“Un regno di Ciechi senza doni”, una “raccolta poetico-teatrale” di Stefano Guglielmin per narrare il dramma dell’irresolutezza di Amleto.

di Marco FIORAMANTI

Stefano Guglielmin

Un Regno di ciechi senza doni

Marco Saya Edizioni, Milano 2023

————————-

ESSERE RE O NON ESSERE RE?

Tutti abbiamo/ un universo dentro/ fatto di giostre.

 (hai-K.O.)

Prima di conoscere e dialogare con l’autore (grazie ai social), avevo già avuto modo di apprezzarne lo stile attraverso un suo antico volume: SCRITTI NOMADI – Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem Edizioni, 2001) scoperto per caso sul ripiano di una bancarella. Una serie di saggi illuminanti animati da una premessa-chiave, chiara come un “annuncio di poetica”: l’intenzione, il predisporsi a un ascolto percettivo errante, in un destino ineluttabile di salvezza attraverso la perdita del centro, il nicciano andare verso l’altrove.

E anche in questo libro, “Un regno di ciechi senza doni”, la perdita del centro è la chiave drammaturgica dell’intero microcosmo in cui – come si legge in quarta di copertina:

Si intrecciano quattro fili: la trama di Amleto shakespeariano, il fare teatro nei suoi elementi fisici e simbolici, il metapoetico, l’autobiografia dell’autore.

Non sarà facile raccontare al lettore – in un flusso di sensazioni – il sentimento linguistico, le forme e le figure che questo libro mi ha evocato, ma ci proverò. Cinque atti e il corso dei fatti. Scene che si aprono a voci. Storie nelle storie, teatro nel teatro. Ogni storia un enunciato. Enunciazione, enunciazione! Esordio, Coro, Spettro, Orazio, Pubblico Inquieto, Fuori testo 1. Ritratti psicologici, un io che ogni volta entra in scena, filigrana che permea e si colloca nei paramenti dei soggetti. Fino a esporsi raccontando di sé, del suo privato in pubblico: quindici Fuori testo, parallelismi filogenetici, talvolta esilaranti: suo padre, morto senza armatura, i buoni rapporti con gli zii, le fughe in autostop, le meditazioni, gli amori, la poesia, le nascite, i gesti comuni.

“Da bambino giocavo con il lego, mi sognavo architetto”, scrive l’autore nel Fuori testo 11. A me risulta estremamente chiaro come Stefano il filosofo, alla fine, si fece poeticamente “architetto” costruendo parole in un viaggio/miraggio. All’interno del quale nasce e si forma un ipertesto con pretesto: quello di lanciare frammenti di specchi alla drammaturgia scespiriana dei dubbi, delle ombre, degli inganni, dei sensi di colpa, del viver tragico, degli scenderemo nel gorgo muti.

A pagina 75, per esempio, titolo: “Il re è solo”. Guglielmin esprime in uno dei tanti archetipi contenuti nel libro tutta la sua potenza espressiva. Ci presenta Claudio, nuovo re di Danimarca, come un Caino del Seicento, ma sempre figlio di Eva (e fratello di Abele) con la colpa, eternamente divisa tra trono e cognata. Troviamo Amleto nelle “Metamorfosi”, padre di Gregor Samsa, principe delle blatte. O Tiresia che snobba Polonio. Nell’enunciato Pane nero, scrive l’autore: Amleto nel camerino si toglie il trucco del principe, riprende gli abiti civili. E Ofelia che si vendica, morendo, del piacere negato da Amleto, mostrato col volto e il nero mantello ora di Gassman, ora di Olivier, infine di Bene (quello del 1962, con lo Spettro sempre in scena e un Amleto artista che muore intingendo la penna nel proprio sangue finto). Qual è infine la domanda del filosofo? Essere Re o non essere Re (della propria esistenza)? Qui si parrà vostra nobilitate, stirpe maledetta. Noblesse oblige: la regina ha sete. E la storia cambia. Il sonno della ragione genera Amleti?

Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (VC). Laureato in filosofia, insegna lettere presso il locale liceo artistico. È membro della Società filosofica italiana e fa parte della redazione di Anterem Edizioni. Gestisce il Blog sulla poesia italiana contemporanea Blanc de ta nuque. Suoi saggi e poesie sono usciti su numerose riviste italiane ed estere e su siti web.

Marco FIORAMANTI  Roma 7 Luglio 2024