di Sergio ROSSI
Maria Cristina Carlini ha donato alla città di Milano la sua scultura monumentale Obelisco, esposta in permanenza a partire dal 21 giugno in piazza Berlinguer, adiacente a via Savona e a pochi passi dallo studio dell’artista, in una zona riqualificata nel tempo e che è oggi un importante polo culturale e terreno fertile per la vita artistica della città.
L’opera è stata realizzata nel 2015 con legno di recupero e acciaio corten (due tra i materiali preferiti dall’artista) e ha un’altezza che supera i 4 metri. Caratterizzata da un forte slancio verticale la scultura si presenta come una sorta di gigantesco libro dalle pagine aperte che vuole confrontarsi con le architetture circostanti, ma nello stesso tempo sottolineare la propria natura universale che travalica, attraverso le sue forme essenziali, ogni limite spazio temporale.
Come recita la scheda di presentazione dell’evento inaugurale «l’anima in legno, avvolta da un rivestimento in acciaio dalle linee essenziali, presenta fori, curvature e fratture che ne mostrano la longevità e il suo precedente impiego. Si tratta di un accostamento di materiali molto diversi fra loro, ma che creano un profondo dialogo e un armonico equilibrio estetico».
Questo evento in qualche modo rafforza e suggella il legame molto forte che la Carlini ha con Milano dove sue sculture sono ospitate all’interno del cortile della Corte dei Conti, nel Parco-Scultura dell’Idroscalo e presso Fieramilano Rho.
Tutte opere dalle dimensioni monumentali, su cui presto torneremo, ma che sono accomunate, oltre che dalla grande qualità estetica, dal senso quasi titanico di impegno, forza e sacrificio, anche puramente fisico che le caratterizza e che conferma un mio antico convincimento e cioè che l’autentica opera d’arte ormai non può prescindere dall’essere insieme frutto di “fatica di mente” e “fatica di corpo”, come aveva già intuito ormai cinque secoli un grande genio tanto caro alla nostra artista, Leonardo da Vinci.
E a questo proposito voglio citate quanto scriveva Stefano Valeri nella prefazione al mio libro Scultori e pittori dell’in-finito [1], sottolineando un paio di condizioni basilari che io invitavo a osservare:
«La prima è quella che non esiste nessuna distinzione tra artisti figurativi e quelli non figurativi. A dire la verità andrebbero compresi, negli ultimi, anche i concettuali, ma qui personalmente ritengo che troppe vicende, più o meno sensibili a disinvolte e puntuali operazioni finanziarie (che nulla hanno a vedere con il tradizionale mercato dell’arte), rischiano di confonderne l’autenticità. Esempi, anch’essi banali, fanno pensare ad alcune “situazioni” soventemente contrabbandate per sconvolgenti inediti, quando sarebbe bene rammentare che le molteplici forme artistiche, caratterizzanti i “luoghi deputati” con improvvise e contemporanee manifestazioni, ebbero fortuna già a partire dal XX secolo. La seconda condizione risiede nel fondamentale principio che salda la lunga catena degli eventi ripercorsi nel libro: saper usare insieme la mente e la mano. Questo è ciò che contraddistingue, anzi, che ha sempre separato nettamente, chi magari suda per dipingere o per scolpire non ottenendo altro che una fredda replica di quanto la natura offre, da chi invece, perseguendo la strada dell’arte, riesce a intuirne l’essenza. Riesce cioè non solo ad avere l’idea, ma a vedere anche dentro il suo involucro. E’ a questo punto che arriva la vera fatica, perché l’artista è obbligato (o eticamente condannato, fate voi) ad andare avanti, nella consapevolezza che mente e mano possono e debbono procedere assieme, lungo un percorso in-finito».
Parole che possono veramente apparire profetiche nel caso della Carlini, perché “l’involucro” entro cui riesce a penetrare nelle sue opere non è solo concettuale ma anche “materiale” nel senso che spesso le sue statue, come questa di Milano, presentano delle anime in legno rivestite di acciaio o viceversa, così come dei pieni che invece avvolgono dei vuoti che sono parte integrante del prodotto finale. Mentre, a proposito della distinzione tra astrazione e figurazione, sempre Valeri sottolineava come all’origine, sulla scorta del pensiero di Lionello Venturi, per “astrattista” non si intendeva semplicemente un artista non figurativo, come poi è accaduto nella vulgata comune, ma piuttosto colui che astraeva appunto dall’oggetto visibile il dato puramente e immediatamente sensibile per raggiungere il senso profondo della sua visione poetica e citava come perfetti esponenti dell’astrattismo Giotto e Alberto Burri e io aggiungerei anche il Beato Angelico delle celle del Convento di San Marco a Firenze.
E del resto i quadri di quello che può forse considerarsi il più puro degli astrattisti, cioè Malevič non sono forse pieni di figure, a partire soprattutto dagli anni Venti, in quella che lui definiva appunto arte “supronaturalista”? Figure che però, appunto, mirano a cogliere l’essenza stessa dell’umanità filtrata nella sua purezza assoluta e quindi diventano al contempo astratte.
E così, mutatis mutandis, anche per la Carlini non ha senso chiedersi se le sue opere siano figurative o astratte, quanto piuttosto se si tratta di autentiche opere d’arte e la risposta non può che essere assolutamente positiva. Anche perché nella nostra artista è presente un’altra caratteristica chiave di molte opere d’arte contemporanea, cioè quella della presenza-assenza dell’essere umano anche quando non è fisicamente visibile e che io mi immagino passeggiare tra quelle sue foreste pietrificate, arrampicarsi sulle sue Torri di Babele, magari scomparire dietro le porte semichiuse dalla forte valenza simbolica che è uno dei temi preferiti della sua scultura. Alla Carlini ho dedicato un articolo nel settembre del 2022 proprio su questa Rivista e ad esso rimando anche per una ricostruzione cronologica del suo percorso artistico (Cfr., https://www.aboutartonline.com/la-bellezza-difforme-delle-sculture-di-maria-cristina-carlini/.)
Qui voglio piuttosto approfondire ulteriormente alcuni temi che dei viaggi successivi a quell’articolo mi hanno suggerito.
Il primo si è svolto in Cambogia e non solo nei luoghi più famosi come Angkor Wat ed Angkor Thom, ma anche in quelli meno visitati ma ugualmente splendidi come Sambor Prei Kuk, Beng Melea o “La Cittadella delle donne” di Banteay Srey e dovunque mi ha colpito la moltitudine di colonnine formate da una serie di filettature concentriche sovrapposte e che, molto spesso addossate alle pareti, hanno una funzione puramente decorativa riuscendo comunque ad alleggerire e ingentilire le massicce strutture architettoniche circostanti. Esse mi hanno subito riportato alla mente due elegantissime opere della Carlini, entrambe in gres e tecnica mista Kmer, del 2016, dal titolo che non potrebbe essere più esplicativo e Origine del 2019 dove questi elementi verticali sono accostati tra loro in una sorta di danza rituale e sembrano nascere direttamente dalla natura.
Ma l’altro elemento sorprendente di tutti questi siti è il fatto che la vegetazione sembra aver preso possesso delle architetture, compenetrandosi in modo inestricabile con esse. Ed a me, che per deformazione professionale sono comunque abituato a ricondurre tutto entro un’ottica italocentrica, è venuta in mente quella celebre strofa della Gerusalemme Liberata ampiamente ripresa dai teorici classicisti:
“Di natura arte par, che per diletto l’imitatrice sua scherzando imìti.” (T. Tasso, Gerusalemme Liberata, Canto XVI, Ottave 9-15)
Dove in effetti distinguere tra arte e natura diventa impossibile, tanto gli edifici sembrano ormai essere diventati degli organismi viventi che raggiungono delle forme di inarrivabile audacia con cui in effetti la Carlini sembra voler gareggiare. Ma questo inestricabile intrico evoca anche uno dei miti più antichi e affascinanti della nostra cultura, quello della Caverna, come già sottolineavo nel mio precedente articolo citando citando Roberta Strocchi:
«Percepita in tutte le epoche come anticamera segreta di un mondo sotterraneo, utilizzata in antichità come tempio sacro, sorgente spirituale e gigantesco ricettacolo di energia tellurica delle divinità ctonie è identificata inoltre, da molte culture primitive come archetipo dell’utero materno perché posta nel ventre della terra, quindi strettamente associata a concetti di nascita e rigenerazione e vissuta come un regressum ad uterum» nei miti d’origine, di rinascita e di iniziazione».[2]
E la nostra scultrice richiama questo mito ancestrale in La porta della giustizia, in ferro e gasbeton resinato, del 2007, Madre, in acciaio corten, del 2009, Soglia, dello stesso materiale, del 2012.
Ma il mito della caverna si ricollega a quello della capanna e a me ha ricordato un altro recente viaggio, in Namibia, e più precisamente nel villaggio del popolo degli Himba (cfr. https://www.aboutartonline.com/appunti-di-viaggio-nonostante-forti-disparita-sociali-e-sacche-di-degrado-la-namibia-e-tra-i-paesi-piu-evoluti-del-continente-nero/ ), i cui villaggi sono formati da abitazioni di rami e paglia dalla forma conica allineati intorno ad una capanna centrale dove si trova “il fuoco sacro”, fulcro della loro religione animistica e che viene custodito dall’anziana del villaggio affinché non venga mai spento. E sempre procedendo per associazioni di idee eccomi arrivato alla recente Biennale veneziana, dove secondo me la Carlini avrebbe meritato un posto d’onore, non solo per la qualità del suo lavoro ma anche perché esso si ricollega ai temi fondanti dell’esposizione di quest’anno che fin dal titolo Stranieri ovunque intende concentrare la sua attenzione non solo sugli artisti provenienti dalle zone “marginali” del mondo, anche se ormai molti di quelli prescelti frequentano stabilmente le più prestigiose gallerie statunitensi ed europee, ma anche su quei temi che da sempre appassionano la Carlini, grande amante, come ho cercato di evidenziare proprio delle culture alternative asiatiche e africane.
Ma è soprattutto nella sezione Italiani ovunque, che come recita il catalogo
“riunisce opere di artisti italiani che hanno viaggiato e vissuto all’estero, sviluppando la propria carriera in Africa, Asia e America Latina, nonché negli Stati Uniti e in Europa”,
che la Carlini avrebbe sicuramente fatto un figurone. Infatti la scultrice ha iniziato il suo percorso artistico con la lavorazione della ceramica nei primi anni Settanta a Palo Alto in California, per poi esprimersi con l’utilizzo di diversi materiali quali il gres, il ferro, l’acciaio corten e legno di recupero. E come ha osservato di recente Chiara Gatti
«Per comprendere al vocazione spaziale di Maria Cristina Carlini è necessario fare questa premessa, ricordarsi dei suoi primi anni di lavoro trascorsi a Palo Alto, fra estuari e boschi di querce, ranchos e lunghi litorali. Il respiro della foresta, il moto liquido delle paludi, la maestosità delle sequoie – il suo “universo di linfa” – hanno lasciato impronte forse inconsce ma solide nel suo istinto già incline alle dimensioni imponenti, alla materia che ribolle sotto la superficie della terra e agli umori ancestrali di una natura pulsante di cui Carlini fa da allora esperienza diretta, attraverso il suo corpo, le sue mani che plasmano, i suoi strumenti che forgiano».
Ma non vi è alcun contrasto tra questa vocazione “ancestrale” e il suo successivo approdare alle più grandi e frenetiche metropoli di tutto il mondo, perché anche le sue opere di grandi dimensioni da Laocoonte, Guardiani del segreto a Soglia da La nuova città che sale allo stesso Obelisco con cui ho iniziato il mio saggio, mantengono quegli elementi “primordiali”, raccontano un viaggio nel percorso creativo dell’arte che è sempre e comunque un viaggio di civiltà, un viaggio nella nostra storia. E lo dico a tutti gli apologeti del “post-moderno”, “post-umano” e “trans-storico” (qualunque cosa questo termine assurdo vorrebbe significare) che purtroppo continuano ad infestare, oggi più di prima, le teorie estetiche contemporanee.
Veniamo al tema dell’uso di materiali diversi, spesso addirittura in contrasto tra loro, assemblate in composizioni che risultano alla fine altamente poetiche come La luce dopo il buio che così presentavo nel mio articolo precedente:
«Abbiamo un portone a losanga fatto con legno di recupero e come incendiato al centro da un’esplosione d’oro: si tratta di una soglia solo apparentemente chiusa, che cela imperscrutabili misteri e “racchiude in sé il fascino di un passato ignoto, pur trattenendo una memoria comune e condivisa che trasforma in straordinario l’ordinarietà del quotidiano”, come recita il breve testo di presentazione della mostra Oro Blu. Ma la porta, come la chiave, nella cultura ermetica, simboleggiano l’entrata in opera ed il modus operandi dell’alchimista, mentre l’oro ne segnala il coronamento finale».
Ebbene proprio nei miei viaggi recenti ho ammirato a Firenze l’Anselm Kiefer de Gli Angeli caduti che di queste contaminazioni fa splendido uso.
E mi piace chiudere questo mio intervento con la lucida analisi di Flaminio Gualdoni, che nel presentare una mostra del 2013 così scriveva:
«Nuova tappa del percorso solitario e intenso di Carlini, scultrice che sempre più apertamente ragiona di forma come attivazione modificante dello spazio. La sua idea di naturalità non risiede nella selezione dei materiali, ai quali invece si rivolge soprattutto per la loro agibilità estetica, siano essi il legno o la terra, la resina o il corten. Sta piuttosto nel costituirsi della forma come struttura intimamente astratta ma che s’intende come coagulo d’un comportamento essenziale nello e dello spazio d’esistenza. Che Carlini agisca in dialogo con lo spazio urbano, con l’identità architettonica del luogo oppure con il contesto naturale, l’approccio non muta.
Ciò che sempre caratterizza l’autrice è una sorta di tensione energetica, di agonismo febbrile con le materie e con le forme trovate – negli anni ultimi il legno di recupero porta tutta la sua storia dimessa entro gli spessori di sensibilità dell’opera–e soprattutto di una formatività costruttiva che non preordina, ma ausculta complice ciò che le materie stesse potrebbero divenire. Ne nasce un percorso fatto di architetture formali scabre e potenti, d’inquieta captazione estetica, intimamente antimonumentali e di brusca evidenza. Nel tempo di questa maturità fervorosa stanno nascendo opere di qualità importante, serrate in una assertività non scenografica».
Sergio ROSSI Roma 7 Luglio 2024
Note
[1] Roma, Lithos, 2013.
[2] Architettura e museologia liquida, Roma, Campisano editore 2022.