di Vitaliano TIBERIA
I NORMANNI DI SICILIA: POLITICA, RELIGIONE, CONVIVENZA PACIFICA
In memoria delle vittime in Ucraina e in Medio Oriente
I ricorrenti sconvolgimenti bellici in diverse aree geopolitiche del mondo sono il frutto di conflitti economici, culturali e talvolta religiosi più o meno antichi, che non sembra possano trovare soluzione nel ripristino di precedenti assetti politici, superati dal progredire dell’etica e dalle conseguenti aspirazioni a realizzare forme più partecipative di governo; un’affermazione, quella della democrazia, che, tuttavia, resta, almeno per ora, appannaggio dei paesi occidentali a fronte di sistemi di governo nel resto del mondo fondati sull’autoritarismo e sull’esclusione di vasti strati della popolazione dalla vita pubblica.
Davanti al susseguirsi di eventi socio-culturali complessi e riattualizzati dal sinistro balenare di fantasmi del passato non si può che auspicare l’apparizione di nuove figure politiche di alta statura morale e intellettuale, tali da ridisegnare il mondo fondandolo, non tanto sull’integrazione che è una forma di sopraffazione benintesa, ma sulla convivenza pacifica dei popoli. In età moderna, sia pure con qualche riserva, il pensiero di un tale progresso politico-culturale va agli Stati Uniti, che, dal 1776, raccogliendo identità diverse e talvolta conflittuali fra loro, hanno fondato, anche se ai danni dei nativi americani, una nazione oggi costituita di circa trecentotrentatre milioni di abitanti. Ma interrogando la storia, vediamo che è possibile trovarvi realizzato un riscontro molto antico a quanto stiamo dicendo, fondato sulla convivenza di popoli diversi in un unico Stato, anche se non democratico. Per strano che possa sembrare, tale riscontro ci viene dal Medioevo, ritenuto dalla credenza comune a torto e a lungo un’epoca di oscurantismo nella politica, nella società, nella cultura, che invece proprio in quell’epoca trovarono grandi sintesi nella filosofia e nell’arte. Proprio in quel mondo, popolato di demoni ma anche di angeli, di santi e di streghe, di baratri e di paradisi, fu realizzato uno Stato con una forma di governo monarchica forte e comprensiva di varie etnie, tradizionalmente conflittuali fra di loro, conviventi perché tutte chiamate a partecipare, sia pure in varia misura, alla vita sociale.
Si tratta del regno dei Normanni, fiorito in Sicilia con Ruggero I, il Gran Conte, nell’ XI secolo, che fu realizzato con una popolazione già presente e costituita in prevalenza (circa l’80%) di musulmani insieme a circa il 20% di bizantini, latini, longobardi e francigeni[1]. La presenza musulmana era divenuta tanto pervasiva nel sud dell’Italia che, nell’XI secolo, Palermo poteva contare su un solo vescovo greco, mentre a Bari fu creato un emirato; una presenza nelle circoscrizioni del potere ecclesiastico tuttavia che fu ridimensionata progressivamente, al punto che, alla metà del XIII secolo, i musulmani di Sicilia furono comunità di agricoltori nella zona di Monreale[2]. Come ha osservato Francesco De Stefano, nella generale crisi sociale della Sicilia, i Normanni ebbero il merito di amministrare in un unico Stato popolazioni latine, bizantine, musulmane, giudaiche, longobarde, avendo cura di disporre nella nuova legislazione, riferimenti sia al diritto romano che a quello bizantino, sia alle tradizioni giuridiche locali, così da evitare laceranti contrasti fra le popolazioni locali e la nuova legislazione statale[3]. Nello stesso tempo, i Normanni, volendo un’amministrazione pubblica valida, efficiente e senza pregiudizi, chiamarono ad operarvi valenti funzionari greci, pugliesi, salernitani, arabi, ma riservando tuttavia a sé stessi l’amministrazione militare, anche se greco era Giorgio di Antiochia, ammiraglio di Ruggero II.
Testimonia questa visione normanna universalistica e trionfale, proprio a Palermo, l’iscrizione apologetica in arabo sull’arco d’ingresso della sala centrale della Zisa, illustrata da Hans-Rudolph Meier:
«Quantunque volte vorrai tu vedrai il più bel possesso// Del più splendido tra i reami del mondo. // Vedrai il gran re del secolo in bel soggiorno. // Che a lui si convengono la magnificenza e la letizia. // Questo è il paradiso terrestre che si apre agli sguardi. // Questo è il Mosta’izz e questo palagio l’Aziz.»[4].
Per propagandare esteticamente questo indirizzo unitivo, la nuova monarchia volle che il nuovo progetto di sintesi politico-culturale mediterranea fosse simbolicamente e mediaticamente illustrato in varie chiese attraverso le immagini artistiche veicolate da materiali suggestivi di pasta vitrea, generatrici di luce dall’intensità variegata nelle diverse fasi del giorno: i mosaici, che decorarono absidi, cupole e pareti delle chiese fatte innalzare nel XII secolo in Sicilia, in particolare a Palermo, Cefalù e Monreale; queste, a differenza degli edifici religiosi bizantini, ebbero rilevanti dimensioni verticali, sulla cui sommità campeggiava il Cristo Pantokrator, ricapitolazione simbolica della storia dell’umanità, che si sarebbe conclusa, secondo la profezia dell’evangelista Giovanni, con il parusiaco ritorno; nello stesso tempo, questa iconografia “metafisica” del Pantokrator a mezza figura, di origine bizantina, evocava l’ideale politico di uno Stato “donato” da Dio al re che ne fosse stato degno.
Era un nuovo tipo di raffigurazione eminentemente spiritualistica, che oltrepassava la posa antropologica e retorica del Cristo a figura intera, cui era sotteso il primato del papa, il vicario terreno del Salvatore e quindi il pastore di popoli, come, a partire dal IV secolo, si vedeva in varie versioni musive a Roma sulle absidi di diverse chiese, Santa Pudenziana, SS. Cosma e Damiano, Santa Maria in Trastevere, Santa Prassede, San Marco Evangelista al Campidoglio; fatta eccezione per il Cristo nella volta del sacello di San Zenone nella basilica romana di Santa Prassede, del tempo di Pasquale I (817-824), raffigurato come Pantokrator con in mano il libro chiuso.
La versione normanna ultraspiritualistica del Cristo a mezza figura sarebbe risultata ovviamente un suggestivo riferimento divino per i cristiani del regno, risultando, tuttavia, non troppo sgradita alle popolazioni musulmane largamente presenti in Sicilia, che vedevano nel Cristo un’elevata figura profetica, tanto più se raffigurato nella perfetta astrazione iconica e dunque incorporea e atemporale del Pantokrator. Fu il 1143 l’anno della presentazione di questa immagine musiva nella Cappella Palatina, dopo anni di aniconismo, che segnò «la reintegrazione trionfale dell’immagine a Palermo».[5]
Giustifica questa scelta teologica del Cristo Pantokrator da parte dei re normanni anche il fatto che, tra la fine dell’XI secolo e la metà del XII, l’argomento cristologico, relativo in specie alla figura umana di Gesù, fu molto dibattuto nelle scuole collegate alle cattedrali, nei monasteri benedettini, fra i canonici regolari, celebri quelli del monastero parigino di Saint Victor. E fu proprio Ugo di Saint Victor a sostenere la centralità del Cristo nella realtà, interpretato come Lux o Φώς, sublime crasi di energia divina e di potestas regalis. Ugo, evocando l’ecumenicità della luce divina fra gli uomini, suggestivamente affermava:
«[…] la luce vera che illumina ogni uomo nel mondo, si riversa su tutti, risplende per tutti, illumina tutti […]. Dunque tutti quelli che vedono sono da lui illuminati, ma più fortemente coloro che vedono, perché egli stesso è la luce da cui sono illuminati»[6].
In altre parole, lo sconosciuto consulente teologico dei re normanni non poteva non sapere che nel XII secolo l’argomento cristocentrico era prevalente sulle riflessioni intellettualisticamente teologiche sul mistero del polimorfismo della Trinità, di Guglielmo di Saint–Thierry; una prevalenza determinata anche dall’azione pervasiva ed unificatrice dell’autorevolissimo Bernardo di Clairvaux, fedele consigliere e sostenitore di Innocenzo II (1130-1143) negli anni Trenta del XII secolo contro l’antipapa Anacleto II, a sua volta sostenuto in un prima fase da Ruggero II in cambio della nomina a re di Sicilia.
I mosaici normanni, illustravano dunque nelle chiese con chiarezza mediatica il collegamento diretto fra la saggia amministrazione del re sul suo regno multietnico, particolarmente significativo nelle componenti latina, bizantina e islamica, e la volontà divina impersonata dal Cristo; la presenza di gruppi di santi greci e latini nei mosaici della cattedrale di Cefalù dimostrava sì la varietà agiografica del Cristianesimo, ma anche l’ambizione dei re normanni di raccogliere sotto un unico scettro oriente greco e occidente latino già divisi dallo scisma di Michele Cerulario fin dal 1054[7].
Lo stesso Pantokrator con nella mano sinistra il libro aperto scritto in greco e in latino, al centro dei mosaici siciliani, lanciava ai popoli del regno un messaggio didascalico coinvolgente e fermo, diverso da quello contenuto nell’iconografia del Cristo con il libro chiuso simbolo della fine, che si vede circondato da angeli nel Pantokrator nella cupola della cappella Palatina e in quello ricordato del IX secolo, nella volta della cappella di San Zenone in Santa Prassede, a Roma.
In tal senso, il Brenk ha ritenuto particolarmente «anticonvenzionale» il Cristo di Cefalù, che ha definito Megalo–pantocratore perché a figura gigantesca e isolata nello sfondo d’oro privo di presenze angeliche, conciliante e severo ad un tempo, come avvertono le iscrizioni in latino e in greco sul libro sacro che tiene nella mano sinistra e che evocano «nello stesso tempo il sovrano giudicante sulla terra, Ruggero II»; il Brenk, dopo un’analisi serrata dell’iconografia del Pantokrator ha collegato quindi il mosaico di Cefalù alla legislazione ruggeriana del 1140, le Assise di Ariano, laddove si afferma emblematicamente «Reformare cogimur iustitiae simul et pietatis itinera» e si ribadisce ancora più esplicitamente la discendenza diretta da Dio del re «nullius alterius potestatis subiectus», avvertendo i sudditi che «Disputari de regis iudicio, consiliis, institutionibus, factis non oportet»[8].
Esemplari di tale pensiero, che nella figura del re sintetizzava antico e moderno, oriente e occidente, ordine sociale e buon governo, sono i due celeberrimi e splendidi mosaici in Santa Maria dell’Ammiraglio, la celebre Martorana, in Palermo, e nel duomo di Monreale, che attestano la progressiva evoluzione in senso teocratico della persona del re. In queste raffigurazioni, infatti, Ruggero II (1095-1154) e il nipote Guglielmo II (1153–1189) ricevono la corona direttamente dal Cristo, senza mediazione pontificia. Nella prima, dotata di didascalia in lettere capitali greche, ṔOГÉΡIOС ΡНξ (ma la lettera finale di Ruggero è in cirillico), il Cristo, in piedi, con nella mano sinistra il rotolo della legge, incorona Ruggero II in abiti imperiali bizantini, con la stola di Legato apostolico e la corona greca dotata di pendenti di perle; la didascalia di Ruggero in capitali greche, sembra alludere alla volontà di conquista di Ruggero, abbigliato alla bizantina, del dominio imperiale a oriente, anche perché, datandosi questo mosaico «intorno agli ultimi anni del quinto decennio» (scil. del XII secolo),[9] potrebbe essere collegato alla seconda crociata, cui quel re partecipò e che si svolse nel 1147-48[10].
L’iscrizione in greco potrebbe dunque essere un auspicio di vittoria da parte di Ruggero II in procinto di partire per la crociata. Nel secondo mosaico, il Cristo assiso in trono, con nella mano sinistra il libro aperto con il passo del vangelo di Giovanni Ego sum lux mundi. Qui sequitur me…, incorona Guglielmo II, designato con didascalia in lettere capitali latine REX GUILELMUS e anch’egli in paramenti bizantini. Dunque, nel mosaico più antico della Martorana le scritte sono in lettere greche, mentre a Monreale sono in latino, a ricapitolare tempi e mondi diversi.
Ma, particolare importante, alla Martorana, nel quinto decennio del XII secolo, Ruggero II poggia i piedi leggermente fuori dalla cornice o su di essa, che delimita in basso lo spazio d’oro, pertinente il cielo e dunque simbolo dell’eternità del Cristo; nel mosaico di Monreale, invece, dell’ottavo-nono decennio del XII secolo, Guglielmo II, detto il Buono, ricordato come sovrano giusto e munifico dai cronisti e letterati del tempo e da Dante come prediletto dai Siciliani[11], è raffigurato con i piedi ben piantati all’interno del divino spazio d’oro atemporale, a richiamare, nel progredire dei tempi, la discendenza dei re normanni, senza sottomissione terrena alcuna, direttamente al Cristo-Dio.
Tale discendenza appare tanto più sottolineata concettualmente dalla didascalia non più in lettere greche, come alla Martorana, ma in latino, ad evocare dell’impero romano la sua lingua ecumenica, che ancora era in vigore al tempo dei Normanni fra i ceti più elevati e soprattutto nella Chiesa di Roma, verso il cui capo, il papa, i re normanni, sia pure a fasi alterne, professarono un vassallaggio, ma solo spirituale, in una scelta di campo ideologico alternativa alla Chiesa d’oriente. Quest’ultima, articolata sulla collegialità episcopale, vedeva ciascun suo componente in dipendenza diretta dal Cristo, sulla cui figura nel mistero trinitario le due Chiese, già prima dell’avvento dei Normanni, avevano definito differenti concezioni. Inoltre, se c’era grande attenzione ai temi dell’etica da parte della Chiesa di Roma, in continuità con la consolidata e universale tradizione giuridica romana, si registrava da parte orientale una forte valutazione del pensiero filosofico greco di origine idealistica, in particolare nella versione emanazionistica del neoplatonismo. In sostanza, dai due mosaici della Martorana e di Monreale, del tempo di Ruggero II e di Guglielmo II, apprendiamo che le immagini regali pubbliche di quei due re, strettamente collegate alla figura del Cristo, apparivano orientaleggianti sotto il profilo estetico ma latino-occidentali nel significato della loro dichiarazione linguistica e concettuale; in altre parole, i re normanni dichiaravano di appartenere, oggi si direbbe geopoliticamente, all’area occidentale.
In proposito, giova confrontare il mosaico con l’incoronazione di Ruggero II della Martorana con un antecedente di simile iconografia: un bellissimo avorio bizantino, del 945 circa, nel Museo Puskin di Belle Arti a Mosca, con Cristo che incorona Costantino VII Porfirogenito[12], l’intellettuale re dei Romei. In ambedue i casi le didascalie sono in lingua greca, ma con una differenza linguistico-concettuale non trascurabile: nell’avorio bizantino, il re è definito Basileus Romaion, mentre nel mosaico normanno Ruggero II è dichiarato romanamente ṔOГÉΡIOΣ ṔНξ, anche se in lettere greche. Insomma, solo nell’opera bizantina è dato trovare una coerente sintesi di significante linguistico e di significato concettuale, per cui il re, secondo l’etimo greco, è chiamato Basileus; e ancora, in coltissima sintesi linguistica, che riandava all’epopea greca, Ruggero II, nella cappella Palatina a Palermo, sceglieva di essere denominato con espressione cara ad Omero: Re dal possente scettro[13].
Dunque, per governare uno Stato da Occidente ad Oriente, Ruggero II non si fece scrupolo di usare la religione cristiana come instrumentum regni, con il corollario dei giuochi linguistici (li avrebbe apprezzati Ludwig Wittgenstein!), che realizzavano ardite, eppure autorevoli, trasposizioni della lingua greca su quella latina e viceversa. In altre parole, la politica, richiamando per certi versi la sapienza della religione cristiana, diveniva utilitaristico esercizio delle virtù per il bene comune.
Un tema che, ancora alla metà del XIII secolo, sarebbe stato centrale nel pensiero di un grande ecclesiastico come il domenicano arcivescovo di Canterbury Robert Kilwardby, il quale riteneva l’etica in politica doversi fondare su prudentia, iustitia, fortitudo, temperantia. Ricordo inoltre che, nel 1148, in omaggio alle due culture cristiane presenti in Sicilia, anche se divise dal 1054 per motivi teologici (la questione del filioque, di cui riparleremo) e per il primato del papa di Roma non riconosciuto da Bisanzio, Ruggero II volle che nel libro aperto nella mano sinistra del Cristo Pantokrator, nell’abside della cattedrale di Cefalù, nella cappella Palatina di Palermo e nel duomo di Monreale, fosse raffigurato l’assolutizzante passo del Vangelo di Giovanni (8,12), Io sono la luce del mondo, con il solito sistema bilinguistico, scritto cioè in una pagina in greco e in una in latino. Sul piano dottrinario, come ho accennato, avveniva la ripresa del pensiero cristocentrico di Ugo di San Vittore, ma unitamente all’intento assolutistico, proprio di un sovrano di uno Stato multietnico che anticipava, sia pure in nuce, il principio dell’eguaglianza giuridica, che sarebbe stato appannaggio delle monarchie europee.
Così, prìncipi calati dal nord dell’Europa, che avevano fatte proprie le regole della cavalleria ed erano al corrente delle strutture vassallatiche della società occidentale, usarono il fattore religioso, in particolare la figura del Cristo, come medium dell’arte ecumenicamente intesa per dialogare in varia misura con popoli di culture diverse e contrastanti, come furono arabi, latini, bizantini, longobardi, ebrei, francigeni[14]. L’adesione al Cristianesimo dei Normanni non determinò intolleranza verso le altre confessioni; infatti, furono rispettati gli usi e i costumi delle varie etnie, così che la comunità meno numerosa, la giudaica, poté esercitare la propria religione, al pari di quella più numerosa, l’islamica. Non casualmente, l’islamista Jeremy Johns, in un convegno a Bari nel 2006, citato da Hubert Houben[15], ha parlato del regno normanno di Sicilia come di realtà sincretica delle culture orientale e occidentale. Ne è riprova il fatto che, nelle architetture normanne, insieme ad architetti siciliani, lavorarono artigiani e mosaicisti venuti da Costantinopoli, e artigiani arabi, autori, fra l’altro, delle decorazioni delle parti lignee interne delle coperture delle chiese. Insomma, la distinzione fra iconismo cristiano e aniconicità islamica e giudaica fu temperata dall’ideologia normanna politicamente e intellettualisticamente ecumenica, sia pure, ad usum regni, che, anche nella produzione artistica e artigianale non determinò esclusioni.
Così, furono tessitori islamici ad eseguire nel quarto decennio del XII secolo il manto di Ruggero II, un prezioso vestimento che dal XIII secolo gli imperatori del Sacro Romano Impero indossarono al momento della loro incoronazione[16]. L’opera è concettualmente unitiva: al centro campeggia l’albero della vita fra due leoni pacifici, simboleggianti i Normanni, che sottomettono senza violenza due cammelli bardati, gli Islamici, in una metafora del potere normanno rispettoso dell’etnia araba in Sicilia, per altro, numericamente più che consistente rispetto alle altre; va del resto ricordato che la corte di Ruggero II fu frequentata da più di un intellettuale arabo.
Come dichiara l’iscrizione sull’orlo curvilineo dello splendido manto del re, l’attenzione è modernamente rivolta ai valori etici ed estetici che caratterizzano il vivere civile; vi sono infatti evocate virtù di valore laico e religioso: la bellezza, la gioia di vivere, la perizia esecutiva nelle cose dell’arte.
Allo stesso modo, per così dire, multiculturale, nell’esecuzione dei mosaici furono presenti magistri musivarii bizantini, come ha sottolineato Maria Andaloro, che li ha individuati nel presbiterio della cattedrale di Cefalù, nei pannelli musivi di figuratività profana nella Sala della fontana della Zisa a Palermo e nella cosiddetta Stanza di Ruggero, raffiguranti scene di caccia, anche di ascendente islamico; un orizzonte orientale, matericamente variegato e di ampia figuratività bizantina, rintracciabile in stoffe bizantine con echi sasanidi e in smalti cloisonnés di argomento profano, come pure nelle decorazioni dei soffitti lignei ecclesiastici, negli avori e nei ricami di manifattura islamica.[17] Operazioni funzionali alla politica interna, così che l’idea di unità e stabilità di un mondo frastagliato culturalmente e fondato sul potere assoluto del re si riverberasse pubblicamente anche nelle realtà quotidiane degli oggetti d’arte e d’artigianato.
Sul piano delle scelte in campo politico, come abbiamo visto, fu consequenziale il ridimensionamento delle relazioni con Bisanzio, che aveva rapporti conflittuali sia con la Chiesa di Roma che con i Normanni, nella quale questi videro un autorevole riferimento per la loro visione mediterranea evocatrice dell’universalismo identitario di Roma imperiale e dello stesso papato.
Niccolò II firmò, nel 1059, con Roberto il Guiscardo il trattato di Melfi, con il quale fu riconosciuto ai Normanni il sud dell’Italia, ponendosi così fine alla crisi apertasi nel 1051, quando Benevento era passata dalla parte del papa, e dopo che, nel 1053, Leone IX, sconfitto in battaglia, era stato fatto addirittura prigioniero. Fu proprio a seguito del trattato di Melfi, che i Normanni, nel 1061, iniziarono la conquista della Sicilia. I nuovi re favorirono abilmente la nascita di diverse diocesi, fra le quali quella di Troìna, riconosciuta da Urbano II, che furono strutture sociali autorevoli depositarie di una consolidata tradizione storico-religiosa. Per parte sua, il papato rafforzava un’alleanza di contenimento dell’Islam e delle mire di Bisanzio, al punto che Urbano II, nel 1088, riconobbe a Troìna Ruggero I Legato apostolico con il privilegio di nominare i vescovi, indossando simbolicamente i paramenti ecclesiastici; vescovi che furono soprattutto di nazione normanna.
Un’intesa che avrebbe fatto dimenticare anche altri successivi momenti di grave crisi, come la scomunica (novembre 1127) lanciata da Onorio II, a Benevento, a Ruggero II, che reclamava il potere su Puglia e Calabria in aggiunta a quello già detenuto sulla Sicilia; richieste accettate quindi dal papa Onorio II il 22 agosto 1128 con un concordato, sempre a Benevento, per cui Ruggero II riceveva dal sommo pontefice l’investitura del ducato di Puglia, in cambio del giuramento di fedeltà.
In sostanza, la scelta di campo per così dire filopontificia dei Normanni era una presa d’atto della differenza fra la Chiesa di Roma monocratica e centralistica, che offriva rapporti più diretti e univoci al nuovo regno normanno, anch’esso centralistico, rispetto alla Chiesa d’Oriente articolata sulla collegialità episcopale con ciascun componente in dipendenza diretta dal Cristo, sulla cui figura nel mistero trinitario le due Chiese avevano modellato differenti concezioni ancor prima dell’avvento dei Normanni. Inoltre, se c’era grande attenzione ai temi dell’etica da parte della Chiesa di Roma in continuità con la consolidata e universale tradizione giuridica romana, si registrava da parte orientale una forte valutazione del pensiero filosofico greco di origine idealistica, in particolare nella versione emanazionistica del neoplatonismo.
Sul piano teologico, poi, il discrimine insanabile fra le due Chiese era collegato alla figura del Cristo nel suo rapporto con lo Spirito Santo; la Chiesa di Roma, con l’aggiunta della parola filioque al Credo niceno, per cui lo Spirito Santo procedeva non solo dal Padre ma anche dal Figlio, aveva ribadito la centralità divina del Cristo e una diversa concezione della vita reale che vedeva dinamicamente organizzata su realtà comunitarie. Se, infatti, gli orientali, del mistero della Trinità, sottolineavano il principio monarchico, per cui Basilio Magno vedeva nel Figlio e nello Spirito Santo la destra e la sinistra del Padre, la Chiesa di Roma, con l’introduzione del Filioque, distingueva le tre figure trinitarie, così che il solo Figlio procedeva dal Padre, mentre lo Spirito Santo procedeva dal Padre e dal Figlio.
In sostanza, ad una concezione occidentale cristologica della realtà, Cristo-Dio e uomo, pienamente compatibile con la visione normanna del potere, si contrapponeva una convinzione orientale di tipo pneumatologico-individualistico con diversi interlocutori; una distinzione che avrebbe determinato nello sviluppo dell’iconografia sacra la predominanza della figura del Cristo nelle chiese occidentali e della Pentecoste in quelle orientali[18]. Ma alla figura del Cristo era sottesa quella del papa, suo vicario in terra, in una visione unificante e gerarchica della composita società siciliana, per il cui governo i Normanni volevano dal papa il riconoscimento del legame con il principio del patto di fedeltà dei sudditi verso il loro re.
Un convincimento in chiave assolutistica che, infatti, sul versante pontificio, trovava autorevole riscontro nel principio dell’obbedienza canonica e religiosa, considerato valido dalla dottrina conciliare anche nelle contese fra poteri laici. La prova della validità di tale assunto era stata, infatti, già precedentemente acquisita dal Concilio di Hohenalteim del 916, allorché, per dirimere una controversia del tutto laica perché insorta fra i prìncipi Enrico I di Germania e Corrado I di Franconia, fu richiesto il giudizio del Legato pontificio Pietro d’Orte, il quale, alla fine della sua istruttoria, dichiarò:
«Noi tutti – vescovi, preti e popolo – siamo concordi nell’emanare un decreto che affermi il regio potere e sviluppi il progresso della fede cristiana e del popolo. Si racconta infatti che molte nazioni siano diventate così poco fedeli da violare il giuramento prestato ai loro signori, e da giurare fedeltà a fior di labbra, avendo nei cuori il tradimento […]. Noi dichiariamo davanti a Dio, davanti agli angeli e davanti ai suoi profeti, che nessuno tra noi pensa alla morte o alla deposizione del re. Se per l’avvenire alcuno si rendesse colpevole di simile fallo sia anatema e condannato all’estremo giudizio».[19]
Un concetto cardine sulla legittimità del potere laico, ormai consolidato nella dottrina ecclesiastica romana da più di un secolo, che non poteva non soddisfare i re normanni, e che era ulteriormente ribadito anche dall’autorevole vescovo di Chartres, Fulberto (960 ca. – 1029), pressoché contemporaneo ai fatti che stiamo descrivendo, il quale, rivolto al duca Guglielmo il Grande di Guyenne così argomentava:
«Colui che giura fedeltà al suo signore deve sempre avere presenti queste sei parole. Incolume, tutum, honestum, utile, facile, possibile […] ossia egli non deve recare danno alcuno alla persona del suo signore; tutum, ossia non recargli danno nella sicurezza dei suoi luoghi segreti o delle sue piazzeforti; honestum, cioè non nuocergli nella giustizia o nelle altre cause che si riferiscono al suo onore; utile, ossia non recargli pregiudizio nei beni; facile vel possibile, vale dire non rendere difficile il bene che il suo Signore potrebbe fare facilmente, né gli renda impossibile quel che era possibile […].[20]
Questa nuova prospettiva storica ispirata al principio della territorialità e non, come è stato rilevato, a quello della persona, per cui i soggetti liberi presenti nel regno erano sottomessi al re culminò nelle ricordate Assise di Ariano[21]. Con quelle assemblee, Ruggero II, ispirandosi al diritto romano, alle teorie assolutistiche medievali, in parte appena ricordate, ed alla concezione teocratica del Papato, assegnava al re il potere assoluto concessogli direttamente dal Cristo-Dio, e quindi il ruolo di protettore della Chiesa, che vedeva però ridotta la propria autonomia, nonché un’ampia discrezionalità nell’amministrazione del potere, in cui trovava utile spazio la religione cattolica ritenuta uno dei fondamenti per il buon governo del nuovo Stato. Una concezione che riecheggiava la tradizione ciceroniana, per cui la pietas erga deos trovava fondamento in fides, virtus, iustitia generis humani societatis.
Tanta fu l’importanza che Ruggero II attribuì a questi princìpi che li volle raffigurati, come abbiamo visto, nel mosaico della Martorana, in cui egli riceve dal Cristo la corona regale; una prassi iconografica che sarebbe stata consolidata, come abbiamo visto, dal nipote Guglielmo II nel duomo di Monreale.
D’altra parte, dopo la grande riforma di Gregorio VII (1073- 1085), con risvolti talora drammatici per l’imperatore, per prìncipi, vescovi e chierici corrotti, la Chiesa di Roma, nel suo rinnovamento, cercava la conciliazione fra scettro e pastorale, come già auspicato dal canonista Ivo di Chartres (1040 -1115) finalizzata a realizzare un’autentica rigenerazione morale del clero. Il papato, dopo lo scisma di Michele Cerulario del 1054, guardava dunque di buon occhio, anche se con comprensibile prudenza, ai prìncipi normanni. Questi, pur essendo privi di una fede cattolica consolidata nel tempo e anche se campioni di spregiudicatezza politica – lo dimostrano gli episodi del temporaneo appoggio di Ruggero II all’antipapa Anacleto II e della successiva riconciliazione con Innocenzo II, nonché l’accordo di Guglielmo I, il quale, il 18 giugno 1156, firmò con Adriano IV il trattato di Benevento, ottenendo, fra l’altro, il riconoscimento su Sicilia, Puglia, Campania, Calabria – sarebbero stati utili alleati del papa contro l’Oriente scismatico, ma anche un valido presidio contro le ingerenze imperiali riguardo alle investiture vescovili.
Esemplare testimonianza di tale posizione pontificia appare questo passo di una lettera del luglio 1088 di Urbano II al vescovo di Aversa Guitmondo:
«Posti tra due gruppi di assalitori, tra gli empi e gli scismatici, non possiamo in nessun modo avere rapporti con gli scismatici. Abbiamo avuto invece rapporti con i peccatori ed i briganti perché, fino al momento della loro colpa, hanno difeso la Chiesa ed hanno promesso di esserle fedeli per l’avvenire».[22]
In conclusione, in Sicilia, Normanni e Papato realizzarono un’alleanza per fini utilitaristici, per contenere possibili risvegli espansionistici da nemici interni ed esterni. Il sigillo figurativo pubblico, se così si può dire, fu costituito dall’immagine potente ed universalistica del Cristo Pantokrator con il libro aperto recante due scritte evangeliche significativamente in lettere greche e latine; un’immagine trascendente, al limite dell’ascetico, posta sulla sommità delle absidi delle chiese normanne, legata concettualmente al destino della dinastia siciliana degli Altavilla, cui appartennero i Ruggeri e i Guglielmi, che perse tuttavia importanza con la loro uscita di scena.
Entrata a far parte della cultura figurativa normanno-sicula poco prima della metà del XII secolo, questa iconografia costituì un suggestivo riflesso estetico del travaglio teologico-politico nel riesame del mistero trinitario in rapporto alla piena centralità del Cristo di pensatori come Pietro Abelardo, Gilberto Porretano, Ugo di San Vittore, Pietro Lombardo, Gheroh di Reichersberg Guglielmo di Saint Thierry, Bernardo di Clairvaux. Ma i tempi, dopo Guglielmo II, volgevano verso mutamenti politici sostanziali.
L’arrivo in Sicilia, nel 1194, di Enrico VI, che avrebbe riunito sul suo capo e quindi su quello del figlio, Federico II, le due corone di Sicilia e dell’Impero senza vincoli di vassallaggio verso il papa, segnava la fine dell’autonomia del regno dei Normanni di Sicilia; un’autonomia che non era stata compromessa dai periodici scontri con il papa né dalle campagne militari contro Bisanzio, di Ruggero II, nel 1147, la seconda crociata e di Guglielmo II, nel 1185, la campagna contro Durazzo e Tessalonica, e, nel 1188, la terza crociata.
La nuova stagione fiorita con Enrico VI Hohenstaufen vide la nascita di un nuovo impero libero dal vincolo dell’elettività, su cui il papato avrebbe potuto influire; un impero nuovamente fondato sul principio dell’ereditarietà, che era stata caratteristica del regno normanno ma che avrebbe trovato compimento in seguito con Federico II, lo “stupor mundi”, il quale, nonostante due scomuniche pontificie, fu illuminato protettore nella sua corte di artisti, poeti, filosofi e scienziati di varia confessione religiosa, nonché fondatore dell’Università di Napoli, la quale ancora oggi orgogliosamente conserva il suo nome.
* Ringrazio la professoressa e amica Antonella Pampalone, con la quale ho confrontato diversi punti di vista.
Vitaliano TIBERIA (Roma 6 agosto 2024, festa della trasfigurazione di Gesù Cristo).
NOTE