un teschio, e lui, Hamlet, il finto pazzo, seduto a terra che ripete all’infinito la stessa frase. Sullo sfondo un leggio.

Giocato su un tempo circolare, l’opera scespiriana si rinnova nel dolore e nella follia a ogni pulsar di gesto. Il fantasma non muore mai, può solo continuare ad apparire.

Realizzato come composizione alchemica in ideogrammi letterari, ecco chiamati a raccolta – sciamani nella notte di luna piena – i sommi Vladimir e Arthur, Dino, Giacomo e Oscar, fantasmi risvegliati dalla collina di una qualunque Spoon River, a evocare Ophelia, là dove ancora scorre insanguinato il fiume della Poesia.

“Amici, romani, compatrioti, prestatemi orecchio…” sembrerebbe gridarci l’autore, visto che qui si celebra l’esaltazione della morte, nel vile racconto di una storia ingiusta, e mi risuonano nelle orecchie le parole “il male che gli uomini fanno sopravvive loro”.

Essere o non essere?… Vivere e lottare per la giustizia in un mondo corrotto o liberarsi dal peso dell’esistenza?

È un racconto a più voci, questa rossa nuvola di polvere e “stridor di denti”, offertoci dai due incredibili attori pronti a suonare strumenti magici di ironia letteraria. Scorrono i testi e le musiche, Chopin e la sua marcia funebre, la sinfonia n. 5 di Mahler, rivedo Aschenbach accasciarsi sulla sdraia, il rimmel colato sulla guancia, forse in una domenica d’agosto… Tutto è ripetizione. E memoria. Il canto del gallo, bianco-rosso-verde-giallo (e per addomesticarlo gli dava latte&miele, ndr), il canto del “giallo”, farnetica Hamlet ripetendo la frase. E dialoga con l’amata. Insieme i due, incappucciati, nel silenzio, in piedi vicini, sussurrano a noi, in sincrono ognun per sé: Atterrii nel tuo sguardo azzurro. E buio. E l’Infinito Leopardi brulica nella profonda voce dell’attore. E di nuovo buio. Hamlet seduto si finge folle. Ophelia in piedi, impietrita, burattina a braccia tese spalancate:

Dopo questo infortunio il fantasma si ammalò gravemente e non abbandonò la sua stanza se non per rinnovare la macchia di sangue. Addiiiiiiiioooooo (con voce lirica).

Lui la caccia via, al grido di Vatténne, vatténne! E lei sussurra parole di dolore, ne percepisco alcune: Cielo Libertà Amore Sogno. Buio. Riappare lei dal fondo incoronata di fiori.

Ghirlanda violacciocche margherite ortiche e lunghe orchidee rosse che le caste fanciulle chiamano dita di morto (Hamlet, atto IV, scena VII, ndr).

Teatro “immaginato”, quello di Coucou, Sélavy, fatto di geniali invenzioni, in una composizione sapiente di testi e musiche, a rappresentare l’emanazione istrionica e inconscia dell’attore che recita più parti al contempo, ora re ora buffone, ora dagl’improvvisi canti, ora dalle ingiustificate stonature. E silenzi. Un rapporto simbiotico quello dei due protagonisti, di tipo intuitivo, che li vede uniti da un filo rosso di memorie, pronti a immergersi ogni volta in un fenomeno esperienziale, come Polsi legati/ ai polsi del guerriero/ che ci respira (hai-K.O.).

Unico assente, Franz Kafka.

Marco FIORAMANTI  Roma  10 Giugno 2024