di Sergio ROSSI
Dopo Carne. La materia dello spirito, che si è svolta a Illegio, Casa delle Esposizioni, dal maggio al settembre dell’anno scorso, don Alessio Geretti e il Comitato di San Floriano hanno ideato ed organizzato, sempre nello stesso luogo, un’altra splendida mostra, Il Coraggio, che come la precedente unisce intorno ad un tema particolarmente emblematico una serie di capolavori sacri e profani che vanno dal XV al XX secolo e provengono da alcune delle principali sedi espositive italiane ed europee.
La mostra è divisa in sei sezioni: Figure mitologiche del coraggio; Figure bibliche del coraggio; Il coraggio di Cristo; Il coraggio della fede; Il coraggio delle battaglie; Il coraggio di uno sguardo nuovo. Tra le 37 opere in mostre particolare risalto è riservato alla Presa di Cristo nell’Orto degli ulivi del Caravaggio ora presso la collezione Mario Bigetti e già nella collezione Ruffo di Calabria.
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Sul dipinto mi sono già ripetutamente espresso sia in alcuni articoli pubblicati su “About Art” ( Cfr https://www.aboutartonline.com/excursus-caravaggesco/ ) sia in Caravaggio allo specchio tra salvezza e devozione, (Paparo editore, Napoli 2022) e in (L’enigma Caravaggio. 1951-2021. Nuovi studi a confronto, Atti del Convegno, a cura mia, di Rodolfo Papa e di Rita Randolfi, EtGraphiae, Foligno 2023) e a questi studi rimando per un’analisi approfondita del dipinto.
Qui intendo riassumere la dettagliatissima analisi di don Alessio Geretti evidenziando anche alcuni aspetti meritevoli di ulteriore attenzione. Innanzi tutto lo studioso si esprime senza alcun dubbio a favore dell’assoluta autografia della tela, citando anche i numerosi storici dell’arte che condividono questa opinione: Maurizio Marini, John T. Spike, Sir Denis Mahon, Mina Gregori, Jacopo Curzietti, Caterina Napoleone, Clovis Withfield, Vincenzo Pacelli, chi scrive, Carla Mariani, Rita Randolfi, Pierluigi Carofano, Gabriele Simongini, Francesco Petrucci, Anna Coliva e ne ricostruisce anche con grande acume l’intricata vicenda documentaria, iniziando dalla commissione del gennaio del 1602 da parte di Ciriaco Mattei:
«Adj 2 di Genn.o 1603 e pui devono avere sc. centoventicinque d mo.ta di iulij x sc.o.p. tanti pagati à Michel Angelo di Caravaggio p. un quadro con la sua cornice depinta d’un Cristo preso all’orto devo sc. 125»,
dove è particolarmente rilevante l’espressione “con la sua cornice depinta” perché è proprio quella della tela in collezione Bigetti, come perfettamente ricostruito di recente da Caterina Napoleone (Una “cornice nera rabescata d’oro col suo taffetà rosso”. Riflessioni in margine alla “Presa di Cristo” coll. Bigetti, in “About Art online, 3 marzo 2024).
Senza ripetere il lungo elenco dei passaggi di proprietà mi limito qui a citare quello presso Asdrubale Mattei del 1624, nel cui palazzo vide il dipinto il Bellori, mentre per quelli successivi fino all’attuale proprietario rimando al documentatissimo studio di Francesco Petrucci (Caravaggio. La presa di Cristo dalla collezione Ruffo, De Luca, Roma 2023).
Questo del triennio 1601-1603 presso i Mattei risulterà uno dei più fecondi per il Merisi, perché ai pluristudiati Cena in Emmaus della National Gallery di Londra e San Giovanni Battista dei Musei Capitolini, e alla Presa di Cristo, di cui abbiamo appena discusso bisogna aggiungere il San Francesco in contemplazione anch’esso presso la collezione Bigetti che è da considerarsi il prototipo di quello più tardo ora in deposito presso Palazzo Barberini (1606) e soprattutto L’Incredulità di San Tommaso ora in collezione privata svizzera (già collezione Massimo) che è a sua volta il prototipo di quello a Potsdam, Sanssouci – Staatliche Schlösser und Gärten e già Giustiniani. Siamo qui di fronte ad uno dei vertici assoluti della pittura caravaggesca, dove il dramma sa ancora stemperarsi in un sentimento di speranza, che ci avvolge come la luce calda che dalla tela si propaga verso di noi. E che la versione ora in collezione privata preceda quella di Potsdam, oltre ai dati documentari elencati nei miei studi citati in precedenza, è confermato dal confronto stilistico tra le due tele. Si prenda ad esempio la splendida figura del Cristo le cui pieghe del candido manto scendono morbide e ondivaghe, quasi seguendo il movimento per cerchi concentrici dei quattro protagonisti della scena; ed ancora si ammirino le loro teste, più ravvicinate rispetto a Potsdam e senza alcuno spazio intermedio, creando un effetto di ancor maggiore coinvolgimento emotivo; è comunque la possente mano di Gesù che guida il dito incerto di Tommaso ad essere il vero fulcro della tela e che costituisce la migliore prova della autografia del dipinto, perché nessun altro artista coevo avrebbe saputo dipingerla con tale pregnanza visiva: è la stessa mano che aveva indicato all’incerto Matteo la vera via da seguire nella Conversione Contarelli o che fende l’aria in quel gesto benedicente e in qualche modo definitivo nella Cena in Emmaus di Londra.
Tornando alla Presa di Cristo da cui siamo partiti don Geretti scrive:
«il dipinto è di grande bellezza e intensità, porta le tracce di una mano geniale in ogni pennellata e in ogni dettaglio»
e quindi si sofferma su quattro elementi simbolici potenti che la tela propone.
«Il primo simbolo è la verità teatrale delle proporzioni messe in scena su quella tela. Le figure, raggiunte nell’ora delle tenebre dal chiarore della prima luna piena di primavera hanno le dimensioni dei nostri corpi reali … Il secondo simbolo che affascina nel dipinto è la presenza dell’artista stesso, la lampada fioca in mano, subito dietro la turba che travolge il Salvatore. … Il terzo simbolo che avvince nella Presa di Cristo è l’intreccio delle mani del Signore … e Caravaggio è geniale nel mostrare che un istante dopo il bacio del traditore, mentre già gli artigli del male gli si avventano contro, Gesù non scioglie le mani giunte, perché sta continuando a pregare. Infine, l’inclinazione e la rigidità del corpo di Gesù, che rimane come impiantato al suolo benché investito dalla falsità del traditore è un messaggio teologico preciso»
e Cristo, correttamente, pare impietrirsi al bacio dell’amico diventato traditore.
«L’amore di Dio è la speranza, è la vita dell’uomo. E poiché l’uomo si ostina a non lasciarsi amare e così si rovina e muore, Dio arriva al punto di morire per amore dell’uomo. Caravaggio lo dipinge dimostrando d’averne impressionante coscienza».
Naturalmente La Presa di Cristo nell’Orto non è l’unico capolavoro dell’esposizione, ma nell’impossibilità, per motivi di spazio, di rendere conto dettagliatamente di tutte le opere presenti in mostra mi limiterò a citare alcune di quelle per me più significative. Nella sezione dedicata alle Figure mitologiche del Coraggio un posto d’onore spetta per me alla Sfida tra Apollo e Marsia del Bronzino, ora presso la collezione milanese Giorgio Baratti e databile al 1532/35, sulla cui autografia la critica è ormai concorde. Si tratta in effetti di un dipinto di qualità altissima, in cui le animatissime figure in primo piano vanno progressivamente diradandosi verso il fondo, caratterizzato da un bellissimo paesaggio che non esiterei a definire protoromantico. Passando alla sezione delle Figure bibliche del Coraggio, particolarmente ricca e impegnativa sono due le tele su cui voglio soffermarmi.
La prima è Ester e Assuero di Bernardo Cavallino, ora a gli Uffizi e da assegnare alla fase tarda dell’artista. Siamo anche qui in presenza di un capolavoro assoluto, caratterizzato da una luce calda e avvolgente (“bionda” l’avrebbe definita il Longhi), che trova il suo acme nella tenda rosso acceso della metà destra e che lentamente vira in basso verso il marrone del tappeto ai piedi di Assuero e sconfina fino alla veste di una delle astanti dell’estremità sinistra in un gioco di perfetti equilibri cromatici; ed è da sottolineare anche la perfetta eleganza delle movenze dei protagonisti, immortalati quasi a ritmo di danza.
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E come sottolinea Claudia Baumgart a conclusione della scheda in Catalogo:
«Abbandonando progressivamente le caratteristiche seicentesche, le opere del Cavallino resteranno a Napoli il contraltare più rivelante del crudo caravaggismo di Ribera e si rivelano essere anticipatrici dell’Arcadia settecentesca e del Rococò».
La seconda è Sansone con il leone (?) di Gian Lorenzo Bernini, da datare verso i primi anni Trenta del Seicento, ora nella collezione Forti Bernini.
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Lascio alla dotta scheda di don Geretti la complessa ricostruzione dei vari spostamenti della tela e della sua fortuna critica che conferma la piena autografia berniniana, che del resto non potrebbe essere messa in discussione.
Io voglio piuttosto sottolineare l’eccezionale carica vitale, direi il vero e proprio furor che la figura di Sansone sa trasmettere (ma potrebbe forse trattarsi in alternativa di Ercole); la sua scultorea potenza e il perfetto equilibrio cromatico dell’insieme.
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Passando al Coraggio di Cristo, dove è inserita anche la Presa di Cristo caravaggesca molte sarebbero le opere da citare dal Solario al Giampietrino ma mi concentrerò piuttosto sul piccolo capolavoro (cm.20×16) La moneta del tributo di Tiziano, del 1536 circa e ora in collezione privata parigina, di cui ancora don Geretti ricostruisce esaustivamente storia e attribuzione, che comunque non vedo chi potrebbe mettere in dubbio, a partire proprio dal rosso della veste del Cristo, che più tizianesco non potrebbe essere. Ma un ulteriore conferma deriva dall’alta qualità e luminosità del volto del Salvatore, appena girato di tre quarti ad osservare, e direi penetrare col suo sguardo, il Fariseo che quasi gli si presenta alle spalle; e “last but not least” la capacità di creare in uno spazio così ristretto e con due soli personaggi una vera propria “storia” che si snoda nel tempo.
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La sezione il Coraggio della Fede è forse quella in assoluto più ricca di opere altamente significative, a partire dal San Sebastiano del Perugino del 1495, ora presso la Galleria Borghese. Siamo sicuramente di fronte ad una delle tele più emblematiche del Vannucci e che meglio definiscono il suo stile.
Basta far partire lo sguardo dalla perfetta scansione cromatica e prospettica delle fasce rose del pavimento che terminano nel grigio viola del parapetto (lo stesso dell’arco che incornicia la tela) e che preludono al dolce paesaggio umbro che fa da sondo al dipinto e ne dilata all’infinito la visione. Al centro, statuario, monumentale eppure malinconico e di un patetismo qui più contenuto rispetto ad altri dipinti perugineschi, si erge la figura del Santo, vero esempio del coraggio della fede da parte di «un martire che sfida la morte, ma che rimane incorrotto senza soffrire per le ferite inferte», come scrive in Catalogo Nicoletta Benvenuti.
Ancora a San Sebastiano e al suo martirio è dedicato un altro capolavoro, quello di Girolamo Genga conservato agli Uffizi e databile al 1500/1510, sicuramente uno dei vertici raggiunti dal maestro urbinate. Gli evidenti influssi pollaioleschi e signorelliani sono qui tradotti in un linguaggio più provinciale e colorito, senza che questo nulla tolga al fascino un po’ naif della tela, ma anzi addirittura lo rafforza. E particolarmente pertinenti mi paiono le parole di Paola Refice che scrive (in San Sebastiano. Bellezza e integrità nell’arte del Quattrocento, a cura di V. Sgarbi e A, D’Amico, Milano 2014) di
«una sorta di sacra rappresentazione che attinge al repertorio del dramma pastorale, col paesaggio naturale che domina sugli elementi antropizzati… E l’effetto finale dell’insieme-sovrastato dal padre Eterno che si affaccia con gli angeli dalle nuvole-è quello di una giostra meccanica, movimentata dai gesti dei carnefici, ognuno, alternativamente, dal basso verso l’alto e viceversa, in direzione del loro bersaglio vivente».
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Di grande fascino e potenza visiva sono anche i capolavori seicenteschi di Mattia Petri, Martirio di San Sebastiano del Museo Nazionale d’Abruzzo dell’Aquila e la Decollazione di San Giovanni Battista di Gerrit van Honthorst, ora in Palazzo Barberini, nonchè il San Gerolamo del Guercino.
Ma sicuramente il pezzo più intrigante è uno Studio per la battaglia di Costantino o di Ponte Milvio, graffite, biacca e sanguigna su carta ocra, cm. 22×24, ora in collezione privata parigina, presentato come autografo di Raffaello.
Al corpus dei disegni originari del Sanzio dedicati al grande affresco, come osserva don Geretti
«è possibile proporre che sia aggiunto il disegno qui in mostra, del quale le caratteristiche di stile e di materia fanno pensare a un autentico disegno preparatorio dell’urbinate. A parte la sua gestione fresca, vitale e varia, estremamente rara nelle copie, che trasmette un senso di vivacità e volume molto più efficacemente del modello, ciò che si vede nel disegno qui esposto differisce in diversi dettagli, in modo significativo, sia dal modello del Penni che dall’affresco finale, cosa che non si spiegherebbe adeguatamente senza supporre che tale disegno sia precedente ad essi…Certamente questo grande foglio che appare in esposizione, merita di essere ulteriormente studiato per consolidarne l’attribuzione che-se avvalorata da ulteriori indizi positivi-ne farebbe una delle scoperte più interessanti degli studi raffaelleschi degli ultimi anni».
Personalmente posso aggiungere che già la resa difficilissima dei cavalli, specie quelli feriti e rantolanti, i delicatissimi riflessi dei corpi e delle armature negli specchi d’acqua, la capacità di rendere un dramma corale e concitato pur mantenendo una straordinaria nettezza nella resa di ogni singolo guerriero, anche il più lontano, difficilmente può essere attribuita al Penni o allo stesso Giulio Romano, per cui l’ipotesi dell’autografia raffaellesca, certamente da consolidare con ulteriori approfondimenti, mi appare da prendere in seria considerazione.
Nella sezione Il coraggio delle battaglie, che spazia da Antoniazzo Romano a Gerolamo Induno il capolavoro assoluto è il celeberrimo Luisa Sanfelice in carcere di Gioacchino Toma del 1874/75 ed ora presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Siamo di fronte a un dipinto degno del miglior Manet e che dimostra come la nostra pittura ottocentesca sia assolutamente degna dell’Impressionismo francese, anche se per troppo tempo ingiustamente trascurata proprio dai nostri storici dell’arte, come mi ha confermato di recente l’ennesima visita alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, che non finisce mai di stupirmi.
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Nel caso del nostro dipinto già l’eccezionale qualità dei delicatissimi trapassi cromatici, dal bianco, al grigio all’azzurro e al verde acqua, i particolari assai raffinati delle scrostature dei muri, il modo quasi rallentato e cinematografico in cui lo spettatore è condotto verso la nobile protagonista meritano l’ammirazione più incondizionata. E poco importa se nella realtà la Sanfelice pare non essere mai rimasta incinta, perché il ritratto della condannata che stoicamente ricama il corredino per un bambino che non nascerà mai travalica la cronaca e la stessa storia e diventa icona e mito laico della santità del coraggio.
Infine l’ultima sezione Il coraggio di uno sguardo nuovo è dedicato a due opere a loro modo iconiche un acquerello Senza titolo del 1932 di Vasilj Kandinskij, ora in una collezione privata friulana dove si trova anche la Sfera in bronzo di Arnaldo Pomodoro, che innanzi tutto dimostrano il coraggio dell’ideatore della mostra Alessio Geretti, sempre pronto a sfidare pigrizie e luoghi comuni e avventurarsi in nuove e stimolanti proposizioni. A proposito di Kandinskij scrive:
«un passo decisivo in favore del coraggio dell’arte, il coraggio di essere liberi e senza padroni, il coraggio di affrancarsi da aspettative e consuetudini, il coraggio di provocare in noi uno sguardo nuovo»;
frase che può benissimo applicarsi anche a Pomodoro e che può sintetizzarsi nel coraggio della sacralità dell’arte.
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E a conclusione di questo mio scritto voglio proporre un mio Pantheon personale di artiste e artisti tutti a loro modo coraggiosi e tutti da me conosciuti personalmente e particolarmente apprezzati, alcuni ormai non più in vita altri ancora nel pieno della loro attività.
Inizierò da Bertina Lopes (Maputo 1924-Roma 2012) di recente assurta agli onori delle cronache per essere una delle protagoniste della recente Biennale veneziana e su cui così si esprime Amanda Carneiro:
«Bertina Lopes ha prodotto uno straordinario complesso di opere intimamente intrecciato con attivismo politico e critica sociale. Fondendo spesso elementi formali e costruttivi ripresi dai circoli artistici europei a una visualità associata al continente africano, l’artista trasforma la tela in un mezzo per esprimere la libertà, sia a livello personale che in risposta alla situazione repressiva del proprio Paese d’origine. Le sue opere sono caratterizzate da intricate composizioni di diverse prospettive e volumi disposti sullo stesso piano. L’influenza cubista risulta evidente, benché contrassegnata da un forte gesto personale quando combina maschere e totem a creare forme che evocano movimenti di danza realizzati con audaci pennellate. Non di rado, nelle sue opere l’artista incorpora paglia, piume e tessuti colorati. I suoi Totem si ispirano alle cerimonie Nyau e alle danze Tufo, tradizioni locali del Mozambico oggetto di sprezzo durante il periodo coloniale. Queste influenze rafforzano in lei il suo essere straniera in Italia e allo stesso tempo contribuiscono a mantenere un forte legame con la sua eredità mozambicana».
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Ebbene io ho recensito la Lopes su “Paese Sera” all’inizio degli anni novanta, intuendone già le straordinarie qualità e potenzialità espressive e ricevendo anche una prova d’autore con dedica che ancora conservo gelosamente. Era una signora dalla simpatia e gioiosità contagiosa, felicemente sposata in Italia ma ancora legatissima alla sua terra d’origine, tanto da avere avuto un ruolo nel trattato di pace del 1992 che mise fine alla guerra civile mozambicana anche grazie alla mediazione decisiva della Comunità di Sant’Egidio. E di lei si può dire: Il Coraggio della ribellione.
Una decina di anni dopo la Lopes ho avuto il piacere di conoscere e diventare amico di una delle più importanti scultrici europee del Novecento, Eila Hiltunen, legata fra l’altro all’Italia da un amore particolare ed autrice del celeberrimo Monumento a Sibelius conservato all’interno del Sibelius Park.
Oggi questo gruppo scultoreo sta alla città di Helsinki un po’ come la Tour Eiffel sta a Parigi, anche se le sue riproduzioni in scala ridotta non possono trovarsi sulle bancarelle o nei negozi di souvenir perché l’artista non ha mai concesso l’autorizzazione ad un uso commerciale o turistico del suo capolavoro, essendo un’assoluta assertrice della unicità delle opere d’arte.
Ho incontrato per la prima volta la Hiltunen nel gennaio del 2001 e per raggiungere la bella abitazione-studio dove l’artista ci attendeva nel tardo pomeriggio bisognava attraversare un Sibelius Park già avvolto nel buio dell’inverno finlandese, anche se candido e luccicante di neve; e all’improvviso, magicamente illuminato, mi è apparso il Monumento a Sibelius, opera simbolo della Hiltunen e ormai della Finlandia tutta, autentica sinfonia di linee sincopate, puro movimento di sogno, chiesa gotica in scala ridotta, organo gigantesco, piccola foresta pietrificata, stalattite di acciaio pendente dal cielo o che al cielo sembra rivolgersi, unendo il fascino di un antico rudere senza tempo alla modernità astratta di un’architettura geometrizzante: in definitiva, visione emozionante e indimenticabile.
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Nell’occasione di quel primo colloquio la scultrice mi aveva tra l’altro parlato della difficoltà che lei donna, ribelle e insofferente alla dittatura maschilista dell’allora sindacato degli artisti finlandesi aveva dovuto superare per ottenere l’assegnazione di quel monumento così prestigioso ed unico, per cui il suo può definirsi il Coraggio dell’unicità dell’arte.
«Non sempre conoscere un pittore, uno scultore, un poeta, prima di scrivere qualcosa sulla sua produzione è un fatto positivo: vi sono artisti molto migliori delle proprie opere (e non si tratta in genere di grandi artisti) così come vi sono opere molto migliori degli artisti che le hanno prodotte (e non si tratta allora di persone di cui bruceresti dalla voglia di essere amico). Quello che è più difficile è incontrare degli artisti le cui opere ne riflettano sostanzialmente il carattere e le qualità anche umane: e questo è appunto il caso di Trento Longaretti».
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Così scrivevo nel Catalogo della grande esposizione personale del 2006 presso il Museo Nazionale di Castel S. Angelo da me curata e dedicata ad uno dei “grandi vecchi” della pittura italiana del ‘900 (Treviglio, 1916 – Bergamo, 2017) e la cui intera parabola artistica si inserisce alla perfezione nell’ambito della mostra di Illegio da cui ho preso le mosse. Nel pittore lombardo, anch’egli presente ad una Biennale veneziana, quella del 1942, infatti, la “sacralità” sottende quasi tutte le sue opere, anche quelle più recenti, con esiti, sempre, di alta qualità ed altissima umanità. E lo dimostra il fatto che Longaretti, intimamente e convintamente cattolico ha anche dedicato molti dipinti al tema dei ebrei erranti, che divengono simbolo universale della perenne ricerca di sé, tipica di ogni essere umano e trattati al contempo con quella maniacale attenzione alla ricerca della “buona pittura” che è poi il fine ultimo di ogni suo dipinto. E la sua pittura, pur così impegnata e ricca di temi e di toni anche drammatici e inquieti sa comunque trasmettere un senso di equilibrio e di speranza che gli deriva dalla sua fede, che è certo fede in Dio ma anche e soprattutto il Coraggio della fede nell’arte.
Tra gli artisti da me conosciuti il ricordo più mesto e malinconico è senza dubbio quello di Alfonso Corsaro, di cui fino a poco tempo fa non sapevo assolutamente che fine avessero fatto le bellissime opere e che nel 1989, in occasione del Catalogo della mostra Presenze siciliane. Arte nel XX secolo (Roma, Complesso monumentale del San Michele) mi apparve:
«Un maturo signore siciliano dai tratti schivi e gentili, colto e introverso, povero e quasi sconosciuto come artista, anche se di indubbio valore. Non conosco -scrivevo allora- il motivo che spingeva Corsaro all’autodistruzione (che culminerà nel suicidio) ma penso che di fronte ai suoi quadri egli si rasserenasse ed in effetti essi non lasciavano trasparire minimamente il mondo di angosce del pittore. Mi viene poi il sospetto che se egli vendeva così poco era anche perché in fondo gli dispiaceva di separarsi dalle sue creazioni: canti mediterranei di sognato stupore; raffinate trame musicali come la Serenata di don Giovanni; meditazioni polimateriche sul tema della notte, che mostravano sì lunari paesaggi di solitudine, ma senza dramma, come di pathos sospeso, almeno così a me pareva, ma non era. Poi la morte e l’oblio totale, come spesso accade».
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Di recente ho però appreso che nel 2019 la Azzolino Art Gallery di Roma gli ha dedicato una mostra personale che certamente l’artista meritava e che forse può segnare l’inizio di una sua riscoperta. E il suo può definirsi il Coraggio della Solitudine.
Tra i “grandi vecchi” della pittura italiana che ho conosciuto di recente e che è ancora attivissimo non ostante i suoi 88 anni mi piace segnalare Vincenzo Eulisse, che ha preso parte alle Biennali veneziane del 1972 e 1976 e che con Basaglia, Chinello, Federici, Gianquinto, Nono, Perusini, Pizzinato, Vedova, ha partecipato al grande dibattito culturale che in quello scorcio di tempo ha animato la città lagunare, facendo della provocazione un’autentica forma d’arte.
Pittore e scultore estremamente prolifico Il Nostro ha in un segno grafico particolarmente incisivo e graffiante una delle sue note caratteristiche che si dipana in un flusso ininterrotto di immagini che si sovrappongono sui fogli e sulle tele e che me ha fatto venire in mente il celeberrimo “flusso di coscienza” di Molly Blunt nel XVIII capitolo dell’Ulisse joyciano:
«Una dimensione – come è stato scritto in occasione di una sua recente mostra al centro culturale MicroOmega di Venezia – capace di accogliere tempi diversi che possono parlarsi, cose apparentemente distanti tra di loro, elmi di guerrieri e cavalli con le froge dilatate che a volte diventano pennacchi, personaggi della storia o dell’amata mitologia con armi da superuomo dei nostri giorni o comunque paludati con abbigliamenti di tempi che non sono i loro».
Mentre nelle sculture i volti di partenza vengono come erosi dall’interno in una frammentazione dello spazio che rilegge in chiave moderna le prime esperienze futuriste. Ma, come dicevo, Eulisse è in qualche modo anche l’opera d’arte di se stesso sempre nel segno dell’essere contro, per cui è proprio il Coraggio della provocazione il termine che meglio lo può definire.
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Rimanendo nel campo della scultura appena due numeri fa ho dedicato proprio su questa rivista un meritatissimo spazio alla scultura Obelisco, di Maria Cristina Carlini realizzata nel 2015 con legno di recupero e acciaio corten e con un’altezza che supera i 4 metri (Cfr. https://www.aboutartonline.com/la-scultrice-maria-cristina-carlini-dona-a-milano-l-obelisco-gigantesco-libro-dalle-pagine-aperte/ ). Donata di recente alla città di Milano dove rimarrà esposta in permanenza in piazza Enrico Berlinguer. Caratterizzata da un forte slancio verticale, l’opera è stata da me definita come una sorta di gigantesco libro dalle pagine aperte che vuole confrontarsi con le architetture circostanti, ma nello stesso tempo sottolineare la propria natura universale che travalica, attraverso le sue forme essenziali, ogni limite spazio temporale. Ed è proprio sullo slancio verticale di molti suoi monumenti che voglio ora soffermarmi per evidenziare che non si tratta solo di una verticalità della materia ma anche dello spirito, in una sorta di continua sfida con se stessi e il mondo che ci circonda, un proclamare non con vuote parole ma con la fisicità dirompente dell’acciaio, del legno di recupero, della ceramica, che l’arte non ha confini per cui proprio il Coraggio della verticalità (dello spirito e della materia) è il termine che per me meglio contraddistingue l’artista
Altro grande artista finlandese (sue opere si trovano in alcuni dei principali musei scandinavi) da me particolarmente apprezzato è Lauri Laine. Di lui ho già sottolineato come
nell’ultimo decennio si può poi dire che abbia affrontato un percorso inverso a quello di tanti grandi Maestri del XX secolo, passati dalla figurazione all’astrazione, perché nel suo caso si è andati invece dall’astrazione alla figurazione, nel senso che le pure forme geometriche o le piante architettoniche svolte su di un piano prima, i copricapi, i ventagli, i turbanti, le sfere, i triangoli che popolavano i suoi dipinti poi, sono andati assumendo sempre più nitidamente i connotati delle figure umane. Anche se lo stesso artista afferma di non dipingere mai una figura, ma la sensazione della sua presenza, l’attimo precedente allo sguardo consapevole e al riconoscimento degli elementi realmente esistenti nell’immagine. E Masolino, Piero della Francesca, Orazio Gentileschi, Francisco Zurbaran sono gli artisti del passato meditando sui quali egli è andato via via raffinando il suo universo figurativo. Tutti pittori italiani e spagnoli e non a caso ho definito Laine il più mediterraneo tra i pittori baltici che ha saputo reinterpretare attraverso l’arte barocca la luce baltica, per l’appunto.
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Da noi la luce è luce ed il buio è buio senza mezzi termini e senza mediazioni, in Finlandia no; anche la più cupa notte invernale può essere rischiarata dai bagliori argentini delle distese immense di neve e di ghiaccio così come la luce estiva delle notti bianche è una luce azzurra che sa di mistero e che Laine sa tradurre nei suoi quadri che ci trasmettono, come ha osservato Carla Guidi, il senso di una stretta ed impensabile affinità tra i due paesi, quasi un’attrazione di affinità elettive, di contrari che si completano, di caldo e freddo che si compensano (Cfr https://www.aboutartonline.com/lauri-laine-e-giangaetano-patane-arte-senza-confini-contaminazioni-dellimmaginario-culturale/ ). Pertanto proprio il Coraggio del mistero della luce è il termine che meglio può definirlo.
Come ho scritto di recente, l’arte, quella vera, è sempre sostenibilmente “leggera”, cioè armoniosamente fruibile anche quando si estrinseca attraverso materiali ostici e “duri” come la pietra, il cemento o il calcestruzzo. Ed è questo appunto il caso della produzione scultorea di Bernarda Visentini, artista vera e tra le più rappresentative dell’attuale panorama italiano. E non ha senso chiedersi se la sua scultura sia astratta o figurativa, perché la nostra artista parte sempre dalle figure umane o comunque da elementi naturalistici, per poi spesso scarnificarli o rimodularli, ritrovarne l’essenza, l’archetipo. E non si tratta mai di elementi completamenti astratti, cioè lontani o esenti dalla realtà, anche quando ci appaiono nella più geometrica e stilizzata delle forme, perché vengono ricondotti poi al dualismo primigenio di maschile e femminile, perennemente in conflitto e perennemente in cerca di una alchimistica coniunctio, quella unione, appunto, in cui tutto si ricompone e da cui tutto proviene. Ma non avrebbe neppure senso chiedersi se le sue siano pitture scolpite o statue dipinte. E così in Origini o in Spirali il segno graffiato e graffiante si fa pittura mentre le steli di Ideogrammi in sequenza si snodano come enormi pagine che ci raccontano del grande mistero della natura.
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E quanto più è scabra e “dura” la materia con cui la Visentini lavora tanto più sono leggere e danzanti le sue statue. Per cui il suo è il Coraggio della leggerezza dell’arte.
Pur conoscendo Antonella Cappuccio da moltissimi anni è solo da poco che posso dire di avere scoperto che molti degli artisti del nostro Rinascimento e Barocco da me studiati ed amati sono gli stessi con cui l’artista intrattiene una sorta di dialogo a distanza che ha prodotto risultati di grande fascino. Intanto va subito precisato che la Cappuccio non è etichettabile all’interno di un movimento o di una scuola (pur avendo fatto parte dal 1895 al 1994 della cosiddetta “Nuova Maniera Italiana”) perché il suo approccio all’arte antica ed alla migliore tradizione della nostra storia dell’arte è sempre stato originale ed improntato alla più assoluta modernità. Lei non copia o cita ma reinterpreta e questa è una cosa molto diversa.
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Del resto è sorretta da una straordinaria tecnica esecutiva che si basa innanzi tutto su una grande capacità manuale e disegnativa. Qualità esaltate dal suo lavoro iniziale di costumista e scenografa che le ha consentito di ampliare il suo orizzonte formale e il suo sempre convincente rapporto con la spazialità. Ma tutto questo potrebbe ridursi appunto a “manierismo” nel senso deteriore del termine se la Cappuccio non conoscesse tanto bene l’arte del nostro novecento quanto quella dei secoli passati. Ed allora ecco che la sua pittura non si potrebbe comprendere senza de’ Chirico, Ernst, Magritte, la psicanalisi, il cinema di fantascienza ma anche una profonda sensibilità femminista che si saldano in un unicum ancora suscettibile di gradite sorprese. E il suo è un Coraggio molto particolare, quello di saper dialogare con l’antico rendendolo assolutamente moderno ed attuale.
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Venendo per concludere ad occuparmi di una fotografa devo dire che quelle di Alessandra Mitakidis sono poesie per immagini o se si preferisce immagini in forma di poesia, anche se le sue sono in effetti opere d’arte in sé compiute e dove l’immagine finale acquista una propria autonomia estetica rispetto all’iniziale punto di partenza colto dalla macchina e divengono appunto anche altro, cioè poesia. Certo non basta scrivere versi per essere poeti, stendere colori su una tela per essere pittori, scattare delle foto per essere dei fotografi; ma rovesciando in positivo questo assunto si può essere poeti usando una Nikon o “dipingere” attraverso le parole. Ed è quello che Alexandra è riuscita a fare nel suo libro del 2021 Scatti haiku al suono di figure e parole definito da Antonella Barina
«un percorso di iniziazione che dalla forma haiku più classica e conosciuta, quella descrittiva legata alle stagioni, approda a quesiti aperti sul trattamento dell’anima»
e che io ho paragonato a un concerto per silenzio e macchina fotografica articolato nei classici tre tempi, allegro, adagio, andante con moto che qui si intitolano “I quattro elementi”. Come osserva Enzo Santese la Mitakidis, sulla scorta di una lunga consuetudine con l’obiettivo, ama partire da
«spunti della realtà che solitamente sfuggono all’attenzione: è per questo che uno scorcio architettonico, un oggetto d’uso quotidiano, un’imbarcazione, una porzione di paesaggio punteggiata occasionalmente da elementi estranei, al suo occhio, diventano protagonisti di un’inquadratura dalle forti connotazioni scenografiche»
e io aggiungo anche poetiche, per cui il suo è proprio il Coraggio della poesia.
Sergio ROSSI Roma 28 Luglio 2024