di M. Lucrezia VICINI
AUTORE: LAVINIA FONTANA (Bologna,1552-Roma,1614) PROVENIENZA: COLLEZIONE DEL CARDINALE BERNARDINO SPADA
Esposizioni:
– Lavinia Fontana (1552-1614), Bologna, Museo Civico Archeologico, 1 ottobre-4 dicembre 1994
–Viaggio in Italia. Un corteo magico dal Cinquecento al Novecento. Genova Palazzo Ducale 31marzo-29 luglio 2001
–Cleopatre dans le miroir de l’Art Occidental. Ginevra Musée Rath, 25 marzo-1 agosto 2004
Come già ipotizzato da Federico Zeri (1), l’opera potrebbe essere stata acquistata dal Cardinale Bernardino Spada (1594 – 1661) durante la sua Legazione a Bologna tra il 1627 e il 1631 e andrebbe interpretata con quella che nell’inventario dei suoi beni ereditari del 1661 è elencata tra i quadri più piccoli dell’attuale quarta sala del Museo, come Una poetessa (2).
Nel successivo inventario dei beni mobili della famiglia Spada del 1759, meglio si configura con il dipinto attribuito ad Andrea del Sarto collocato nella cosiddetta stanza à volta, attuale quarta sala del Museo, così descritto
altro quadro rappresentante una Turca vestita di rosso con vaso in mano, opera di Andrea del Sarto, in qualche luogo patito, scudi 80 (3).
Il Fidecommesso del 1823 lo registra con il riferimento a scuola fiorentina, come Un ritratto in tavola di donna turca, scuola fiorentina (4) e nell’attuale terza sala definita Terza camera lunga ove esistono 76 quadri. Nell’appendice al Fidecommesso del 1862 il dipinto risulta spostato nella Galleria terrena del Palazzo e segnalato per la prima volta col titolo di Cleopatra mezza figura (5). Sia nella ricognizione inventariale del 1925 effettuata dall’avvocato Pietro Poncini, amministratore degli Spada, sia nella coeva stima di Hermanin che valuta lire 500, l’opera compare nell’appartamento occupato dai Marchesi Serraggi, sempre nel Palazzo e descritta come Donna turca, scuola veneta del 700 (6).
In occasione dei lavori di sistemazione del Museo per la riapertura ufficiale al pubblico, avvenuti nel 1951, il dipinto viene rimosso da Zeri dalle stanze del Palazzo ed esposto nella seconda sala del Museo, dove ancora si può ammirare.
Lo studioso, nella scheda del catalogo generale delle opere che fa seguire alla riapertura (7), oltre a fissare l’iconografia dell’immagine in quella di Cleopatra, riconosce nella fattura la mano di Lavinia Fontana, basandosi sul confronto con il Ritratto di una gentildonna di Casa Ruina della Galleria Pitti a Firenze, firmato e datato 1593 e con il Ritratto di gentiluomo, di collezione privata a Roma, considerati ugualmente
eseguiti con estrema, pazientissima e meticolosa minuzia descrittiva.
Proprio per il gusto feudale che la contraddistingue, viene da lui inserita in quella fase di tendenze neogotiche che si manifestarono nella società controriformistica della fine del cinquecento. L’attribuzione alla pittrice bolognese, successivamente ribadita da Zeri (8), è confermata da Ghirardi (9) e da Fortunati Pietrantonio (10) propense per una datazione significativa intorno al 1585. Cantaro (11), si rifà invece ad un periodo più avanzato di permanenza romana di Lavinia Fontana, quando al tempo di Paolo V (1604-1614) ebbero esito rapporti positivi con le regioni orientali, soprattutto con la Persia, e la stessa pittrice eseguì nel 1609 il ritratto del Pontefice da donare all’ambasciatore di Persia e il ritratto di un persiano andati perduti (12). L’esame stilistico sembrerebbe convalidare la prima ipotesi di datazione, relativa al primo soggiorno romano della pittrice avvenuto proprio verso al metà degli anni ottanta.
Figlia del pittore Prospero Fontana (Bologna, 1512 – 1597), nella cui bottega si formò, Lavina esordì giovanissima, intorno ai vent’anni, con ritratti e opere di soggetti sacri di impostazione tardomanierista paterna, obbedienti all’etica paleottiana della riforma cattolica, ma anche attente all’esame del mondo botanico, per l’amicizia che legava la sua famiglia al naturalista Ulisse Aldrovandi. Sposò Paolo Zappi, anch’egli pittore, protetto e stimato da Papa Gregorio XIII, che dipingeva i panneggi nei dipinti di Lavinia. La frequentazione di ambienti aristocratici e cortesi, sia a Bologna che a Roma, dove la pittrice si stabilirà definitivamente nei primi anni novanta, diede vita ad una vasta produzione di ritratti, i cui personaggi, descritti con precisione fiamminga, ripropongono la mimica gestuale delle opere di Bartolomeo Passerotti.
Il ritratto Spada, reso con eleganza formale e raffinatezza di colori, si diversifica per l’atmosfera fiabesca che lo avvolge, in un intreccio di mistero e magia. Caratteristiche dettate dalla partecipazione della Fontana a quegli atteggiamenti culturali in voga attratti dal fascino di realtà esotiche, sollecitati dai rapporti che l’Italia intratteneva con l’oriente e dai successi della letteratura cavalleresca, diventata oggetto di interesse anche del teatro(13).
Nel dipinto la regina si staglia di profilo dal fondo scuro, tipologia iconografica che ha le sue origini nella ritrattistica quattrocentesca e di cui è stato visto come massimo riferimento il ritratto di Simonetta Vespucci di Piero di Cosimo, del Musée Condé di Chantilly, rappresentata rigidamente di profilo.
Solleva lentamente il coperchio dal vaso figurato, dal quale si agita a spirale un serpente con cui si incrocia con lo sguardo. L’aspide, che nella iconografia tradizionale è raffigurato mentre morde l’eroina agonizzante, qui si pone di fronte a lei in un silenzioso ed emblematico colloquio, quasi debba avere inizio un rito alchemico. Indossa una tunica rossa a mezze maniche da cui fuoriescono le maniche della veste sottostante di colore verde scuro. Sul capo ha una tiara rossa damascata, divisa in quattro spicchi da strisce che recano incastonate pietre preziose, esempio di copricapo presentato dalla pittrice, sia pure meno impreziosito, nel Ritratto di Ippolita Savignani a dodici mesi (Hopetonn House, Lord Linlithgow Collection), antecedente di qualche anno al nostro.
La tiara è fermata alla base da un velo bianco con orli e righe scure, che termina sulla fronte in una sorta di visiera tesa a punta e si annoda alla nuca, ricoprendo anche il collo, il mento e le orecchie. Da qui il velo scende giù a coprire la schiena, fino ad essere sollevato dalla protagonista con la mano sinistra. Alle sue spalle, a destra, è posto un mobile sobrio ma finemente intarsiato su cui poggiano un busto di Diana, un ibis e un vaso a tre piedi (14). Un’opera ingegnosa che unisce a indubbie sensibilità cromatiche una abilità inventiva e di esecuzione.
Somiglianze stilistiche si ravvedono nei coevi dipinti con Ritratto di nobildonna del National Museum of Women in the Arts di Washington e con Minerva in atto di abbigliarsi della Galleria Borghese, in cui l’eleganza formale e spirito cortese vanno di pari passo.
M. Lucrezia VICINI, Roma 30 Giugno 2024
NOTE